il diritto commerciale d’oggi
    II.7 – luglio-agosto 2003

STUDÎ E COMMENTI

 

GIULIANA SCOGNAMIGLIO

Le fusioni (e le scissioni) “semplificate” nella riforma del diritto societario  *

 

 


     Sommario: 1. 1. L’istanza di semplificazione nella legge delega e la sua attuazione nel decreto legislativo n. 6/2003. – 2. La semplificazione delle fusioni a cui non partecipino società azionarie: art. 2505-quater. – 3. Segue. – 4. Segue. – 5. Segue. – 6. Su talune semplificazioni del procedimento di fusione di società azionarie. – 7. L’attestazione della società di revisione circa l’esistenza di sufficienti garanzie per i creditori. – 8. L’incorporazione di società controllate al 100%. – 9. Raffronto con le corrispondenti disposizioni della III direttiva comunitaria di armonizzazione del diritto societario. – 10. L’ipotesi dell’incorporazione di società posseduta al 90%. – 11. Il problema dell’applicabilità per analogia della disciplina da ultimo esaminata a fattispecie non espressamente contemplate.

     

     1. Fra i criteri della delega legislativa in materia di fusioni (e scissioni) societarie, enunciati dall’art. 7 della legge 3.10.2001, n. 366, un particolare risalto merita quello della “semplificazione” (1), del procedimento, “nel rispetto, per quanto concerne le società di capitali, delle direttive comunitarie”.
     Invero, già all’indomani del d. lgs. n. 22/1991, di recepimento della III (e della VI) direttiva comunitaria in materia di società, si era da più parti rilevato, in senso critico nei riguardi della nuova disciplina della fusione (modellata in maniera identica per tutte le operazioni di questo tipo, indipendentemente dalla dimensione e dalla complessità strutturale delle imprese partecipanti, seguendo passivamente lo schema del codice civile del 1942, e andando ben al di là delle prescrizioni comunitarie), che la complessità e la lunghezza del relativo procedimento avrebbero potuto comportare pesi ed oneri eccessivi soprattutto rispetto alle operazioni più semplici, in cui le società partecipanti siano società medio-piccole a base sociale ristretta, eventualmente costituite in forma di società di persone.
     Si erano, in altri termini, avanzate istanze di semplificazione del procedimento, che avrebbero poi trovato voce ed espressione nel citato art. 7, lettera a), della legge delega per la riforma del diritto societario, e che segnalavano l’opportunità di modulare la complessità procedimento in relazione, e al grado di complessità della specifica operazione di fusione, e alla dimensione e complessità strutturale delle imprese partecipanti (2).
     Il legislatore delegato ha correttamente recepito questa istanza, innanzi tutto prevedendo (art. 2505-quater), per quanto concerne le fusioni a cui non partecipino società azionarie (e cioè società il cui capitale è rappresentato da azioni: s.p.a., s.a.p.a., società cooperative per azioni), al fine di semplificare ed accelerare il procedimento, “tutta una serie di deroghe al modello di derivazione comunitaria”. Così si esprime, testualmente, la relazione ministeriale che accompagna il d. lgs. n. 6/2003, discorrendo, peraltro, in maniera non del tutto ortodossa, di “deroghe” alla disciplina comunitaria, là dove questa disciplina non ha invece bisogno di essere derogata, per quanto concerne le fusioni di società non azionarie, essendo il suo campo di applicazione dichiaratamente circoscritto al tipo della s.p.a.

     2. Passiamo dunque ad esaminare, più da vicino, le previsioni del citato art. 2505-quater, e cioè le semplificazioni che questa disposizione apporta, alle fusioni (3) a cui partecipino soltanto (4) società di persone (fra le quali è oggi espressamente annoverata la società semplice: cfr. art. 2502-bis, comma 2°) (5), società a responsabilità limitata o cooperative il cui capitale non sia rappresentato da azioni.
     Esse possono classificarsi in tre gruppi:
    a) disapplicazione della regola (art. 2501, comma 2) onde è interdetta la partecipazione ad una fusione di società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo e della regola (art. 2501-ter, comma 2) che fissa nel 10% del valore nominale delle azioni assegnate a ciascun socio la soglia massima del conguaglio in denaro attribuibile in sede di fusione;
    b) idoneità del consenso unanime dei soci ad elidere quel passaggio importante del procedimento (art. 2501-sexies), che consiste nella redazione e deposito di una relazione giurata di esperti indipendenti, in merito alla congruità del rapporto di cambio;
    c) riduzione alla metà di alcuni termini, precisamente di quelli previsti dagli artt. 2501-ter, comma 4, 2501-septies, comma 1, e 2503, comma 1.

     3. a) Nel primo gruppo ho classificato le “semplificazioni” che incidono non tanto sul procedimento, bensì sulla fattispecie stessa della fusione, o, forse potrebbe dirsi, sulla configurazione di quella subfattispecie, che è la fusione di società non azionarie.
     A dire il vero, non è a prima vista chiaro, in base al canone dell’interpretazione letterale, se le disposizioni qui “derogate” non si applichino per ciò che esse consentono (la partecipazione alla fusione di società che versano in stato di liquidazione, l’attribuzione di un conguaglio in contanti), ovvero per ciò che esse non consentono (la partecipazione alla fusione di società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo, ovvero l’attribuzione ai soci di un conguaglio superiore al 10% del valore nominale delle azioni assegnate s seguito della fusione).
     Ove si propendesse per la prima delle possibili letture, ne risulterebbero, per le società diverse da quelle azionarie, limitazioni all’accesso ad operazioni di fusione, o, più in generale, limitazioni alla utilizzabilità del nostro istituto, diverse ed ulteriori rispetto a quelle fissate per le fusioni di società il cui capitale è rappresentato da azioni: nel senso che le prime non potrebbe partecipare ad una fusione, una volta verificatasi una causa di scioglimento del rapporto sociale, e non potrebbero, in sede di fusione, “conguagliare” in denaro le partecipazioni mancanti rispetto al coefficiente di concambio o ad un multiplo di esso.
     Ma l’imposizione di limiti ulteriori e più rigidi rispetto a quelli previsti per le società azionarie sembra porsi in contrasto con lo spirito complessivo della disciplina in esame, che sembra piuttosto quello di alleggerire ed accelerare le operazioni di ristrutturazione mediante fusione che coinvolgano società personali, ovvero società capitalistiche di tipo chiuso (s.r.l.).
     Sembra allora doversi accreditare di una maggiore attendibilità, e rispondenza alla ratio complessiva dell’art. 2505-quater, l’opposta lettura (6): alla stregua della quale l’accesso alla fusione viene consentito, alle società non azionarie, anche in presenza di una parziale liquidazione dei singoli rapporti di partecipazione (essendo già iniziata la ripartizione dell’attivo sociale), così come viene consentito, in costanza di fusione, di liquidare (un tempo si diceva “disinteressare”) parzialmente i singoli soci attraverso l’attribuzione di una somma di denaro, che non assolverebbe allora, o potrebbe non assolvere, soltanto alla funzione di conguaglio, come sopra descritta.
     Ciò non è privo di riflessi, come poc’anzi si accennava, sulla stessa identificazione e qualificazione della fattispecie: autorizzare la fusione quando i singoli soci siano stati già parzialmente “liquidati”, ovvero autorizzare – in costanza di fusione – una parziale liquidazione della partecipazione dei singoli soci significa forse rinunciare, per le fusioni non azionarie, a quel principio di continuità e continuazione dei rapporti di partecipazione originari nella società risultante, che nella nostra esperienza giuridica era ormai stato acquisito come uno dei tratti salienti dell’istituto della fusione, intesa quale vicenda (estintiva della società come ente giuridico, ma soltanto) modificativa, e non estintiva, della società come rapporto.
     In punto di identificazione e composizione dei diversi interessi in gioco, osservo che la rigida barriera onde è preclusa, alle società azionarie, la fusione in presenza di una parziale liquidazione dei soci, ed è interdetta la parziale liquidazione attraverso l’attribuzione di un importo in contanti in misura superiore al 10% del valore nominale delle azioni assegnate in cambio di quelle originarie, è probabilmente da considerare come eretta a protezione dell’interesse a che la fusione non comporti, quando coinvolga appunto società capitalistiche di maggiori dimensioni, l’erosione dei rapporti di partecipazione preesistenti e dunque la depatrimonializzazione delle società stesse; interesse che viene reputato evidentemente non meritevole o non bisognoso di tutela imperativa nelle società di tipo personalistico.
     Mi domando tuttavia se una siffatta scelta non si giustifichi esclusivamente rispetto a quelle società, in cui la garanzia patrimoniale è data (anche) dalla responsabilità personale ed illimitata dei soci; e non si palesi invece discutibile in rapporto alle s.r.l., in cui il patrimonio della società costituisce la garanzia esclusiva dei terzi.

     4. b) Meno rilevanti difficoltà di inquadramento teorico suscita la “semplificazione” che consiste nella possibilità di rinunciare, per consenso unanime dei soci, alla relazione giurata sul rapporto di cambio, redatta dall’esperto o dagli esperti di cui all’art. 2501-sexies.
     Si tratta, è il caso di osservare subito, di una semplificazione che risponde ad evidenti esigenze pratiche, già segnalate dall’esperienza applicativa del d. lgs. n. 22/1991 (7), in particolare all’esigenza di evitare il costo (in termini di tempo e di denaro) di una verifica esterna del rapporto di cambio, là dove questa verifica, predisposta dal legislatore allo scopo di agevolare la soluzione di eventuali conflitti fra i soci o fra gruppi di soci, sia in fondo superflua, in considerazione della circostanza che le diverse compagni sociali sono del tutto unanimi nel decidere la fusione alle condizioni indicate nel progetto.
     Qualche dubbio potrebbe forse prospettarsi in punto di procedura: e cioè in ordine al metodo e al momento di rilevazione del consenso dei soci, che giustifica e supporta la rinunzia di cui si discorre.
     Si potrebbe, in altri termini, avanzare il dubbio che detta rinuncia debba essere preventiva, rispetto alla decisione di fusione, in quanto – nel procedimento ordinario – la relazione degli esperti viene redatta e depositata nella sede delle società partecipanti, insieme agli altri documenti, prima della data della riunione dei soci, convocata per deliberare in ordine al progetto di fusione.
     Tuttavia, mi sembra che, trattandosi evidentemente di compagini sociali ristrette ed armoniose, nelle quali è comunque possibile – per gli amministratori – tastare il terreno, premunendosi con una preventiva, informale acquisizione di consensi, sia poi sufficiente che detti consensi vengano formalmente acquisiti in occasione della riunione dei soci ex art. 2502, ed in quella stessa occasione verbalizzati, per rendere immune da censure l’operato degli amministratori, che abbiano provveduto a convocare la riunione stessa, senza essersi preventivamente procurati il parere sulla congruità del rapporto di cambio.
     È il caso di sottolineare che dovrà darsi conto nel verbale dell’esistenza di un consenso unanime di tutti i soci (non solo dei presenti alla riunione): pertanto, gli amministratori, nel convocare la riunione, dovranno invitare coloro che non volessero o non potessero parteciparvi a far pervenire alla società, prima della data fissata, una dichiarazione scritta di assenso alla rinuncia; in difetto della quale, non potrà a mio avviso ritenersi integrato il presupposto di legge. Beninteso, una volta acquisita e dichiarata a verbale la rinuncia unanime di tutti i soci alla relazione degli esperti sul rapporto di cambio, l’approvazione del progetto di fusione potrà avvenire a maggioranza (da determinare in ragione della «parte attribuita a ciascuno negli utili»), secondo la regola “rivoluzionaria” introdotta dall’art. 2502, comma 1.
     Infine, non sembra superfluo sottolineare che il consenso di tutti i soci delle diverse società (non azionarie) partecipanti alla fusione, se legittima la deroga alla regola onde è prevista la relazione degli esperti indipendenti sulla congruità del rapporto di cambio (art. 2501-sexies, commi dal primo al sesto), non potrebbe per converso giustificare la disapplicazione del disposto del settimo ed ultimo comma del medesimo art. 2501-sexies, onde è stabilito che, nel caso di fusione di società di persone con società di capitali, venga redatta (dagli stessi esperti che avrebbero dovuto estendere, se il consenso unanime dei soci non li avesse esonerati da questo compito, il rapporto di congruità sul coefficiente di con cambio delle partecipazioni) «la relazione di stima del patrimonio della società di persone a norma dell’art. 2343» cod. civ. L’insufficienza della volontà, sia pure concorde, dei membri della compagine sociale a disattivare l’obbligo imposto dalla disposizione appena richiamata deriva da ciò, che la prescritta relazione di stima, in quanto persegue l’obiettivo di asseverare l’effettiva consistenza del patrimonio della società di persone destinato a riversarsi in quello della società di capitali risultante dalla fusione, assolve alla tutela di interessi dei terzi, come tali non disponibili da parte dei soci.

     5. c) Problemi ancora minori solleva la prevista riduzione alla metà di alcuni dei termini onde è scandita la disciplina del procedimento ordinario di fusione: riduzione evidentemente disposta in funzione di un accorciamento, anche consistente, della durata del procedimento stesso.
     Tale durata, è superfluo osservarlo, costituisce di per sé un costo per le imprese, non facilmente tollerabile in relazione ad operazioni coinvolgenti società di piccole o piccolissime dimensioni, con un numero limitato di soci e di creditori (8).
     Del resto non è questo il primo caso in cui il legislatore sia intervenuto, allo scopo di ridurla in deroga alla regola generale, sulla durata del procedimento di fusione o di scissione, così come risultante dal d. lgs. n. 22/1991.: fra le altre, si può qui ricordare, come particolarmente significativa, la disposizione dell’art. 57, comma 3, d. lgs. n. 385/1993 (testo unico bancario), onde è ridotto a 15 giorni – per le “fusioni e le scissioni alle quali prendono parte banche” – il termine per l’opposizione dei creditori prevista dall’art. 2503 cod. civ.

     6. L’istanza della semplificazione, più volte avanzata dai pratici negli anni successivi all’introduzione (con il citato d. lgs. n. 22/1991) di una disciplina analitica del procedimento di fusione, e recepita dal legislatore, a tal punto da farne – come si è constatato – uno dei criteri della delega legislativa in materia di fusioni e scissioni, non rimane peraltro circoscritta al terreno delle fusioni a cui partecipano società personalistiche.
     Essa investe, per taluni aspetti e profili che mi accingo ora ad esaminare, anche le fusioni fra società di capitali appartenenti ai tipi più complessi ed il cui capitale è rappresentato da azioni.
     Anche su questo terreno, la semplificazione si risolve talora in una mera (possibilità di) accelerazione del procedimento: viene infatti prevista, rispettivamente dall’art. 2501-ter, ultimo comma, e dall’art. 2501-septies, primo comma, la possibilità che i soci rinuncino, con consenso unanime, al termine di trenta giorni fra l’iscrizione del progetto nel registro delle imprese e la data fissata per la decisione in ordine alla fusione (9) e al termine, pure di trenta giorni, durante il quale il progetto e gli altri documenti rilevanti devono restare depositati, a disposizione dei soci che vogliano prenderne visione, nella sede delle società partecipanti alla fusione, prima della data di convocazione dell’assemblea. È fondato supporre che, in concreto, la seconda rinuncia non andrà disgiunta dalla prima: nel senso che se i soci hanno concordemente interesse ad accelerare il procedimento, saranno indotti a rinunciare tanto al primo, quanto al secondo termine, in modo da consentire agli amministratori la convocazione della riunione assembleare già pochi giorni dopo che il progetto sia stato legalmente reso noto e la restante documentazione sia stata predisposta e messa a disposizione dei soci.
     È altresì il caso di osservare che l’eventuale rinuncia per consenso unanime non riguarda il diritto di essere informati delle condizioni, termini e modalità dell’operazione attraverso il progetto, né il diritto di accedere gratuitamente agli altri documenti elencati nell’art. 2501-septies, bensì investe esclusivamente la durata del periodo di pubblicazione e consultazione di detti documenti prima dell’assemblea: periodo che può essere, per consenso unanime, accorciato, in relazione alla circostanza che si tratti ad esempio di un’operazione elementare, coinvolgente due o comunque poche società a base sociale ristretta e non conflittuale, sì da ridurre al minimo il tempo necessario a ciascun socio per delibare l’operazione ed acquisire i dati utili ai fini di un esercizio consapevole del voto.
     Il dubbio, che anche qui si pone, circa le modalità di rilevazione del consenso dei soci, è da risolvere a mio avviso negli stessi termini che sono stati sopra prospettati in ordine alle fusioni di società non azionarie: è invero difficile pensare ad un’acquisizione dei consensi preventiva rispetto ala riunione dei soci convocata ai sensi dell’art. 2502. È d’altra parte evidente che una siffatta “semplificazione” sarà possibile solo se le società partecipanti alla fusione siano comunque caratterizzate da compagini sociali ristrette ed armoniche, sì da avvicinarle, appunto, alle società di tipo personalistico.

     7. Un’ulteriore possibilità di accelerazione del procedimento è prevista, testualmente per tutte le fusioni, ma in pratica per quelle che più complesse o che comunque coinvolgono società di dimensioni medio-grandi (10), dall’art. 2503 novellato. La citata disposizione stabilisce infatti che la fusione possa essere attuata immediatamente dopo la deliberazione dei soci, non solo nei casi già contemplati dal vigente testo del medesimo art. 2503, ma anche nel caso in cui la relazione sul rapporto di cambio ex art. 2501-sexies sia stata redatta, “per tutte le società partecipanti alla fusione, da un’unica società di revisione la quale asseveri, sotto la propria responsabilità (…), che la situazione patrimoniale e finanziaria delle società rende non necessarie garanzie a tutela dei creditori”.
     Le imprese avranno dunque a disposizione, oltre a quelli già previsti dalla medesima disposizione nel testo precedente, un ulteriore mezzo idoneo ad elidere il termine di sessanta giorni per l’opposizione dei creditori alla fusione.
     Ciò contribuirà probabilmente a sdrammatizzare il problema, avvertito con una certa acutezza dalla giurisprudenza teorica e pratica, della sorte dell’atto di fusione stipulato ante diem, e cioè prima della scadenza del termine di legge. La stipulazione prima dei sessanta giorni è spesso dettata dall’esigenza pratica di accelerare la conclusione del procedimento, ma espone le imprese al rischio della dichiarazione giudiziale di inefficacia della fusione (11). Rischio che potrebbe ora supporsi ridotto, per essere stata appunto riconosciuta alle imprese una possibilità ulteriore di elisione del diritto di opposizione dei creditori sociali.
     La tutela di questi ultimi sperimenta, d’altro canto, un’ulteriore ipotesi di slittamento dal piano reale, sul quale può essere conseguita attraverso lo strumento dell’opposizione, a quello obbligatorio. La società di revisione, che rilasci l’asseverazione prevista dalla disposizione dianzi menzionata, risponde dei danni eventualmente cagionati ai terzi; e l’azione risarcitoria potrà essere intentata da questi ultimi anche successivamente al perfezionarsi del procedimento di fusione, in quanto nei suoi confronti non opera, come nei confronti delle azioni di invalidità, l’efficacia preclusiva dell’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto conclusivo del procedimento (cfr. art. 2504-quater, 2° comma, non modificato dal decreto legislativo di riforma).

     8. E veniamo infine alle ipotesi più “eclatanti” di semplificazione del procedimento di fusione, regolate rispettivamente nell’art. 2505 e nell’art. 2505-bis del codice novellato (12). Le citate disposizioni riguardano la fusione mediante incorporazione di società (per azioni o responsabilità limitata) (13) possedute interamente dall’incorporante, ovvero da essa “partecipate” almeno al 90%.
     La semplificazione investe, in quelle ipotesi, la struttura stessa del procedimento, in quanto si prevede il possibile spostamento dall’assemblea all’organo amministrativo della competenza a deliberare la fusione.
     Perché si verifichi detto spostamento di competenza, non sembra peraltro sufficiente la previsione di legge: occorre, in aggiunta, una specifica “autorizzazione” in sede statutaria, secondo il disposto dell’art. 2365, comma 2.
     Quest’ultima disposizione si riferisce, com’è noto alle s.p.a. e non è richiamata o riprodotta per le s.r.l. Quanto a quest’ultime, pertanto, si potrebbe dubitare della legittimità della clausola statutaria che deferisse agli amministratori, sia pure nelle specifiche ipotesi di cui ai citati artt. 2505 e 2505-bis, la competenza a deliberare l’incorporazione nella società controllante totalitaria; tanto più se si condivida l’opinione, confortata a mio avviso dal dettato dell’art. 2479 sulle decisioni dei soci nella s.r.l., secondo la quale, in questo tipo societario, sono in ogni caso riservate alla competenza dei soci, e rientrano altresì fra quelle assoggettate necessariamente al metodo assembleare, le (decisioni relative alle) modificazioni dell’atto costitutivo; categoria nella quale si è soliti classificare le deliberazioni di fusione. L’assunto della inderogabilità, nella s.r.l., della competenza dei soci in ordine a determinate delibere, è ulteriormente corroborato da ciò, che l’art. 2473 riconosce “in ogni caso” il diritto di recesso ai soci di s.r.l. che “non hanno consentito” alla sua fusione o alla sua scissione; e l’esercizio di questo diritto presuppone, mi pare, il dissenso dei soci stessi rispetto ad una decisione che non può, allora, essere assunta “altrove”, e cioè deferita, per scelta statutaria, agli amministratori. Ne consegue, probabilmente, l’inapplicabilità, per questo aspetto, della disciplina in esame al tipo della s.r.l.; a meno di non voler opinare nel senso che le disposizioni degli artt. 2505 e 2505-bis importano, sotto il profilo ora considerato, una deroga tanto all’’art. 2479, quanto all’art. 2473 (essendo difficile concepire un diritto dei soci di recedere dalla società a causa del loro dissenso da decisioni prese dagli amministratori).
     Quanto all’ambito oggettivo di applicazione della disciplina speciale che mi accingo ad esaminare, è stabilito (dall’art. 2501-bis, ultimo comma) che essa non si applichi alle fusioni descritte nel primo comma della medesima disposizione, e cioè alle fusioni di società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, quando per effetto della fusione il patrimonio di quest’ultima venga a costituire la garanzia generica del creditore o la fonte dei mezzi per il rimborso dei suddetti debiti (fusione nell’ambito di operazioni di c.d. leveraged buy-out).
     La ratio dell’esclusione non è perspicua; né alcun ausilio viene al riguardo fornito dalla relazione accompagnatoria del decreto, nella quale, a proposito della disciplina (del tutto nuova nel nostro ordinamento) delle operazioni di leveraged buy-out, ci si limita a richiamare i criteri e principi enunciati nella legge di delega ed in particolare il principio per cui dette operazioni, purché rispettino determinate regole, non sono da considerare in contrasto con le norme in materia di acquisto e sottoscrizione di azioni proprie, né con la regola onde è interdetto alla società di erogare finanziamenti o rilasciare garanzie per l’acquisto di azioni proprie.
     È fondato supporre che, nell’enunciare la regola dell’inapplicabilità, alle fusioni connesse con operazioni di l.b.o., della disciplina di semplificazione contenuta negli artt. 2505 e 2505-bis il legislatore plus dixit quam voluit: probabilmente si voleva affermare soltanto il principio che, quando il procedimento di fusione per incorporazione di società controllate al 100% o al 90% si realizzi in collegamento appunto con operazioni di l.b.o., non possono in alcun caso mancare né la relazione dell’organo amministrativo ex art. 2501-quinquies (che deve, nel caso specifico, necessariamente indicare le ragioni giustificatrici dell’operazione e contenere un piano economico-finanziario, con indicazione delle risorse finanziarie e descrizione degli obiettivi che si intendono raggiungere: art. 2501-bis, comma 3°), né il parere degli esperti previsto dall’art. 2501-sexies (a cui è affidato il compito di attestare la ragionevolezza delle indicazioni contenute nel progetto di fusione relative alle risorse finanziarie previste per il soddisfacimento dei debiti della società risultante dall’operazione: art. 2501-bis, comma 4°).
     Più difficile è sostenere, adducendo il tenore letterale apparentemente non equivoco dell’ultimo comma dell’art. 2501-bis, l’impossibilità di far capo per esempio alla “semplificazione” onde è consentito disapplicare, in presenza di un rapporto di controllo totalitario fra l’incorporante e l’incorporanda, le regole in materia di determinazione e illustrazione del rapporto di cambio e di verifica esterna della sua congruità.

     9. È il caso di ricordare che, per quanto riguarda le s.p.a. (14), la disciplina contenuta nei nostri artt. 2505 e 2505-bis trova un immediato antecedente nella direttiva comunitaria n. 78/855/CEE sulla fusione di società; ed infatti nella relazione di accompagnamento del d. lgs. n. 6/2003 si legge al riguardo che “si è sfruttato il margine di discrezionalità concesso agli stati membri dagli artt. 25 e 27 della direttiva, per consentire, in ipotesi di fusione per incorporazione di una o più società in un’altra che possiede almeno il 90% di tutte le oro azioni o quote, che l’approvazione della fusione stessa venga effettuata dall’organo amministrativo”.
     Un raffronto fra la disciplina interna e quella comunitaria può allora giovare alla comprensione delle scelte compiute e delle soluzioni adottate con la riforma del 2003.
     La fattispecie contemplata dalla citata direttiva comunitaria, all’art. 24, è quella dell’incorporazione di due o più società in un’altra, che sia titolare di tutte le loro azioni e di tutti gli altri titoli che conferiscono un diritto di voto nell’assemblea generale. La disciplina applicabile in via ordinaria è quella generale della fusione mediante incorporazione (artt. 5 e seguenti della direttiva), con gli adattamenti resi necessari dalla circostanza che in questo tipo di operazione non vi è naturalmente luogo alla determinazione di un rapporto di cambio e all’assegnazione di azioni dell’incorporante agli azionisti dell’incorporata.
     Il successivo art. 25 consente agli Stati membri di non applicare, alle operazioni del tipo sopra descritto, la disposizione dell’art. 7 (sulla competenza dell’assemblea generale dei soci a deliberare la fusione), purché sussistano le seguenti condizioni: a) pubblicità del progetto di fusione almeno un mese prima della data di efficacia dell’operazione; b) diritto di ciascun azionista dell’incorporante di prendere visione gratuitamente, almeno un mese prima della data di efficacia dell’operazione, del progetto, dei bilanci d’esercizio precedenti e del bilancio di fusione; c) riconoscimento, agli azionisti dell’incorporante titolari di una partecipazione al capitale da fissare in una percentuale non più elevata del 5%, con eventuale esclusione dal computo delle azioni senza voto, del diritto di ottenere la convocazione di un’assemblea generale dei soci dell’incorporante per deliberare in quella sede in merito alla fusione.
     La disciplina introdotta con l’art. 2505 del codice novellato trascrive quasi alla lettera le disposizioni comunitarie. Dunque, alla incorporazione di società controllate al 100% non si applicano le regole che attengono all’informazione dei soci in ordine al rapporto di cambio, alla illustrazione di detto rapporto ad opera degli amministratori ed alla verifica ad opera degli esperti esterni alla società. È tuttavia necessaria, per ciascuna delle società partecipanti, la redazione e la pubblicazione del progetto; per quanto riguarda l’incorporante, è altresì necessario il deposito presso la sede sociale dei documenti previsti dall’art. 2501-septies, con la sola esclusione – forse motivata dalla considerazione che qui l’interesse dei terzi creditori non rileva, dato il rapporto di partecipazione totalitaria esistente fra le società coinvolte nell’operazione (15) – delle situazioni patrimoniali di fusione previste dall’art. 2501-quater.
     La deliberazione di fusione viene assunta, a condizione che i rispettivi statuti contengano una previsione in tal senso (16), dall’organo amministrativo (17) delle società partecipanti e deve risultare da atto pubblico, a cui si applica – è da ritenere – la disciplina dell’art. 2504 (iscrizione nel registro delle imprese).
     La deliberazione deve però essere assunta dall’assemblea a norma dell’art. 2502, se vi sia una richiesta in tal senso di tanti soci dell’incorporante che rappresentino almeno il 5% del capitale di quest’ultima (18); richiesta che andrà indirizzata alla società incorporante medesima, entro otto giorni dal deposito del progetto di fusione nel registro delle imprese.
     Dunque, competenza in linea di principio degli amministratori (se lo statuto la prevede), in nome dell’esigenza di favorire i processi di razionalizzazione e ristrutturazione all’interno dei gruppi, eventualmente eliminando scatole cinesi ed accorciando le catene di controllo. Ma restituzione della competenza all’organo assembleare, là dove i soci minoritari dell’incorporante (nell’incorporanda per ipotesi non ve ne sono) valutino conforme al proprio interesse la discussione collegiale, nella sede dell’assemblea, in merito alla progettata operazione.

     10. La disciplina dell’incorporazione di società possedute al 90% o più dall’incorporante è dettata, in sede comunitaria, dall’art. 27 della direttiva. Essa è simile a quella della fattispecie considerata nel paragrafo precedente, in quanto consente di derogare alla competenza assembleare in ordine alla deliberazione di fusione, alle medesime condizioni previste dal citato art. 25 della direttiva. Ma – qui sta il punto – la deroga alla competenza assembleare è limitata, e pur sempre con la salvezza del diritto dei soci titolari del 5% di chiedere comunque la convocazione dell’assemblea, alla sola società incorporante; per cui, per le incorporande, deve affermarsi comunque la competenza dell’assemblea dei soci a deliberare in ordine alla fusione.
     Nel trascrivere la regola nel nostro ordinamento, il legislatore italiano ha anche qui precisato che lo spostamento di competenza a favore dell’organo amministrativo, oltre che essere limitato in questo caso all’incorporante e comunque subordinato alle condizioni già esaminate nel paragrafo 9, richiede, come nel caso in precedenza considerato, una specifica previsione o autorizzazione dello statuto o dell’atto costitutivo.
     La limitazione all’incorporante dello spostamento di competenza decisionale è giustificata verosimilmente da ciò, che nell’incorporanda vi sono per ipotesi soci minoritari (portatori di una percentuale del capitale pari o inferiore al 10%), i quali vengono tutelati attraverso la possibilità di partecipare attivamente alla decisione nella sede dell’assemblea generale.
     Anche nell’incorporante possono naturalmente esservi soci “esterni”, e comunque dissenzienti rispetto alla fusione infragruppo, a protezione dei quali è prevista appunto la facoltà di avanzare una specifica istanza di convocazione dell’organo assembleare.
     La presenza di soci “esterni” nelle incorporande (ed il conseguente conflitto d’interessi fra socio di controllo e gruppi di minoranza in ordine alla determinazione del coefficiente di concambio delle partecipazioni) spiega altresì l’impossibilità, qui a differenza che nell’ipotesi considerata nel paragrafo precedente, di disapplicare le regole che presiedono alla formazione, alla illustrazione ed alla verifica del rapporto di cambio delle azioni o delle quote.
     Tuttavia, si stabilisce (art. 2505-bis, comma 1) che della relazione degli esperti sul rapporto di cambio ai sensi dell’art. 2501-sexies possa farsi a meno, se venga concesso ai soci “esterni” dell’incorporanda il diritto di far acquistare le proprie azioni dall’incorporante ad un prezzo da determinare alla stregua dei criteri fissati per la quantificazione della quota da liquidare al socio recedente.
     La disposizione applica un istituto, quello del diritto del socio di far acquistare le proprie azioni dalla società o da un altro soggetto, che, finora sconosciuto, almeno in questi termini, al nostro ordinamento, viene utilizzato in molteplici occasioni dalla riforma del 2003 (basti richiamare l’art. 2355-bis, 2° comma, in tema di clausole di gradimento mero, o l’art. 2506-bis, quarto comma, in tema di scissione non proporzionale).
     Deve peraltro constatarsi che la disposizione in esame non è di interpretazione agevole.
     Alla sua stregua, sembra che il riconoscimento ai soci – in sede, verosimilmente, di progetto di fusione – del diritto di farsi acquistare le azioni dalla società incorporante, vale a disapplicare non l’intera disciplina del rapporto di cambio, bensì solo la regola onde è imposta la perizia sul medesimo ad opera degli esperti indipendenti.
     Dunque, si suppone che un rapporto di cambio sia stato fissato ed indicato altresì nel progetto, ma che esso non venga “accettato” dai (o da alcuni dei) soci dell’incorporanda.
     A questi viene allora consentita l’alternativa “malinconica” del disinvestimento: piuttosto che diventare, alle condizioni risultanti appunto dal rapporto di cambio, soci dell’incorporante, essi potranno adire il percorso dell’exit, alle stesse condizioni previste per il caso di recesso (dalla società incorporata o dall’incorporante?) (19).
     Ritorna, ancora una volta, e del tutto indipendentemente (se non addirittura in divergenza) dai vincoli normativi comunitari, il leitmotiv della fusione come vicenda non di (mera) modificazione, bensì di (possibile) estinzione del rapporto sociale, e cioè della partecipazione di singoli soci: il che comporta forse riflessi sistematici non privi di consistenza sulla costruzione generale del fenomeno, e conferma la circostanza, già da più parti rilevata, che il nuovo diritto delle società privilegia, in tutte le possibili ipotesi di conflitto fra le esigenze efficientistiche della maggioranza e quelle (di conservazione del valore del proprio investimento nella società) del socio di minoranza, le prime, aprendo – molto più frequentemente che nel passato – al secondo la strada del (puro e semplice) disinvestimento.

     11. Un problema già dibattuto nel vigore della disciplina introdotta nel 1991, e che verosimilmente continuerà a suscitare l’interesse della giurisprudenza teorica e pratica, è quello relativo all’applicabilità o no per analogia della disciplina in tema di incorporazione di società possedute al 100%.
     Sembra di poter dire che le fattispecie che al riguardo vengono in considerazione, e che sono state infatti evocate innanzi ai giudici, siano essenzialmente due: a) l’incorporazione di s.p.a. avente gli stessi soci dell’incorporante nelle medesime proporzioni; b) l’incorporazione di società totalitariamente controllate dalla stessa società che possiede al 100% l’incorporante.
     Il dibattito verteva, alla stregua della disciplina ormai moritura, essenzialmente sul punto, se nelle fattispecie testé richiamate fosse possibile, in applicazione appunto analogica della regola concernente l’incorporazione di società figlia posseduta al 100%, l’esonero dagli adempimenti in materia di determinazione, illustrazione e verifica del rapporto di cambio (20). È il caso di osservare che, essendosi ora arricchita la disciplina del fenomeno direttamente contemplato dal legislatore (con l’aggiunta della regola onde consentito lo spostamento di competenza in capo all’organo amministrativo), la questione qui considerata pure si arricchisce di un nuovo profilo, dovendosi indagare se anche quest’ultima regola sia suscettibile di applicazione, in via di analogia, ai casi simili dianzi indicati.
     In ordine al primo punto, sembra di dover ribadire l’orientamento, forse già oggi prevalente, secondo cui gli adempimenti concernenti il rapporto di cambio possono essere omessi nei casi “simili” ai quali già si è accennato: nel primo, descritto sotto la lettera a), data l’identità della compagine sociale e l’identità delle proporzioni secondo cui i singoli soci partecipano tanto nell’incorporanda, quanto nella società incorporante, appare oggettivamente superflua la determinazione di un rapporto di cambio; nel secondo, descritto sotto b), l’omissione del rapporto di cambio e dei connessi adempimenti dovrebbe poter essere legittimamente decisa dal socio unico comune delle due società partecipanti alla fusione, in quanto detta decisione non pare suscettibile di toccare interessi diversi dai suoi (21).
     Maggiore cautela sembra invece doversi usare nella risposta al quesito sull’applicazione analogica della regola che attiene alla competenza; quesito che, giova osservarlo, deve essere ulteriormente articolato, in quanto è da domandarsi da un lato se la disposizione dell’art. 2505 cod. civ. novellato autorizzi l’autonomia statutaria all’estensione della regola a casi non coincidenti con quello legislativamente disciplinato, dall’altro se una clausola statutaria riproduttiva del disposto di legge possa essere poi interpretata nel senso della sua applicabilità ai casi ulteriori di cui si è detto.
     La cautela sembra imposta da ciò, che, vertendo la “decisione di fusione” (22) sul rapporto di partecipazione sociale (dunque sul contratto) e sulla modificazione o gestione di tale rapporto (23), essa spetta in principio ai soci, sicché la deroga a tale competenza deve esser considerata eccezionale.
     D’altro canto, è la stessa disposizione del nuovo art. 2505 a indicarci che lo spostamento di competenza in capo all’organo amministrativo non solo non può prescindere dal consenso dei soci espresso nella sede dello statuto, ma incontra altresì, comunque, un limite nel diritto dei soci “esterni al controllo”, allocati nell’incorporante, di “chiedere che la decisione di fusione da parte dell’incorporante medesima sia adottata a norma del primo comma dell’art. 2502”, e cioè nella sede dell’assemblea straordinaria, purché la richiesta sia suffragata da almeno il 5% del capitale sociale.
     Parrebbe, pertanto, ragionevole assumere che l’eventuale applicazione analogica della disciplina in esame debba in ogni caso soggiacere ai medesimi limiti onde è circondata l’applicazione della regola al caso direttamente contemplato, ed in particolare far salvo il diritto della minoranza estranea al gruppo di controllo, ovunque allocata (24), di pretendere che la competenza decisionale venga riportata in capo all’organo assembleare.

 

     * Il presente lavoro è destinato alla pubblicazione su “Rivista del notariato”.

 

Note

     (1) Alla stregua della legge delega n. 366/2001, l’istanza di “semplificazione” non investe, è il caso di osservarlo, soltanto le vicende modificative e riorganizzative, ma si proietta sull’intera disciplina delle società, “tenendo conto delle esigenze delle imprese e del mercato concorrenziale” (cfr. art. 2, lettera c) legge cit.).

     (2) Nella disciplina vigente fino al 31-12-2003, è prevista un’ipotesi di semplificazione del procedimento di fusione nel caso (art. 2504-quinquies) di incorporazione di società interamente posseduta dall’incorporante, ed una semplificazione del procedimento di scissione nel caso di scissione proporzionale a favore di società neo-costituite (art. 2504-novies, 3° comma). È con riferimento a queste specifiche ipotesi che si suole oggi parlare di fusione o, rispettivamente, di scissione semplificata. È da attendersi che, alla stregua della disciplina risultante dalla legge di riforma, l’espressione assumerà un contenuto più ampio ed al tempo stesso più generico, giacché sarà adoperata per designare nel loro insieme tutti i casi in cui sia possibile derogare alla disciplina “di base” dei fenomeni qui considerati, alleggerendola.

     (3) Non invece alle scissioni: la disposizione in esame non è infatti menzionata fra quelle applicabili alle operazioni di scissione, a cui partecipino s.r.l. ovvero società personali. La ragione del mancato richiamo non è tuttavia agevolmente comprensibile (tanto più che la direttiva di semplificazione, enunciata nel citato art. 7 l. n. 366/2001, riguarda tanto la fusione, quanto la scissione): sorge pertanto il dubbio che esso sia il frutto di una svista del legislatore delegato. Ed è il caso altresì di domandarsi se la svista non sia recuperabile, almeno rispetto a talune delle subfattispecie di scissione, attraverso la considerazione che, in particolare, la scissione a favore di società preesistenti realizza in realtà un fenomeno del tutto simile alla fusione, e sia pure ad una fusione “parziale”, mediante incorporazione, in ciascuna delle società scissionarie, di parte del patrimonio della scissa.

     (4) È sufficiente, secondo la testuale previsione dell’art. 2505-quater, che alla fusione partecipi una sola società con capitale rappresentato da azioni per escludere l’applicabilità della disciplina di semplificazione.

     (5) Ciò dovrebbe decretare la fine del dibattito, un tempo addirittura vivace, sul punto se la disciplina codicistica della fusione si applichi anche a questo particolare modello o subfattispecie di società personale; modello che è ignorato dall’art. 2502-bis, nel testo tuttora in vigore – risultante dal d. lgs. n. 22/1991, in ragione verosimilmente della mancata soggezione della società semplice alla pubblicità legale, al tempo in cui venne emanato, in attuazione delle direttive comunitarie, il decreto legislativo appena richiamato.

     (6) Per la quale vedi ora F. GUERRERA, Trasformazione, fusione e scissione, in N. ABRIANI ed altri, Diritto delle società di capitali (manuale breve), Giuffrè, Milano, 2003, p. 336.

     (7) Si tratta, è appena il caso di ricordarlo, del decreto legislativo mediante il quale furono recepite nel nostro ordinamento le direttive comunitarie di armonizzazione del diritto societario, relative alla fusione ed alla scissione di società (precisamente la III e la VI direttiva in materia di società). Sebbene la disciplina di origine comunitaria facesse riferimento alle sole (fusioni e scissioni di) s.p.a., il legislatore interno aveva seguito, nel recepirla, il criterio, già adottato dal codice civile del 1942, di dettare una disciplina unitaria, applicabile “trasversalmente” a tutti i tipi di società, senza probabilmente avvedersi che ciò avrebbe comportato, dal punto di vista delle società personali, l’assoggettamento ad una disciplina notevolmente complessa e rigida, senza che ciò fosse imposto dal rispetto degli obblighi comunitari.

     (8) Poiché i termini di cui agli artt. 2501-ter e 2501-septies sono in via generale “rinunciabili” del tutto, se sussiste il consenso unanime dei soci, è da ritenere, a mio avviso, che in presenza di detto consenso, in una fusione di società non azionarie, i termini in questione potranno essere non solo ridotti alla metà (ciò che è comunque previsto per legge, anche in mancanza del consenso), bensì integralmente soppressi, ferma restando la necessaria informazione dei soci attraverso il progetto e gli altri documenti indicati nell’art. 2501-septies.

     (9) Fra le due opinioni che si sono contese il campo successivamente alla riforma del 1991 (quella secondo cui il termine in questione sarebbe disposto anche nell’interesse dei terzi, e quella che lo vede per converso in funzione degli interessi dei soli soci), il diritto positivo ha dunque ormai accolto la seconda, che costituisce – evidentemente – la premessa logica della regola della rinunciabilità del termine sulla base del consenso unanime dei (soli) soci. In tal senso si era ad esempio pronunciato, già alla stregua della disciplina (pre)vigente, P. MARCHETTI, La fusione, in Riv. not., 1991, p. 23; ; App. Torino, 18.5.1995, in Giur. It., 1995, II, c. 921; Trib. Milano, 30.9.1994, in Notariato, 1995, p. 91; nel senso opposto, della irrinunciabilità del termine, in quanto previsto anche a salvaguardia di un interesse dei terzi, cfr. invece A. SERRA e M.S. SPOLIDORO, Fusioni e scissioni, Giappichelli, Torino, 1994, p. 41; Trib. Udine, 26.3.1992, in Società, 1992, p. 1104; Trib. Bologna, 14.2.1995, in Società, 1995, p. 1230; Trib. Udine, 21.2.1995 e Trib. Verona, 24.3.1995, entrambi in Società, 1995, p. 968; Trib. Asti, 4.1.1995, in Giur. It., 1995, II, c. 921.

     (10) Si vuole avere riguardo alla circostanza che, verosimilmente, solo le società medio-grandi potranno e vorranno permettersi il costo dell’incarico ex art. 2501-sexies ad una società di revisione (quando non vi siano obbligate per legge: art. 2501-sexies, terzo comma).

     (11) Cfr., ad esempio, Trib. Velletri, 10.8.1994, in Riv. dir. comm., 1996, II, 295.

     (12) Singolarmente, solo la seconda delle due citate disposizioni è dichiarata applicabile anche alla scissione, dall’art. 2506-ter cod. civ. novell.: l’ipotesi specificamente contemplata sarebbe dunque quella della scissione mediante incorporazione in società preesistente che possiede per almeno il 90% il capitale della società scissa.
     Il mancato richiamo, nella sede della scissione, della disposizione contenuta nell’art. 2505 determina un’asimmetria di trattamento (non facilmente giustificabile) fra l’ipotesi testé richiamata e quella della scissione mediante incorporazione in società che controlli totalitariamente la scissa, su cui v. G.B. PORTALE, Scissione parziale di società per azioni a favore della “controllante” totalitaria, in Vita not., 1998, p. 52 ss.

     (13) Che la disciplina ora esaminata si applichi anche alle s.r.l. controllate totalitariamente o al 90% lo si desume da ciò, che sia l’art. 2505, sia l’art. 2505-bis hanno riguardo al possesso (totalitario o per il 90%) di azioni o quote dell’incorporanda.

     (14) Non invece con riferimento alle s.r.l., alle quali la disciplina che si esamina ora nel testo sembra applicabile in virtù del richiamo alle quote. La scelta normativa non sembra tuttavia ineccepibile, soprattutto in considerazione delle peculiarità del modello di s.r.l. delineato dalla riforma del 2003, che ne fanno un tipo societario di confine, o addirittura più vicino ai tipi prettamente personalistici che non quelli capitalistici.

     (15) Proprio in base alla considerazione che, nel caso di incorporazione di società posseduta al 100%, la fusione si risolve in un consolidamento integrale di patrimoni, che non è suscettibile di alterare in alcun modo la posizione dei creditori sociali, si sarebbe forse dovuto stabilire che a questo tipo di operazioni non si applica l’art. 2503 sull’opposizione dei creditori. Probabilmente la norma interna è stata scritta adeguandosi pedissequamente a quella comunitaria, e si è allora omesso di tener conto che, nel diritto comunitario, non è previsto un rimedio generale a tutela dei creditori delle società partecipanti all’operazione, paragonabile alla nostra opposizione ex art. 2503 (cfr. infatti l’art. 13 della direttiva).

     (16) La necessità di un’esplicita attribuzione statutaria di competenza agli amministratori è frutto di una scelta del legislatore italiano, non imposta dalla disciplina comunitaria. È il caso di osservare che varrà probabilmente la pena inserire, già al momento della costituzione, l’apposita clausola nello statuto della società: un suo inserimento successivo, e contestuale, al momento dell’operazione di fusione, valicherebbe almeno in parte il vantaggio della “semplificazione” prevista dalla disciplina che si commenta, vantaggio consistente nella possibilità di evitare le lungaggini della convocazione dell’assemblea straordinaria per la delibera relativa all’incorporazione.

     (17) Consiglio di amministrazione nelle società che adottano il modello tradizionale, ovvero quello monistico; consiglio di gestione in quelle che adottano il modello dualistico.

     (18) Diversamente da quel che la direttiva comunitaria (art. 8, lettera c), richiamato dall’art. 25) suggeriva, e forse imponeva, di fare, si è omesso di specificare, nelle norma interna, se la percentuale di possesso azionario rilevante ai fini dell’istanza di deliberazione in sede assembleare debba esser computata tenendo contro solamente delle azioni con diritto di voto, oppure anche di quelle che ne sono prive.

     (19) La disposizione dell’art. 2505-bis sembra muta in proposito; sarebbe invece stato preferibile che essa sciogliesse il dubbio formulato nel testo; dubbio originato da ciò, che come è noto il nuovo art. 2437-ter prevede la possibilità di fissare statutariamente criteri di determinazione del valore di liquidazione, da riconoscere al socio recedente, diversi da quelli enunciati in generale dalla norma di legge. Diventa perciò impostante stabilire, quando si discorre di recesso, a quali criteri (fissati in quale statuto) debba farsi capo per la determinazione del quantum spettante al socio che recede.

     (20) In senso favorevole all’applicazione dell’art. 2504-quinquies cod. civ. vigente a casi non coincidenti con quello direttamente contemplato dalla norma di legge, e tuttavia caratterizzati da una eadem ratio, si era espressa la giurisprudenza prevalente: cfr. ad esempio Trib. Trieste, 14.2.1995, in Società, 1995, p. 1190; Trib. Udine, 16.10.1995, in Notariato, 1996, p. 463; Trib. Udine, 18.8.1997, in Società, 1998, p. 82; Trib. Roma, 14.8.1997, in Società, 1998, p. 195; Trib. Novara, 19.10.1999, in Notariato, 2000, p. 41; l’orientamento più rigido è difeso invece dal Trib. Paola, 7.6.1994, in Notariato, 1995, p. 48.

     (21) In senso contrario tuttavia App. Bologna, 11.11.1997, in Giur. it., 1998, p. 961.

     (22) L’espressione richiamata fra virgolette è nel nuovo art. 2502 cod. civ.

     (23) Cfr. ad esempio, nella letteratura recente, G. FERRI jr., Modificabilità e modificazioni del progetto di fusione, Giuffrè, Milano, 1998, p. 110 ss.

     (24) Nel caso descritto sopra sotto b), la minoranza potrebbe esser presente nella holding che controlla totalitariamente sia la società incorporante, sia l’incorporanda.

 

 

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