il diritto commerciale d’oggi
    II.7 – luglio-agosto 2003

STUDÎ E COMMENTI

 

STEFANO ALDERIGHI

Le riserve di rivalutazione nel patrimonio di vigilanza delle banche

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le riserve di rivalutazione nel diritto commerciale. – 3. Le Istruzioni di Vigilanza.

 

1. Premessa
     Il Titolo IV, Cap. 1, Sez. II, § 1 delle Istruzioni di Vigilanza per le Banche della Banca d’Italia (le “Istruzioni”), stabilisce che «il patrimonio di vigilanza individuale è costituito dalla somma algebrica di una serie di elementi positivi e negativi che, in relazione alla qualità patrimoniale riconosciuta a ciascuno di essi, possono entrare nel calcolo con alcune limitazioni. […] Il patrimonio di vigilanza è costituito dal patrimonio di base più il patrimonio supplementare, al netto delle deduzioni». Peraltro, mentre «il patrimonio di base viene integralmente ammesso nel calcolo del patrimonio di vigilanza» (§ 1.4), «il patrimonio supplementare è ammesso nel calcolo del patrimonio di vigilanza entro un ammontare massimo pari al patrimonio di base» (§ 1.4).
     Ne discende la cruciale importanza di stabilire quali elementi possano essere computati nel patrimonio di base e quali altri nel patrimonio supplementare: è infatti evidente che qualora un elemento possa essere computato nel patrimonio di base, di fatto può “valere doppio”, in quanto consente di ammettere nel complessivo calcolo del patrimonio di vigilanza un equivalente ammontare di patrimonio supplementare.
     A tal fine, le Istruzioni si preoccupano di elencare gli elementi ammessi nel patrimonio di base e quelli da ricomprendersi nel patrimonio supplementare (§§ 1.1 e 1.2).
     Qualche dubbio sorge tuttavia in relazione alla disciplina della “riserva di rivalutazione”, ai sensi della quale mentre la generalità delle riserve (con l’ovvia ed evidente esclusione della “riserva azioni proprie”) è ammessa nel calcolo del patrimonio di base (§ 1.1), quella di rivalutazione deve far parte di quello supplementare (§ 1.2). La diversa disciplina ai fini di vigilanza – quanto meno in taluni casi – non appare, infatti, sempre giustificata.

2. Le riserve di rivalutazione nel diritto commerciale
     Le riserve, al pari di ogni altra posta del patrimonio netto, pur trovandosi al passivo non rappresentano passività: esse sono espressione univoca di una quota ideale di patrimonio, per la quale è stabilito un tipo di disciplina, ovviamente cogente (1).
     Ciò posto, con riferimento alle riserve di rivalutazione può essere difficile svolgere un ragionamento unitario, valido per la totalità di esse. Ciò in quanto la disciplina applicabile è contenuta nei diversi provvedimenti normativi che consentono la rivalutazione stessa. Nel caso di specie, inoltre, le cose possono ulteriormente complicarsi perché la disciplina civilistica è di solito strumentale a quella tributaria che – sempre di solito – accompagna i provvedimenti di rivalutazione.
     Nel seguito, comunque, si farà riferimento a quei provvedimenti di rivalutazione (che poi sono la maggior parte e comunque i più recenti) che prevedono che:
     1) la riserva di rivalutazione non possa essere distribuita se non con il procedimento di cui all’art. 2445, commi 2 e 3 cod. civ.;
     2) in caso di utilizzazione a copertura di perdite, non si possono distribuire utili fino a quando la riserva di rivalutazione non è reintegrata ovvero ridotta in misura corrispondente con deliberazione dell’assemblea straordinaria (2).
     Tali provvedimenti normativi sono talvolta intesi ad adeguare il valore di taluni cespiti aziendali al mutato potere di acquisto della moneta; talaltra, tuttavia, hanno l’effetto (forse non del tutto voluto da parte del legislatore) di consentire una nuova valutazione economica del bene (3).
     Ne consegue, in ogni caso, che fintanto che i beni oggetto di rivalutazione non siano stati oggetto di alienazione, la riserva di rivalutazione esprime valori – quanto meno – “dubbi” (4). Ciò in quanto, non è affatto certo che i cespiti si siano rivalutati in misura proporzionale alla svalutazione della moneta, né tanto meno è certo che il nuovo valore ad essi attribuito corrisponda a quello “effettivo”.
     Ovviamente, in seguito all’alienazione del bene, potranno verificarsi i seguenti casi:
     1) il prezzo corrisposto all’impresa alienante è maggiore del costo storico più l’ammontare iscritto nella riserva di rivalutazione. In questo caso potrà dirsi non solo che la riserva di rivalutazione è divenuta “certa” per il suo intero (ed originario) ammontare, ma anche che l’impresa ha conseguito una plusvalenza (da iscrivere nel conto economico);
     2) il prezzo corrisposto all’impresa alienante è uguale al costo storico più l’ammontare iscritto nella riserva di rivalutazione. In questo caso potrà solamente dirsi che la riserva è divenuta “certa” per il suo intero ammontare;
     3) il prezzo corrisposto all’impresa alienante è minore del costo storico più l’ammontare iscritto nella riserva di rivalutazione. In questo caso, ovviamente, l’impresa ha conseguito una minusvalenza (e quindi una perdita) e la riserva di rivalutazione dovrebbe – almeno in linea di principio – essere adeguato (e quindi ridotto) in misura corrispondente alla minusvalenza stessa (5).
     Potrà discutersi riguardo a quale organo societario spetti di adeguare il valore (originario) della riserva a quello ormai divenuto effettivo ovvero se si possa (o debba) procedere ad accantonamenti nella nota integrativa fino a quando la minusvalenza non sia completamente “riassorbita”. Certo è che, anche in questo caso, il valore della riserva di rivalutazione cessa di esprimere valori “dubbi”.

3. Le Istruzioni di Vigilanza.
     Come detto, il Titolo IV, Cap. 1, Sez. II, § 1 delle Istruzioni, stabilisce che «il patrimonio di vigilanza individuale è costituito dalla somma algebrica di una serie di elementi positivi e negativi che, in relazione alla qualità patrimoniale riconosciuta a ciascuno di essi, possono entrare nel calcolo con alcune limitazioni» (sottolineato mio).
     Le Istruzioni, per la verità, omettono di spiegare quali siano le «qualità patrimoniali» astrattamente riconoscibili agli «elementi positivi e negativi», né spiegano i criteri in base ai quali esse siano effettivamente «riconosciute».      L’imposizione delle “limitazioni” è quindi – talvolta – difficile da spiegare.
     Un aiuto è probabilmente offerto dal Tit. IV, Cap. 1, Sez. I, § 1 delle Istruzioni. In tale sede, infatti, la Banca d’Italia sottolinea che «il patrimonio … rappresenta il primo presidio a fronte dei rischi connessi con la complessiva attività bancaria. Un livello di patrimonializzazione adeguato consente al banchiere di esprimere con i necessari margini di autonomia la propria vocazione imprenditoriale e nel contempo di preservare la stabilità dellabanca». Nella stessa sede, inoltre, l’Autorità di Vigilanza evidenzia che «il patrimonio … costituisce il principale punto di riferimento per le valutazioni dell’Organo di vigilanza ai fini della stabilità delle banche. Su di esso sono fondati i più importanti strumenti di controllo» e di vigilanza.
     Sembra discenderne che le «qualità patrimoniali»sono attribuite secondo un criterio inteso ad individuare l’effettiva patrimonializzazione della banca. Tale impressione risulta confermata dalla disciplina riservata ad altre poste: vengono infatti ricomprese nel patrimonio di vigilanza alcuni elementi che pure (a rigore) fanno parte del passivo, come (previo nulla osta della Banca d’Italia) le passività subordinate ed i prestiti irredimibili (che entrano a far parte del patrimonio supplementare); mentre ne vengono (per altro, giustamente) esclusi altri che pure (sempre a rigore) fanno parte del patrimonio netto, come la riserva azioni proprie (6) (che viene espunta tout court).
     Orbene, dalla disciplina ad esse riservata, sembra evincersi che l’Organo di Vigilanza abbia riconosciuto alle riserve di rivalutazione «una certa qualità patrimoniale», non sufficiente però da farle includere nel patrimonio di base.
     Tale considerazione è sicuramente corretta fintanto che i cespiti oggetto di rivalutazione non vengano alienati (o ammortizzati). Come detto, infatti, fino a tale momento non è affatto certo che la riserva rappresenti valori effettivi dell’impresa ed è senz’altro giustificato un atteggiamento informato a prudenza.
     Successivamente all’avvenuta alienazione (o ammortamento) del bene rivalutato, tuttavia, gli elementi di incertezza vengono senz’altro meno, quanto meno per la parte della riserva che si riferisce al bene alienato sicché, a partire da tale momento, essa non sembra più avere qualità patrimoniali diverse da quelle delle altre riserve, che invece pacificamente fanno parte del patrimonio di base.
     A ben vedere, anzi, la rigorosa disciplina cui è soggetta la riserva di rivalutazione (che ha spinto qualcuno a parlarne come di «quasi capitale») (7) contribuisce alla patrimonializzazione dell’impresa in modo ben più “stabile” e “durevole” delle altre riserve (8).

     Ciò posto, specialmente tenendo conto dell’attuale congiuntura economica, che rende auspicabile una maggiore operatività e presenza delle banche nel tessuto economico del Paese ed una loro maggiore competitività a livello internazionale, sul punto sarebbe quindi opportuno un intervento chiarificatore da parte della Banca d’Italia.

 

NOTE

     (1) P. FERRO-LUZZI, Profili civilistici della rivalutazione monetaria, in Giur. comm., 1984, I, 73; G.E. COLOMBO e G.B. PORTALE, Trattato delle società per azioni, 7*, Utet, Torino, 1994, 510; G. FRÈ, Società per azioni, in A. Scialoja e G. Branca (a cura di), Commentario del codice civile, Zanichelli – Il Foro italiano, Bologna – Roma, 1982, 655s; G.E. COLOMBO, Le poste del passivo e la disciplina del patrimonio netto, in G. CASTELLANO (a cura di), Riserve e fondi nel bilancio di esercizio, Giuffrè, Milano, 1986, 8s. Contra E. SIMONETTO, I bilanci, Cedam, Padova, 1967 (rist. 1972), 243 ss.

     (2) Si tratta, a mero titolo i esempio, della L. 19 marzo 1983, n. 72, della L. 30 dicembre 1991, n. 412 e della L. 12 novembre 2000, n. 342.

     (3) Sul punto amplius, P. FERRO-LUZZI, Profili civilistici, cit., 82.

     (4) Le riserve di rivalutazione possono diventare riserve di utili effettivi anche mediante un processo di ammortamento del cespite rivalutato. Peraltro, per maggiore semplicità espositiva, in questo lavoro si terrà conto solo delle ipotesi di vendita dei beni rivalutati.

     (5) Non sembra peraltro illegittima (ancorché meno aderente alla ratio delle norme) un’altra strada spesso seguita nella pratica allorché la società alienante il bene abbia nel corso di quell’esercizio realizzato altri utili in misura eccedente la perdita (minusvalenza) “da cessione”. In tali casi sembra infatti ammissibile “affrancare” l’ulteriore porzione di utili con la suddetta perdita “da cessione”: diminuiscono – così – gli utili distribuibili, ma si rende “certa” (per il suo intero ammontare) la riserva di rivalutazione.

     (6) G.E. COLMBO e G.B. PORTALE, Trattato, cit., 312 e S. ALDERIGHI, Conversione del capitale in euro ed acquisto di azioni proprie in deroga all’art. 2357 del codice civile, in Impresa c.i., 2001, 1378 ss., ove anche ulteriore dottrina.

     (7) P. FERRO-LUZZI, Profili civilistici, cit., 77 e 79.

     (8) Assonime, Circolare, 4 marzo 1991, n. 34, anche in Il Sole 24 Ore, 7 marzo 1991, p. 16 (di commento alla legge di rivalutazione L. 29 dicembre 1990 n. 408) ritiene «che la lievitazione di valori, anche oltre il limite dell’adeguamento monetario, sia consentita civilisticamente e – sia pure in minor misura – agevolata fiscalmente al preciso scopo di contribuire al rafforzamento patrimoniale delle imprese. E in questa prospettiva può quindi giustificarsi il mantenimento del vincolo civilistico del saldo della rivalutazione». P. FERRO-LUZZI, Profili civilistici, cit., 76 evidenzia che «l’indirizzo di fondo della normativa … è chiaro: i saldi, nel limite del possibile, devono rimanere vincolati all’impresa, e il vincolo giustifica e consente l’esonero fiscale».

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