il diritto commerciale d’oggi
    II.6 – giugno 2003

STUDÎ E COMMENTI

 

GIULIANA SCOGNAMIGLIO

I gruppi e la riforma del diritto societario: prime riflessioni  *

 

 


     Sommario: 1. Il “nuovo” falso in bilancio e le strutture di gruppo piramidali. – 2. Il reato di infedeltà patrimoniale e l’esimente del vantaggio compensativo derivante dall’appartenenza al gruppo. – 3. L’accoglimento della teoria dei vantaggi compensativi sul terreno civilistico; la tutela del socio minoritario attraverso l’azione di responsabilità contro la capogruppo. – 4. Difficoltà e costi dell’azione di responsabilità. – 5. La tutela del socio minoritario attraverso l’exit: il diritto di recesso nei gruppi. – 5.1. Considerazioni critiche sulle diverse ipotesi legali di recesso. – 6. Favor per il gruppo efficiente o favor per l’efficienza della capogruppo?

 

     

     1. Può apparire forse singolare che uno scritto avente ad oggetto una prima valutazione dei riflessi che la recentissima riforma del nostro diritto societario potrà spiegare sulla delicata materia dei gruppi prenda le mosse da una disciplina apparentemente extravagante, quella del reato di false comunicazioni sociali (il c.d. falso in bilancio), contenuta negli art. 2621 e 2622 cod. civ., così come novellati dal d. lgs. 11 aprile 2002, n. 61, e cioè dal primo – in ordine di tempo – dei decreti di attuazione della delega contenuta nella legge n. 366/2001, che detta la “disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali”.
     La ragione di una scelta siffatta risiede in ciò, che in uno scritto introduttivo di un dibattito fra economisti e giuristi sulla riforma del diritto societario, un economista di spicco, il prof. Marcello Messori (1), avvalendosi di un metodo di valutazione della disciplina basato sul criterio dell’efficienza economica delle singole soluzioni normative, ha ravvisato, proprio nella materia che ci interessa, una sorta di schizofrenia del legislatore: questo, da un lato, e cioè sul versante penalistico della riforma, avrebbe adottato soluzioni atte ad incentivare la propensione degli imprenditori verso strutture piramidali di relazioni di controllo “a catena”, con finalità di elusione, piuttosto che di razionalizzazione economica e produttiva; dall’altro, sul versante civilistico, avrebbe invece prescelto la strada opposta, consistente nel disincentivare l’utilizzo di siffatte strutture piramidali di gruppo, attraverso l’emanazione di disposizioni severe in ordine alla responsabilità della capogruppo e l’attribuzione al singolo socio della controllata dell’arma potente dell’azione di responsabilità nei confronti della capogruppo medesima.
     Quanto al versante o profilo penalistico, l’assunto che si è testé riferito viene motivato con la considerazione che la nuova disciplina sanzionatoria del delitto di false comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori (art. 2622 cod. civ.), ed in particolare le regole onde è sancita una diversità fra le società quotate nei mercati regolamentati e quelle non quotate, nel senso che le prime sono assoggettate ad un regime alquanto più rigoroso (2), fornirebbe un incentivo alla proliferazione di strutture di gruppo piramidali a fini elusivi.
     In termini più analitici, si è sostenuto, o forse sarebbe meglio dire paventato, che, proprio in virtù della già segnalata diversità di regime sanzionatorio tra il falso in bilancio commesso da amministratori di una società quotata ed il falso perpetrato invece nell’ambito di una società non quotata, possa essere valutato come conveniente – al fine di eludere il regime più aspro – l’espediente della catena dei controlli, ossia la scelta di porre una società non quotata nella posizione di (titolare del) controllo su una società quotata.
     Al riguardo osserverei che è constatazione indubbiamente frequente, e fondata, quella secondo cui il particolare rapporto che lega una controllante alla propria controllata sia nella pratica utilizzato per aggirare precetti della legge (o anche dell’autonomia privata) ed è certamente opportuno che al fenomeno segnalato (dell’utilizzazione del controllo o della catena dei controlli in funzione elusiva) vengano contrapposti argini adeguati, primo fra tutti il rispetto della regola onde è precluso tenere attraverso la propria controllata un comportamento che sarebbe interdetto alla controllante.
     Tuttavia, nel caso specifico, la preoccupazione espressa non tiene conto forse della circostanza, da un lato, che sarebbe inesatto affermare che il reato di falso in bilancio va, in assenza di querela, esente da punizione ove posto in essere da esponenti di società non quotate (e si veda infatti l’art. 2621 cod. civ.); dall’altro che, in particolar modo (ma non solamente) nel caso in cui la controllante sia una holding pura (3), il falso perpetrato “a monte” (e cioè: nel bilancio della controllante) non può non essere, o comunque è nella maggior parte dei casi, un falso “riflesso” o “derivato”, che deriva cioè dalla recezione in quel bilancio di dati relativi al patrimonio della controllata o della subcontrollata, contenuti rispettivamente nei bilanci di queste ultime. Stando così le cose, mi parrebbe che l’adozione del modello del gruppo piramidale (nella versione più semplice: controllante + controllata) non vale ad evitare l’applicazione delle sanzioni più severe (previste per il delitto imputabile ad organi ed esponenti di società quotate), quando il falso sia stato commesso, appunto, dagli amministratori delle controllate quotate e riversato, poi, nel bilancio della controllante non quotata.
     Si deve altresì considerare che la norma penale nella versione del 2002 amplia, rispetto al passato, il proprio ambito di applicazione in quanto colpisce l’esposizione di fatti non rispondenti al vero, così come l’omissione di notizie la cui comunicazione è imposta per legge, «sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo» al quale la società appartiene. Ci si deve pertanto domandare che cosa accada, e cioè quale sia la disciplina da applicare, quando la controllante non quotata esponga, nelle proprie comunicazioni sociali, fatti non rispondenti al vero, oppure ometta notizie la cui diffusione è obbligatoria per legge, in ordine al gruppo delle società da essa controllate, per ipotesi quotate (tutte, o almeno in parte).
     Sembra in effetti ragionevole assumere che, ove un siffatto comportamento degli organi della controllante non quotata arrecasse pregiudizio ai soci o ai creditori della controllata quotata, ricorrerebbero gli estremi della fattispecie criminosa prevista dall’art. 2622 cod. civ., nuovo testo; e la circostanza che il danno colpisca appunto interessi facenti capo a società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati dovrebbe, coerentemente con la filosofia ispiratrice della disposizione appena richiamata, rendere applicabile la disciplina più rigorosa prevista, dal terzo comma del citato art. 2622, con riferimento al «caso di società soggette alle disposizioni della parte IV, titolo III, capo II del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58».
     In altri termini, secondo l’ipotesi interpretativa testé formulata, l’applicazione della norma più rigorosa dipenderebbe non tanto dalla circostanza che il delitto in esame sia stato posto in essere dagli organi di una società quotata ovvero non quotata, bensì piuttosto dalla circostanza che il danno, a cui l’art. 2622 cit. ha riguardo, sia stato patito dai soci e dai creditori di una società quotata, piuttosto che non quotata.
     Riconosco che la lettura testé suggerita possa apparire azzardata, in quanto – trattandosi di una norma penale incriminatrice – è necessario attenersi al criterio della stretta interpretazione e al divieto dell’analogia (art. 14 preleggi).
     Non vorrei tuttavia esimermi dal segnalare che si è in tal modo individuato uno dei tanti, e giustamente da più parti criticati, elementi di debolezza “tecnica” della disciplina introdotta con il d. lgs. n. 61/2002. Invero, dopo aver attribuito rilevanza alla falsa o carente informazione sul gruppo, opportunamente ampliando l’orizzonte repressivo della previgente disciplina del reato di false comunicazioni sociali, ci si è probabilmente dimenticati della fattispecie del gruppo nella concreta regolamentazione dell’apparato repressivo-sanzionatorio: con la conseguenza che non è allo stato chiaro, come si diceva, se la regola della perseguibilità a querela di parte e la sanzione penale più mite si applichino (anche) al falso in bilancio commesso e comunque rilevato nell’ambito di una società capogruppo non quotata, là dove la falsa informazione riguardi ed investa il gruppo stesso (più precisamente: la situazione economica, patrimoniale o finanziaria del medesimo) e sia produttiva di danno per i soci ed i creditori delle società controllate, ad esso appartenenti e quotate.

     2. Se si va poi ad approfondire la disamina delle regole in materia di gruppi, contenute nella disciplina penalistica di attuazione della legge delega n. 366/2001, ne rimane a mio avviso confermata l’impressione che non sia il caso di paventare, come conseguenza pratica diretta delle scelte effettuate dal legislatore, un incremento delle strutture piramidali di controllo con finalità elusive di precetti normativi, o comunque “di copertura” di comportamenti scarsamente commendevoli, e cioè delle strutture di gruppo carenti di una strategia economica unitaria e disfunzionali rispetto all’obiettivo di una gestione efficiente e trasparente dell’impresa.
     Al contrario, sembra doversi registrare un segnale alquanto chiaro di favor legislativo per il gruppo e per le politiche di gruppo: ma, appunto, per il gruppo inteso come peculiare modello di gestione dell’impresa (modello che può essere, ove siano rispettate determinate regole del gioco, consono ai citati obiettivi di efficienza e trasparenza), e non come groviglio scoordinato di rapporti di controllo partecipativo fra società o come “inscatolamento” di società, l’una dentro l’altra, non guidato da una precisa strategia imprenditoriale.
     Mi riferisco, in particolare, alla disciplina contenuta nel nuovo art. 2634 cod. civ., che riguarda la fattispecie criminosa della c.d. infedeltà patrimoniale, ed alla circostanza che è stata abrogata, dal d. lgs. n. 61/2002, la disciplina sanzionatoria del conflitto d’interessi dell’amministratore, contenuta nel “vecchio” art. 2631 cod. civ. e tradizionalmente considerata, dai pratici, come dagli studiosi della materia, alla stregua di un vero e proprio spauracchio per gli amministratori di società appartenenti ad un gruppo (4).
     L’addolcimento del regime sanzionatorio dei conflitti d’interessi e delle politiche di gruppo pregiudizievoli per gli interessi dei soci “esterni” (5) (e dei creditori) delle società figlie è reso evidente da ciò, che la perseguibilità del “nuovo” reato di infedeltà patrimoniale è subordinata, da un lato alla querela di parte, dall’altro alla intenzionalità del danno patrimoniale cagionato alla società; ed è a mio avviso confermato dalla rilevanza, ormai apertamente riconosciuta (cfr. art. 2634, comma 3, cod. civ.), dell’esimente del vantaggio compensativo.
     Non è qui possibile di dilungarsi sull’applicazione al gruppo della c.d. teoria dei vantaggi compensativi (6) e sul progressivo accoglimento, ad opera della giurisprudenza teorica e pratica degli ultimi anni, del principio che il vantaggio del gruppo, o il vantaggio di un’altra società del gruppo, scaturente dal comportamento degli amministratori, non li espone a responsabilità verso la società ed i suoi stakeholders, quando sia controbilanciato da un vantaggio di quest’ultima società, anche non immediato, ma fondatamente prevedibile e derivante dall’appartenenza al gruppo.
     Interessa però sottolineare il significato “politico” del recepimento legislativo di detta teoria: significato da individuare a mio giudizio in ciò, che si riconosce, del tutto consapevolmente, un ampliamento della libertà di azione e di manovra degli amministratori di società appartenenti ad un gruppo, in quanto artefici o comunque esecutori di direttive strategiche, appunto, di gruppo.
     Invero, si consente loro di accettare, in nome della politica di gruppo, un sacrificio immediato della società da essi amministrata, e dunque una lesione degli interessi patrimoniali (dei soci, dei creditori, degli altri stakeholders) che ad essa fanno capo, purché siano in grado di individuare e di indicare un vantaggio che quella società abbia ricevuto ovvero (in base ad una ragionevole previsione) riceverà, a compensazione del pregiudizio sofferto, ed in ragione della sua appartenenza al gruppo.
     Si è già rilevato che l’effetto di una siffatta scelta di politica legislativa dovrebbe, o potrebbe, essere quello di incrementare, rispetto al passato (ad un ambiente normativo caratterizzato da una severa repressione del conflitto d’interessi e dalla mancanza, in quella disciplina sanzionatoria, di un orizzonte specifico “di gruppo”), lo spazio a disposizione degli amministratori per l’attuazione di politiche di gruppo più libere e disinvolte; ma un effetto ulteriore, e direi contestuale, che ci si può attendere da una siffatta scelta, è quello di premiare il gruppo (come modello di impresa) efficiente, coordinato e trasparente.
     Solo se le politiche, e l’esistenza stessa, del gruppo siano dotate di un certo grado di trasparenza e di organicità, solo se venga esercitata dal vertice un’attività effettivamente rivolta al coordinamento (7), sarà concretamente possibile identificare, a fronte del pregiudizio sofferto dalla singola controllata in conseguenza delle direttive di gruppo che hanno avvantaggiato il gruppo nel suo insieme o un’altra società ad esso appartenente, il vantaggio idoneo a riequilibrare la situazione patrimoniale della controllata stessa, ad elidere il danno e dunque ad esonerare da responsabilità l’amministratore o gli amministratori “incriminati”.

     3. Giova a questo punto osservare che, se si estende lo sguardo al versante civilistico della disciplina di attuazione della delega legislativa in materia di riforma societaria, ne risulta (confermata) la difficoltà di condividere il rilievo, a cui si è all’inizio accennato, di una sorta di schizofrenia del legislatore, (in quanto) propenso da un lato – sul terreno penalistico – a favorire la proliferazione delle strutture di gruppo piramidali (anche in funzione elusiva), dall’altro a rafforzare i deterrenti civilistici alla formazione ed al funzionamento di dette strutture, attraverso la previsione di nuove ipotesi di responsabilità e l’ampliamento della legittimazione a far valere quella responsabilità in giudizio.
     Invero, è da considerare che (anche) la norma civilistica sanziona non l’agire del gruppo in sé, non il perseguimento tout court di politiche di gruppo, bensì la violazione, da parte della società o ente posto al vertice, dei «principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società» dipendenti, quando detta violazione sia tale da deprimere il valore e la redditività della partecipazione o addirittura l’integrità del patrimonio sociale; e prevede l’esonero da responsabilità quando il danno risulti neutralizzato dal risultato complessivo (8) dell’attività di direzione e coordinamento posta in essere dalla società o ente capogruppo.
     Anche sul terreno civilistico, sembra, in altri termini, essere stata accolta, secondo l’auspicio che molti già da tempo avevano formulato, una concezione “dinamica” dell’impresa di gruppo: più precisamente, si è recepita l’idea, di per sé – ripeto – tutt’altro che nuova, secondo cui anche all’impresa appartenente ad un gruppo va applicato il concetto dinamico di attività, per il quale il valore, o il disvalore, del singolo atto deve essere pesato e determinato alla luce del valore complessivo risultante appunto dall’attività, e cioè dalla concatenazione dinamica della serie degli atti coordinati al raggiungimento di un determinato obiettivo.
     Dunque, l’amministratore della società controllata avrà operato secondo il canone della diligenza impostogli dalla legge se, pur adeguandosi alla direttiva di gruppo che impone un sacrificio alla società da lui amministrata, avrà preteso ed ottenuto dalla capogruppo, in un arco di tempo ragionevole, l’attribuzione di un vantaggio quantitativamente equivalente; e la capogruppo potrà rintuzzare l’azione di responsabilità, contro di essa intentata dal socio o dal creditore della controllata, eccependo appunto che il danno, del quale si domanda il risarcimento, è stato eliminato attraverso l’attribuzione di un vantaggio specifico di entità corrispondente, oppure risulta comunque «mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento».
     Anche dalla norma civilistica traspare dunque, in filigrana, il favor per il gruppo nel quale l’analisi dei costi e dei benefici della direzione strategica comune di più società giuridicamente indipendenti comporti un saldo almeno pari allo zero: per il gruppo, dunque, gestito in maniera realmente equilibrata e coordinata, nel quale i pesi ed i sacrifici di volta in volta imposti alle singole società presentino un ritorno economico adeguato per le società stesse; in cui l’attività di direzione esercitata dal vertice persegua e realizzi l’obiettivo di un risultato ulteriore e maggiore, in termini di produttività e di redditività, di quello che le singole imprese componenti il gruppo avrebbero potuto conseguire in assenza delle sinergie derivanti dal coordinamento.
     In altre parole, i gruppi societari potranno reggere l’impatto delle disposizioni civilistiche, che indubbiamente tendono ad incrementare l’esposizione dei soggetti in posizione di controllo alle azioni di responsabilità dei soci “esterni”, solo se ed in quanto si adeguino agli standards di efficienza e di trasparenza prefigurati dal legislatore.
     In questa prospettiva, si comprendono, e risultano del tutto complementari alla disposizione, poc’anzi ricordata, in tema di azioni di responsabilità, le ulteriori disposizioni del codice civile novellato, ed in particolare del capo dedicato a “direzione e coordinamento di società”, onde è ad esempio imposto:
     a) l’obbligo (art. 2497-bis) di dare adeguata pubblicità (attraverso l’indicazione negli atti e nella corrispondenza, ma soprattutto attraverso l’iscrizione in un’apposita sezione del registro delle imprese), alla circostanza, rispettivamente, dell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, e della soggezione all’altrui attività di direzione e coordinamento: alla circostanza, cioè, dell’appartenenza al gruppo;
     b) l’obbligo (art. 2497-ter) di motivare le «decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento, quando da questa influenzate», indicando in maniera puntuale ed analitica le ragioni e gli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione;
     c) l’obbligo (art. 2497-ter e art. 2428) di dar conto, nella relazione accompagnatoria del bilancio d’esercizio, non solo (come già si prevede nel testo ad oggi vigente dell’art. 2428 cod. civ.) dei rapporti con imprese controllanti, controllate, collegate e sottoposte al controllo della stessa controllante, ma anche delle decisioni assunte a valle (nella società controllate) e influenzate dall’attività di direzione e coordinamento del vertice, cioè dalla politica di gruppo;
     d) l’obbligo, distintamente sancito nell’ultimo capoverso dell’art. 2497-bis, ma almeno parzialmente riproduttivo di quello già richiamato nella precedente lettera c), per gli amministratori delle controllate di indicare nella relazione sulla gestione, prevista dal citato art. 2428 cod. civ., «i rapporti intercorsi con chi esercita l’attività di direzione e coordinamento e con le altre società che vi sono soggette, nonché l’effetto che tale attività ha avuto sull’esercizio dell’impresa sociale e sui suoi risultati»;
     La corretta gestione imprenditoriale delle società controllate, da parte di chi assume il ruolo di capogruppo, da un lato, e di chi riveste il ruolo di amministratore, dall’altro, impone l’osservanza anzitutto di questi obblighi; d’altra parte, l’informazione circa l’esistenza del gruppo e la sua operatività concreta, la trasparenza riguardo ai canali ed ai modi attraverso i quali si è realizzata l’incidenza dell’agire coordinato di gruppo sulle singole deliberazioni adottate al livello delle società controllate, costituiscono lo strumento attraverso il quale i soggetti in posizione di controllo e gli amministratori riusciranno eventualmente a fornire la dimostrazione del saldo positivo dei costi e dei benefici dell’azione del gruppo: in altri termini, a dimostrare che il vantaggio ricevuto dalla singola società in virtù del suo collegamento con il gruppo è superiore, o almeno pari, al pregiudizio subito in attuazione di direttive della capogruppo.

     4. L’assunto, fin qui svolto, che la disciplina (nei due versanti penalistico e civilistico) di attuazione della delega contenuta nella legge n. 366/2001, esprima un tendenziale favor per, e miri ad incentivare, il gruppo gestito in maniera corretta e trasparente non basta peraltro a giustificarne una valutazione del tutto positiva, alla stregua dei criteri, che qui particolarmente interessano, dell’efficienza economica e dell’opportunità “politica” delle regole adottate.
     Invero, in base almeno ad una prima lettura della disciplina qui considerata, è difficile sottrarsi all’impressione, e al timore che, in ragione delle technicalities adottate, quella disciplina, pur manifestando – ripeto – un discreto favor per il gruppo “buono”, possa non raggiungere l’obiettivo di “scacciare” o disincentivare il gruppo “cattivo”: il gruppo cioè in cui l’attività di direzione del soggetto posto al vertice non è sorretta da obiettivi e strategie economico-imprenditoriali riconoscibili e dichiarate, di incremento del profitto complessivo delle imprese eterodirette, e non è accompagnata da un’attività di coordinamento capace di realizzare, a livello delle singole società controllate, un adeguato equilibrio fra i pesi ed i vantaggi dell’appartenenza al gruppo.
     In assenza, oltre tutto, di clausole generali di interdizione dell’abuso della personalità giuridica (9) delle società controllate, il deterrente costituito dalle diverse fattispecie di responsabilità previste, sia sul versante penalistico, sia su quello civilistico, a carico degli amministratori di società di gruppo e dei soggetti posti al vertice del medesimo, non risulta, in concreto, così serio e severo come a taluni è apparso.
     La responsabilità penale dell’amministratore a titolo di infedeltà patrimoniale, lo si è già rilevato in precedenza, non può esser fatta valere se non sia stata sporta querela dalla persona offesa e se il danno derivante dagli atti di disposizione del patrimonio sociale non sia stato “intenzionalmente cagionato”; l’esimente del vantaggio compensativo di gruppo è delineata – dal terzo comma dell’art. 2634 cit. – in termini molto ampi, se non addirittura generici: non è necessario, ai fini di quella esimente, che il vantaggio sia stato conseguito o almeno promesso in termini giuridicamente vincolanti, ma è sufficiente che appaia “fondata” la previsione circa il suo conseguimento in un arco temporale anch’esso non individuato; né è identificata la fattispecie del gruppo rilevante ai sensi della disposizione in esame, fattispecie che potrebbe allora essere dal giudice (a cui viene attribuito un potere di valutazione discrezionale a mio avviso eccessivamente esteso) concepita in termini ampi, con la conseguente amplificazione del raggio di operatività dell’esimente ed il conseguente alleggerimento della responsabilità di chi si è acriticamente piegato alla eterodirezione della capogruppo.
     Sul piano civilistico, l’azione di responsabilità prevista dal più volte menzionato art. 2497 potrebbe rivelarsi un’arma difficilmente utilizzabile dal socio minoritario della controllata, ove si considerino:
     a) il costo, almeno iniziale, dell’azione stessa, in termini di spese di assistenza legale, e la sua durata, che pure, insieme all’incertezza dell’esito finale, contribuisce ad incrementarne il costo;
     b) la difficoltà per l’attore, in mancanza di qualsiasi inversione dell’onere probatorio (inversione che sarebbe stata invece del tutto opportuna (10), di fornire la dimostrazione della violazione, da parte del vertice del gruppo, dei principi di corretta gestione imprenditoriale delle società controllate; della diminuzione del valore e della redditività della partecipazione sociale, del nesso eziologico fra la prima e la seconda; difficoltà che, si osservi, permane, nel senso che non ne viene prevista alcuna attenuazione, altresì nell’ipotesi in cui l’azione venga esercitata dall’organo della procedura concorsuale della controllata: di una società, cioè, che per essere stata assoggettata al concorso dei creditori, è evidentemente stata a tal punto oppressa e sacrificata dalla politica di gruppo da cadere in stato di decozione (11);
     c) l’insidiosità delle eccezioni opponibili dal convenuto: mi riferisco in particolare all’eccezione (a cui già si è accennato) fondata sul vantaggio compensativo attribuito alla singola controllata o addirittura sul saldo positivo complessivo dell’attività di direzione e coordinamento del gruppo;
     d) la possibilità per il convenuto, titolare della posizione di controllo sulla società di cui l’attore è socio, di fornire la prova contraria circa l’esercizio di un’attività di direzione e di coordinamento delle società controllate: prova contraria espressamente consentita dall’art. 2497-sexies e che, ove raggiunta, varrebbe probabilmente a giustificare il rigetto della domanda da parte del giudice, giacché la responsabilità parrebbe ancorata all’esercizio inefficiente dell’attività di direzione e di coordinamento, e non all’esercizio inefficiente o all’abuso del semplice (potere di) controllo sulla società;
     e) i “costi di informazione” che gravano sull’attore, considerata la difficoltà, in cui egli istituzionalmente versa in quanto socio di una società diversa da quella convenuta in giudizio, di acquisire le informazioni rilevanti ai fini dell’affermazione e della dimostrazione della responsabilità, ovvero ai fini della replica alle eccezioni opposte dalla società convenuta. Basti al riguardo un esempio: si è previsto, come dianzi si ricordava, l’obbligo di motivazione “analitica” delle deliberazioni ispirate allo (o influenzate dallo) interesse di gruppo, ma non si è contestualmente sancito il diritto del socio di esaminare a semplice richiesta i verbali delle delibere del consiglio di amministrazione della società controllata, contenenti le dette motivazioni; verbali che, alla stregua della disciplina vigente, come di quella novellata (cfr. art. 2422 cod. civ.) si sottraggono in linea di principio all’ispezione e all’esame dei singoli soci.

     5. Le segnalate inefficienze e debolezze tecniche della disciplina in tema di (azioni di) responsabilità nell’ambito del gruppo minano, a mio avviso, in maniera alquanto seria l’efficacia deterrente che, nell’intento del legislatore, le disposizioni esaminate avrebbero dovuto sortire nei riguardi dei metodi di gestione scorretta o spregiudicata dell’iniziativa economica plurisocietaria.
     In altri termini, sembra banale osservarlo, non basta manifestare un sano favor per il gruppo gestito in maniera efficiente, armonica e trasparente dal soggetto che si pone al vertice, assumendo il compito della direzione e del coordinamento: occorre che la disciplina esprima altresì adeguati rimedi contro la gestione, all’opposto, inefficiente ed irrispettosa degli interessi patrimoniali dei soci esterni al controllo, presenti (per ipotesi) nelle società controllate, nonché dei creditori di queste ultime.
     Non pare allora azzardata la previsione, viste le difficoltà onde è circondato, ed i costi onde è gravato, l’eventuale esercizio delle azioni di responsabilità, che il socio minoritario della controllata, deluso nelle sue aspettative di profitto e offeso dalla lesione del valore della sua partecipazione, tenda a preferire, all’esperimento dell’azione di responsabilità, il disinvestimento, l’exit dalla società.
     Ove le partecipazioni non siano agevolmente negoziabili, non essendo quotate in mercati regolamentati, soccorre – nel disegno del legislatore – il rimedio tipico del recesso (12) istituto che la riforma societaria, come è noto, ha valorizzato, estendendo in misura rilevante le ipotesi legali di recesso dalla società di capitali e lasciando all’autonomia statutaria spazi notevolmente più ampi che in passato. In rapporto ai gruppi sono state addirittura previste cause di recesso ad hoc: art. 2497-quater.
     Si dovrà allora concludere nel senso che le debolezze tecniche della disciplina in tema di azioni di responsabilità contro gli artefici e gli esecutori della politica di gruppo siano “compensate” dalla possibilità, attribuita al socio dalla citata disposizione sul recesso, di uscire dalla società controllata, prima che questa venga “spolpata” da politiche di gruppo inefficienti?
     Esiterei alquanto a rispondere in senso affermativo.
     In primo luogo, è da osservare che il procedimento di valutazione delle azioni, ai fini della loro liquidazione al recedente (cfr. art. 2437-ter cod. civ.), può metter capo – soprattutto in un contesto di gruppo societario – a risultanti scarsamente soddisfacenti per il socio, giacché quella valutazione è rimessa agli amministratori della società, sia pure sentito il parere del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione contabile; e gli amministratori dovranno tener conto dei valori che esprimono la consistenza patrimoniale e le prospettive reddituali della società, nonché l’eventuale apprezzamento del mercato nei riguardi di dette azioni: valori, tutti, potenzialmente compressi o depressi da quelle stesse politiche di gruppo inefficienti o scorrette che, secondo l’ipotesi poc’anzi formulata, spingono il socio a tutelarsi attraverso l’exit.

     5.1. Inoltre, le cause di recesso sono, dall’art. 2497-quater, disegnate in termini tali da fare apparire difficilmente percorribile anche questa strada.
     Invero, solo l’ipotesi descritta nella lettera b) dell’art. 2497-quater presenta contorni sufficientemente precisi e sicuri: è l’ipotesi in cui il socio minoritario abbia ottenuto, a suo favore, una sentenza esecutiva di condanna della società o ente a cui si imputa l’attività di direzione e coordinamento del gruppo. Ma la facoltà di recedere è qui subordinata all’esito favorevole per il socio di un’azione di responsabilità che, nel paragrafo precedente, si è valutata come particolarmente impervia: è verosimile che, in termini statistici, questa sarà in assoluto l’ipotesi di recesso meno praticata dal nostro socio insoddisfatto della politica di gruppo a cui è asservita la società.
     Quanto alle altre ipotesi di recesso:
     i) quella enunciata nella lettera a), pecca eccessivamente di genericità e di astrattezza: siamo in presenza di una tecnica legislativa assai discutibile, la quale fa pensare più ad un’enunciazione di principio, che non alla formulazione di precetti atti a governare i comportamenti dei singoli, ed attribuisce potenzialmente una discrezionalità eccessivamente ampia al giudice investito della controversia, che al riguardo potrebbe sorgere tra la società ed il socio; inoltre, la disposizione in esame considera rilevante, ai fini della dichiarazione del socio di voler recedere dalla controllata, modifiche (dello “scopo” sociale, dell’oggetto sociale) deliberate nell’ambito della società capogruppo, dagli organi di quest’ultima: deliberazioni, cioè, di cui quel socio potrebbe non aver mai notizia, e delle quali non è comunque legittimato ad acquisire ufficialmente cognizione, non essendogli da alcuna norma di legge riconosciuto un diritto di ispezione dei libri sociali della capogruppo (e cioè di una società diversa dalla sua);
     ii) quella enunciata nella lettera c), ha riguardo all’inizio (o alla cessazione) (13) dell’attività di direzione e coordinamento come presupposti per l’exit del socio. Di tali fatti, il socio dovrebbe poter acquisire agevolmente cognizione attraverso il registro delle imprese, in una sezione del quale, come si è detto, è disposto che vengano iscritti, a cura degli amministratori, sia delle società che esercitano l’attività di direzione e coordinamento, sia delle società che vi sono soggette. Si tratta, tuttavia, di una possibilità di accedere all’informazione rilevante (ai fini del recesso), riconosciuta in astratto dalla legge, ma in concreto suscettibile di essere agevolmente frustrata ad opera dei soggetti “controinteressati” (scil.: gli organi della capogruppo, d’intesa con quelli delle società controllate). Invero, occorre domandarsi, quale sarebbe, dal punto di vista di questi ultimi, il “costo” del difetto di iscrizione? La mancata attuazione della pubblicità comporta l’esposizione al rischio di sanzioni tutto sommato lievi (cfr. art. 2630 cod. civ.), dunque presenta un “costo”, sotto questo profilo, limitato. Per converso, essa potrebbe giovare alla società di vertice del gruppo, sia sotto il profilo (qui specificatamente considerato) dell’aggravamento della difficoltà per il socio della controllata di aver notizia dei fatti a cui la legge collega il suo diritto di recedere (14), sia – più in generale – sotto il profilo dell’agevolazione della prova contraria circa l’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento, ai sensi dell’art. 2497-sexies, primo comma.
     Anche il recesso di cui alla lettera c) dell’art. 2497-quater si rivela dunque non facilmente praticabile in concreto (15); tanto più che al socio viene ulteriormente addossato l’onere di dimostrare che, dall’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, derivi «un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento»: clausola anche questa (esageratamente) fumosa e generica, suscettibile come tale di aprire la strada ad obiezioni e contestazioni della controparte del socio, e comunque tale da incrementare il costo della dichiarazione di recesso, che sembrerebbe dover essere supportata da analisi di natura tecnico-economica (sull’incremento della rischiosità dell’investimento), certamente non alla portata del socio “qualunque”.
     Se le considerazioni fin qui svolte a proposito della eccessiva genericità e indeterminatezza delle cause di recesso dalla società di gruppo sono fondate, risulta purtroppo attendibile, alla stregua di esse, la previsione che il socio di società controllata non quotata (16), deluso dalla politica di gruppo e alieno dall’affrontare un’azione di responsabilità appesantita da costi eccessivi, incontri difficoltà notevoli (anche) sulla via dell’exit dalla società stessa.
     È agevole rappresentarsi il contenzioso, fra socio e società a cui potrebbe dar luogo la dichiarazione del primo di voler recedere a norma dell’art. 2497-quater, lettera a), qualora la società contesti l’esistenza dei presupposti di legge, disegnati – come si è rilevato in termini alquanto vaghi e fumosi, ed il socio non abbia – perché la legge non gliela consente, e dunque indipendentemente da ogni sua colpa o difetto di diligenza – la disponibilità di informazioni sulla gestione della società capogruppo e del gruppo, atte a supportare la sua richiesta. Mentre, quanto alla causa di recesso prevista dalla lettera c), si è osservato che la società capogruppo potrebbe di fatto disattivarla, attraverso la semplice omissione, a costi non eccessivamente elevati, della pubblicità nel registro delle imprese dell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento (o della cessazione di tale attività).

     6. Last but not least: ove il socio minoritario della controllata riuscisse a farsi riconoscere da quest’ultima il diritto di recedere a norma dell’art. 2497-quater, ovvero a superare in giudizio le contestazioni e le eccezioni al riguardo sollevate dalla società, avvalendosi di clausole normative formulate, come si è constatato, in termini talmente generici e complicati, da apparire quasi “sospetti”, su chi graverebbe il costo del recesso medesimo?
     Sembra il caso di osservare, in proposito, che in altri luoghi della legge di riforma del diritto societario si fa riferimento, e si tratta di un’innovazione rispetto al sistema normativo attualmente in vigore, all’istituto del “diritto all’acquisto delle azioni”: si riconosce, cioè, al socio, in determinati casi, talora in alternativa rispetto al recesso (cfr. art. 2355-bis, comma 2), il diritto di far acquistare le proprie azioni da parte della società o da altri soggetti “terzi”, come peculiare modalità di realizzazione della tutela basata sull’exit.
     Questa tecnica di attuazione dell’exit avrebbe potuto essere in fondo utilizzata anche nel caso dei gruppi: si sarebbe potuto cioè prevedere, sulla scorta altresì dell’esperienza di altri ordinamenti, il diritto del socio “esterno” della controllata di dismettere il proprio investimento, ponendo l’obbligo di acquisto a carico della capogruppo (ovvero, secondo la previsione specifica della legge azionaria tedesca (17), ponendo a carico di questa un obbligo di scambio delle azioni della controllata in possesso del socio “scontento” con le azioni della capogruppo medesima).
     Si è invece prescelta, questa volta, la strada “tradizionale” del recesso. Il recesso comporta, tecnicamente, lo scioglimento del singolo rapporto di partecipazione alla società; scioglimento il cui costo, sotto forma di obbligo di rimborso, al recedente, del valore stimato della sua partecipazione, dovrebbe gravare sul patrimonio di quest’ultima.
     Qui si manifesta, mi pare, un altro aspetto inquietante della disciplina che stiamo esaminando.
     È alla fine la società controllata, in ipotesi asservita alla politica di gruppo, e da questa pregiudicata, al punto da generare malcontento nei soci esterni e da indurli alla decisione di disinvestire, a dover affrontare il costo della tutela di quei soci, apprestata dall’istituto del recesso.
     A questa considerazione fa da contrappunto un’altra, che scaturisce da una disposizione singolarmente oscura, inserita nel corpo dell’art. 2497 quasi all’ultimo momento, nel corso cioè di una delle ultime revisioni dell’articolato prima del varo del testo definitivo ad opera del Consiglio dei Ministri del 10 gennaio 2003: la disposizione (art. 2497, penultimo comma), onde è prevista la possibilità che le istanze risarcitorie del socio o del creditore della società controllata nei confronti della società o ente a cui è imputabile l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento siano soddisfatte dalla stessa società controllata, il cui patrimonio è stato in ipotesi danneggiato, appunto, dall’altrui attività di direzione e coordinamento (18). “Inquini” pure la capogruppo: a pagare – questa sembra essere la ratio ispiratrice della previsione normativa – potrebbe comunque essere la controllata.
     Sorge allora il dubbio che, al di là della facciata nobile di un generico favor per i gruppi “buoni”, gestiti in maniera efficiente e coordinata, sì da evidenziare un saldo positivo dell’attività di direzione e coordinamento, e cioè un maggior benessere, in termini di produttività e redditività dell’impresa, per le diverse società che lo compongono, l’obiettivo realmente perseguito (e l’effetto pratico che verosimilmente deve attendersi dalle regole esaminate) sia quello, meno commendevole anche da un punto di vista generale, di favorire ed incentivare la libertà di azione e di manovra delle società capogruppo e dei soci di comando di queste ultime; di consentire alle capogruppo il perseguimento dei propri egoistici obiettivi di profitto e la contestuale allocazione dei relativi costi nelle società soggette alla loro “attività di direzione e coordinamento”; segnando così, su un terreno particolarmente delicato e controverso come quello dei gruppi, un preoccupante distacco da quel principio della intima connessione fra potere e responsabilità, nel quale la nostra tradizione culturale e normativa aveva individuato uno dei presidi fondamentali dell’equilibrio fra i diversi interessi in gioco nel fenomeno societario.
     Non si vuol fare del moralismo, che sarebbe fuor di luogo nel contesto dell’analisi, fin qui tentata, dei riflessi economici, in termini di costi e benefici, delle scelte normative adottate.
     Si vuole però ribadire la convinzione che la norma efficiente è quella che favorisce e premia il gruppo efficiente: un modello, cioè, di articolazione organizzativa e di gestione dell’impresa plurisocietaria, tale da comportare, attraverso le sinergie di gruppo e l’eliminazione di diseconomie di scala, un vantaggio complessivo superiore a quello conseguibile nell’ambito delle singole unità giuridiche del gruppo e la redistribuzione di detto vantaggio fra le singole società, in proporzione del contributo da ciascuna dato a quell’incremento di profitto e dei pesi da ciascuna sopportati.
     Non è per converso norma efficiente, a mio avviso, quella che, incurante dei conflitti di interesse insiti nel fenomeno dei gruppi societari (19), premi ed incentivi l’efficienza imprenditoriale di chi sta al timone (della società o ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento), senza tenere il conto dei costi che quell’efficienza possa provocare, a valle, in termini di pregiudizio degli interessi facenti capo ai soci “esterni” al gruppo di comando, in ipotesi presenti nelle singole società del gruppo (20), e senza farsi carico della necessità – non solo equitativa – che quei costi vengano sopportati da chi vi abbia dato origine e ne abbia tratto vantaggio.
     Si tratta, preme sottolinearlo, di un’esigenza non solo equitativa: essa rileva infatti sul piano, che più specificatamente interessa, dell’efficienza del mercato. Si ha l’impressione, almeno – ripeto – ad una prima disamina del testo normativo appena emanato, che la disciplina dei gruppi societari, in esso contenuta, non sia tale da incentivare l’investimento in società di gruppo, per lo meno in società di gruppo i cui titoli non siano quotati nei mercati regolamentati (ma qui si apre un altro delicato capitolo del nostro discorso, perché è nota la tendenza a considerare l’appartenenza al gruppo come potenzialmente incompatibile con il requisito dell’autonomia gestionale, richiesto per accedere alla quotazione), e dunque da incoraggiare la presenza in esse di soci “esterni”.
     Ove l’impressione fosse fondata, occorrerebbe affrettarsi ad individuare un qualche correttivo. Le statistiche ci dicono infatti che circa il 40% delle società italiane sono società appartenenti ad un gruppo: si tratta in altri termini di un fenomeno che, ben lungi dall’interessare soltanto la grande o la grandissima impresa, investe l’area delle imprese medio-piccole (con oltre 50 addetti), e cioè il nucleo più vitale, e al tempo stesso più bisognoso di slancio, del nostro sistema economico-produttivo.

 

     * Il presente lavoro è destinato alla pubblicazione su “Rivista di diritto dell‘impresa”.

 

Note

     (1) M. MESSORI, Introduzione, in Rivista di politica economica, 2002, p.155 ss.

     (2) A norma dell’art. 2622, il delitto di false comunicazioni sociali è punito, nelle società non quotate, con la reclusione da sei mesi a tre anni e la procedibilità è subordinata alla querela della “persona offesa”. Per converso, nelle società quotate, la pena edittale va da un minimo di uno ad un massimo di quattro anni di reclusione, e il delitto è perseguibile d’ufficio.

     (3) Una società, cioè, il cui patrimonio è costituito dalle partecipazioni in altre società (nelle società controllate).

     (4) Cfr., in luogo di molti altri, ad esempio A. MIGNOLI, Interesse di gruppo e società a sovranità limitata, in Contratto e impresa, 1986, p. 729 ss.

     (5) È questa l’espressione comunemente adoperata per indicare i soci minoritari delle società controllate, in quanto tali esterni o estranei al gruppo di controllo delle stesse, che coincide poi, o comunque si riconduce attraverso la piramide dei controlli, al soggetto di vertice del gruppo: i soci esterni sono quelli che, in assenza di misure di eteroprotezione con finalità redistributiva, non sono di per sé in condizione di “compensare” il sacrificio temporaneo inferto a ad una determinata società controllata con il vantaggio contestualmente ricevuto da altra società del gruppo.

     (6) Una esposizione sintetica di detta teoria si può leggere in P. MONTALENTI, Conflitto di interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Persona Giuridica, Gruppi di società, Corporate Governance, Padova, Cedam, 1999, p.79 ss.; per qualche rilievo critico a mio avviso molto assennato, vedi tuttavia F. DENOZZA, Rules vs. Standards nella disciplina dei gruppi: l’inefficienza delle compensazioni “virtuali”, in Giurisprudenza Commerciale, 2000, I, p. 327 ss.

     (7) Al riguardo, mi sia consentito rinviare a G. SCOGNAMIGLIO, Autonomia e coordinamento nella disciplina dei gruppi di società, Giappichelli, Torino, 1996, spec. p. 198 ss.; per qualche riflessione più approfondita su questa nozione vedi più di recente, ma con riferimento ai (soli) gruppi paritetici, R. SANTAGATA, Il gruppo paritetico, Torino, Giappichelli, 2001, p. 55 ss.

     (8) La clausola normativa che fa riferimento al risultato complessivo dell’attività (art. 2497, comma 1, in fine) è a mio avviso monca, e può pertanto risultare ambigua: non è il risultato complessivo dell’attività che può essere, di per sé, addotto a compensazione del danno patito dalla singola controllata, ma il risultato complessivo in quanto giovi o abbia giovato pro quota alla singola controllata e valga appunto a riequilibrare, nel suo patrimonio, la lesione inferta dall’attività di direzione e coordinamento della capogruppo. In senso contrario, e ricavandone allora correttamente il corollario di una piena legittimazione di direttive di gruppo pregiudizievoli per la singola società controllata, v. L. ENRIQUES, Vaghezza e furore. Ancora sul conflitto d’interessi nei gruppi di società in vista dell’attuazione della delega per la riforma del diritto societario, nel volume Verso un nuovo diritto societario, a cura di Benazzo, Ghezzi e Patriarca, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 247 ss., spec. 250-251.

     (9) Sul tema ormai classico, e sulle diverse possibili tecniche di soluzione, cfr. il recente studio di N. ZORZI, L’abuso della personalità giuridica, Cedam, Padova, 2002.

     (10) Condivide questo rilievo G.B. PORTALE, Osservazioni sullo schema di decreto delegato (approvato dal governo in data 29-30 settembre 2000) in tema di riforma delle società di capitali, Riv. Dir. Priv., 2002, p. 701 ss.

     (11) In questo senso (ma il punto merita senz’altro un approfondimento ulteriore, che non è qui possibile) la disposizione esaminata nel testo potrebbe segnare un passo indietro rispetto alla regola attualmente contenuta nell’art. 90 della legge sull’amministrazione straordinaria delle imprese in stato di insolvenza (d. lgs. n. 270/1999), ove si stabilisce la responsabilità degli amministratori della capogruppo, in solido con quelle della controllata, per i danni a quest’ultima cagionati attraverso le direttive impartite nell’ambito della direzione unitaria di gruppo.

     (12) È appena il caso di precisare che si è fatto riferimento al recesso come strumento di disinvestimento dalle società non quotate, non perché esso sia tecnicamente precluso ai soci di società quotate (tranne che nel caso descritto nell’art. 2497-quater, lettera c), bensì perché appare ragionevole supporre che i costi, di diversa natura come si rileverà in seguito nel testo, onde il recesso è gravato, sconsiglino l’utilizzo di tale forma di disinvestimento, là dove la partecipazione sociale sia agevolmente liquidabile attraverso il mercato.

     (13) L’ipotesi della cessazione dell’attività di direzione e coordinamento del gruppo viene ricordata nel testo fra parentesi, perché non interessa da vicino ai fini del discorso qui svolto. Invero, l’attribuzione al socio della controllata di un diritto di exit nel caso in cui la capogruppo … cessi di essere tale o di comportarsi come tale, presuppone una situazione di fatto praticamente opposta a quella ora considerata; e cioè la situazione in cui l’attività di direzione e coordinamento abbia a tal punto giovato all’incremento del reddito dell’impresa di cui è titolare la controllata, da rendere scarsamente appetibile per il socio la permanenza in questa società, quando sia appunto venuto meno l’esercizio di quell’attività.

     (14) La mancata attuazione della pubblicità relativa all’esercizio (ovvero alla cessazione dell’esercizio) dell’attività di direzione e coordinamento espone altresì gli amministratori a responsabilità verso i soci (anche della società controllata?) e verso i terzi: così l’art. 2497-bis, terzo comma. Ma la regola non sembra essere di grande aiuto nei riguardi del nostro socio insoddisfatto. Invero, se si applica – come credo: cfr. art.2497-quater, ultimo comma – la regola generale enunciata nell’art. 2437-bis, che fissa in trenta giorni dalla conoscenza del fatto il termine per l’esercizio del recesso, il socio, quand’anche privato, per colpa degli amministratori, dell’informazione attraverso il registro delle imprese, avrebbe pur sempre la possibilità di esercitare il recesso, una volta venuto a conoscenza per altra via del fatto rilevante ed entro trenta giorni dalla data in cui ne acquisisce conoscenza. Dunque, un’azione di danni contro gli amministratori inerti avrebbe probabilmente successo solo se il socio dimostrasse ad esempio che, ove fosse stato tempestivamente informato attraverso il registro delle imprese, avrebbe potuto esercitare il recesso a condizioni più favorevoli. D’altro canto, gli amministratori potrebbero addurre, a giustificazione del proprio operato, e cioè della mancata iscrizione del fatto dell’attività di direzione e coordinamento, la circostanza che, secondo la loro propria convinzione, quel fatto non si era (ancora) verificato: e, in effetti, non sembra che la disciplina in esame enunci gli elementi costitutivi della “attività di direzione e coordinamento di società controllate”, in maniera a tal punto chiara ed univoca da rendere difficilmente contestabile la ricorrenza in concreto di detta fattispecie.

     (15) Si vuole cioè sostenere che potrebbe rivelarsi non agevole, per il socio di società controllata non quotata, scontento dell’ingresso della società in un gruppo soggetto all’attività di direzione e coordinamento di una determinata capogruppo, disinvestire la sua partecipazione, invocando la causa di recesso a cui ha riguardo nel testo, È da considerare peraltro che, ove la difficoltà di esercizio del recesso nell’ipotesi ora considerata discendesse dall’inosservanza degli obblighi pubblicitari previsti dall’art. 2497-bis, al socio sarebbe comunque aperta la strada di un’azione di danni nei confronti dei soggetti inadempienti. L’importo preteso a titolo di risarcimento non potrebbe tuttavia senz’altro commisurarsi alla perdita del diritto di recesso in conseguenza della mancata attuazione della pubblicità, perché la spettanza in concreto di quel diritto dipende, come si rileva subito appresso nel testo, altresì dalla prova della modifica in peius «delle condizioni di rischio dell’investimento».

     (16) Si fa qui riferimento alla società non quotata, perché il socio di una società le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati ha un minor bisogno di tutela specifica attraverso il recesso: il suo interesse ad uscire dalla società può realizzarsi, forse più agevolmente, attraverso il mercato (e cioè attraverso la vendita delle sue partecipazioni).

     (17) Cfr. § 305, Absatz 2, Aktiengesetz.

     (18) La disposizione ricordata nel testo viene qualificata come “singolarmente oscura”, perché non sembra spiegare o giustificare in alcun modo il titolo giuridico in base al quale la controllata dovrebbe intervenire nel rapporto obbligatorio fra il socio minoritario e la capogruppo e pagare di tasca propria il debito risarcitorio della seconda nei confronti del primo. Si tratterebbe probabilmente di un’ipotesi di adempimento del debito altrui; il quale adempimento, a meno …. di non essere stato realizzato con fondi “neri” costituiti dalla capogruppo presso la controllata, fonderebbe una ragione di credito di quest’ultima verso la prima, risultante dai loro rispettivi bilanci. L’unico risultato “utile” sarebbe allora, sempre e solo dal punto di vista della capogruppo, quello di sottrarsi alla lite giudiziaria instaurata contro di essa dal socio minoritario, chiudendo le ostilità con quest’ultimo attraverso l’intervento al pagamento della controllata.

     (19) È qui d’obbligo, a mio avviso, il richiamo a F. d’ALESSANDRO, Il diritto delle società dai “battelli del Reno” alle “navi vichinghe”, Scritti di Floriano d’Alessandro, tomo II, Milano, Giuffré, 1997, p .477 ss.

     (20) Si vuole alludere a ciò, che le conclusioni potrebbero essere almeno parzialmente diverse, se si avesse riguardo all’ipotesi del gruppo costituito da società il cui capitale è interamente posseduto dalla capogruppo; ipotesi nella quale è per definizione assente il conflitto fra interesse della capogruppo e interesse dei soci minoritari delle controllate (ma resta aperto il problema della tutela dei creditori delle controllate medesime). Non a caso si è da taluni sostenuto (cfr. ad esempio S. SCOTTI CAMUZZI, L’unico azionista, Trattato delle S.p.A., diretto da Colombo e Portale, tomo 2/2, Torino, Utet, 1991, p. 667 ss.), già in epoca non recente, che il controllo totalitario della capogruppo sulle società figlie disattiverebbe la disciplina del conflitto d’interessi contenuta negli articoli 2373, 2391 e 2631 del codice civile tuttora vigente.

 

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