il diritto commerciale d’oggi
    2.3 – marzo 2003

Giurisprudenza

CORTE DI CASSAZIONE, 20 febbraio 2003, n. 2593 – Nicastro Presidente – Lo Piano Estensore – Licata c. Credito Italiano s.p.a.
     Qualora in un contratto di mutuo sia previsto un piano di restituzione differito nel tempo, mediante pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano in capitale da restituire al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sulla intera somma, integra un fenomeno anatocistico, vietato dall’art. 1283 cod. civ., né è possibile invocare l’esistenza di usi contrari successivi al codice civile, poiché eventuali difformi pattuizioni non consentono la formazione di usi contrari aventi forza di legge in epoca successiva alla data di entrata in vigore della norma.

 

(Omissis)
     Svolgimento del processo – Con ricorso notificato 18 giugno 1991 l’avvocato Giuseppe Licata propose opposizione all’esecuzione immobiliare promossa nei suoi confronti. Espose che:
     a) aveva stipulato con la Cassa rurale ed artigiana popolare di Palma dì Montechiaro tre contratti di mutuo (il primo nel 1976, il secondo nel 1980 e il terzo nel 1982), ciascuno con durata quinquennale e con interessi rispettivamente del 15% per i primi due e del 20% per il terzo, e di avere aperto un conto corrente con affidamento;
     b) a garanzia dei suddetti mutui aveva concesso di iscrivere ipoteca sugli immobili di sua proprietà sino a concorrenza rispettivamente di lire 120.000.000 per il secondo mutuo e di lire 900.000.000 per il terzo mutuo;
     c) per il terzo mutuo era stata iscritta ipoteca anche su area edificabile e sull’edificio da realizzarvi;
     d) era stato interamente estinto il primo rapporto di mutuo ed erano state pagate solo due rate (per un totale di lire 53 milioni) per il mutuo del 1980, mentre nessuna rata era stata versata per il mutuo del 1982, in quanto la costruzione dell’edificio sull’area ipotecata era stata bloccata dalla pubblica amministrazione;
     e) nel 1986 e nel 1987 gli erano stati notificati rispettivamente decreto ingiuntivo per scoperto sul conto corrente e precetto per le rate insolute dei suddetti mutui, con conseguente pignoramento di tutti gli immobili ipotecati e in entrambi i casi aveva proposto opposizione;
     f) realizzato l’edificio summenzionato e stipulati i relativi contratti preliminari di compravendita, al fine di ottenere la cancellazione delle ipoteche sugli appartamenti promessi in vendita e la relativa riduzione di pignoramento, in data 20 maggio 1988 aveva sottoscritto una lettera di adesione alle condizioni prescritte dalla C.R.A.P., consistenti nel riconoscimento di tutte le pendenze debitorie, rinunzia alle opposizioni proposte, accettazione di un tasso d’interesse pari al 25%;
     g) in data 29 aprile 1990 l’assemblea della C.R.A.P. aveva deliberato dì offrire a tutti i debitori dell’istituto l’eliminazione delle pendenze con un tasso di interesse pari al 5% e successivamente il consiglio di amministrazione aveva deliberato la stessa proposta al tasso di interesse pari al 14%;
     h) per tale ragione egli aveva inviato tre lettere al fine dì ottenere la concessione delle anzidette agevolazioni e malgrado ciò la C.R.A.P. non aveva dato alcuna risposta;
     i) fra l’ottobre del 1988 e il marzo 1991 era stata versata alla suddetta C.R.A.P., o direttamente da esso opponente oppure dagli acquirenti dagli appartamenti ipotecati, la complessiva somma di lire 1.425.727.000, ma ciò nonostante gli era stato intimato il pagamento di lire 585.000.000.
     Ciò premesso il Licata chiese:
     – di ordinare la sospensione dell’esecuzione e la cancellazione delle ipoteche e del pignoramento per l’avvenuto pagamento delle somme ricevute a titolo di mutuo;
     – di riliquidare le somme dovute e dipendenti del conto corrente n. 273 e dei mutui applicando i saggi di interesse del 5%, 14%, 20.50% sul mutuo di lire 500.000.000 e del 15% sul mutuo di lire lire 80.000.000 esclusi gli interessi di mora ed anatocistici;
     – di operare la compensazione dei crediti della Cassa opposta fino a concorrenza dei crediti vantati da esso opponente per spese e prestazioni professionali a far tempo della loro maturazione, tenendo conto delle somme versate da esso ricorrente e dai vari promittenti compratori;
     – di ritenere e dichiarare che gli interessi in favore della Cassa opposta dovevano essere applicati nella misura del 5% per effetto della delibera assembleare della cassa del 29/4/1990 e in subordine del 14% e ancora più in subordine del 18% sempre con esclusione degli interessi dì mora ed anatocistici;
     – di dichiarare l’illiceità delle trattenute dell’1,50% per imposta sostitutiva sulle somme mutuate operate dalla Cassa;
     – di condannare la Cassa alla restituzione delle somme pagate in eccesso qualora esso apponente fosse risultato creditore «previa declaratoria di nullità di tutte quelle condizioni inique contenute nella lettera che la travolgono e l’annullano perché inficiata di nullità assoluta per illiceità della causa, perché ispirata a comportamenti sleali coercitivi ed illeciti stante lo stato di bisogno del ricorrente»;
     – di condannare la Cassa rurale ed artigiana popolare opposta al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede per la mancata cancellazione delle ipoteche iscritte a fronte dei mutui, il tutto con vittoria di spese e compensi del giudizio.
     La Cassa rurale ed artigiana popolare opposta si costituì in giudizio ed eccepì l’inammissibilità e l’infondatezza dell’opposizione, basata sugli stessi motivi dì cui alle opposizioni al decreto ingiuntivo e al precetto, oggetto di rinuncia come da lettera del 20 maggio 1988.
     Osservò inoltre che il Licata aveva sottoscritto la transazione del 20 maggio 1988, perfettamente valida e sottoposta a condizione risolutiva, e che lo stesso Licata non aveva rispettato il patto di non effettuare vendite di unità facenti parte dell’edificio costruito in località Costa Agozzino di Agrigento senza la preventiva autorizzazione della Cassa; patto ritenuto essenziale ed inderogabile, cosicché la Cassa opposta aveva diritto a richiedere gli interessi convenzionali stabiliti in ordine ai rapporti di mutuo originari.
     Negò che fossero state adottate le delibere per proposte transattive a tassi inferiori (del 5% o del 14%) e che il Licata fosse creditore per prestazioni professionali, essendo l’assunto privo di riscontro di prova.
     Chiese la condanna del Licata al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.
     Venne disposta ed eseguita consulenza tecnica di ufficio per quantificare le somme versate dal Licata e per il calcolo delle somme dovute secondo i rispettivi assunti delle parti in causa. Con comparsa conclusionale si costituì, quale successore della C.R.A.P., il Credito Italiano S.p.A.
     Con sentenza dell’11 luglio 1996 il Tribunale di Agrigento rigettò l’opposizione, dichiarò risolta la transazione sottoscritta il 20 maggio 1988 e condannò il Licata al pagamento delle spese, liquidate in complessive lire 12.100.000, di cui lire 3.700.000 per spese, lire 2.300.000 per diritti e lire 6.100.000 per onorari, oltre IVA e contributo previdenziale a favore della Cassa avvocati, se dovute come per legge.
     Il Tribunale ritenne preliminarmente inammissibile la costituzione in giudizio del Credito Italiano S.p.A., quale successore della CRAP, parte apposta, innanzi tutto perché non si era verificata né una fusione né una incorporazione, ma una cessione dì azienda e quindi una successione a titolo particolare, con la conseguenza che il Credito Italiano avrebbe avuto la facoltà di intervenire a tempo debito nel giudizio atteso che il processo proseguiva tra le parti originarie in virtù del disposto di cui all’art. 111 cod. proc. civ., e in secondo luogo perché l’intervento era stato tardivo.
     Nel merito rilevò che la transazione raggiunta con la lettera del 20 maggio 1988 non era stata superata da un successivo accordo perché le delibere alle quali il Licata aveva fatto riferimento non contenevano alcun impegno da parte della cassa rurale ed artigiana popolare opposta e perché dalla documentazione prodotta risultava che il Licata era stato consigliato di avanzare proposte, che però non erano state accettate; che l’opposizione non era inammissibile perché con l’atto di transazione il Licata aveva rinunciato alle azioni legali intraprese in epoca precedente contro la cassa ma non ai diritti sottostanti; che la transazione raggiunta non poteva essere considerata affetta da nullità per illiceità della causa perché era stata liberamente sottoscritta dal Licata, non era contraria ad alcuna norma imperativa, contenendo semplicemente, da un lato, la rinuncia da parte del Licata alle precedenti azioni giudiziarie intraprese e il riconoscimento di un tasso di interesse maggiore sulle pendenze debitorie, come ricalcolate ed accettate dall’appellante, e dall’altro la rinuncia da parte della Cassa ad una parte delle ipoteche accese sugli immobili del Licata, il tutto previsto dalle parti su di un piano paritario.
     Inoltre osservò in ordine al riconoscimento degli interessi sulla somma dovuta, comprensiva degli interessi già maturati, che la capitalizzazione degli interessi non era contraria all’art. 1283 cod. civ., il quale fissa limiti ben precisi agli interessi anatocistici solo «in mancanza di usi contrari», laddove invece nei rapporti bancari esisteva un uso normativo, che era perfettamente legittimo (Cass. 7571/92).
     Ritenne infondata l’eccezione di illegittimità della trattenuta operata dalla C.R.AP. sulla somma erogata al Licata a titolo ritenuta di imposta perché, ai sensi dell’art. 23 del D.P.R. n. 300 del 1973, la Cassa nell’erogare i finanziamenti era costretta ad effettuare la trattenuta quale sostituto d’imposta.
     Infine, il Tribunale ritenne che la compensazione opposta dal Licata per crediti relativi a prestazioni professionali era rimasta priva di riscontro probatorio.
     Pertanto rigettò non solo l’opposizione ma anche le connesse domande di risarcimento e cancellazione di ipoteca svolte dall’opponente.
     Procedendo poi all’esame della domanda riconvenzionale proposta dalla Cassa, il Tribunale riscontrò che la validità della transazione era stata espressamente sottoposta alla condizione risolutiva che il Licata non effettuasse alcuna vendita delle unità facenti parte dell’edificio sito in Agrigento in Viale della Vittoria ipotecato a garanzia del debito contratto, tranne quelle espressamente previste; che dagli atti del giudizio risultava che il Licata non aveva rispettato la suddetta pattuizione, cosicché era sorto il diritto per l’opposta di ottenere la risoluzione della transazione e l’obbligo dell’opponente di corrispondere gli interessi originariamente pattuiti.
     Nessuna prova veniva rinvenuta tra gli atti del giudizio a sostegno della domanda dì condanna al risarcimento dei danni a carico del Licata per responsabilità aggravata.
     Avverso la suddetta sentenza il Licata propose appello con atto di citazione notificato il 13 settembre 1996 al Credito italiano S.p.A. e alla società cooperativa “Palmaria” – in persona del suo legale rappresentante dott. Filippo Cutrano – con sede a Palma dì Montechiaro, quest’ultima costituita a seguito della trasformazione della C.R.A.P. e del trasferimento dell’azienda al Credito italiano.
     Si costituirono in giudizio sia il Credito Italiano S.p.A. sia la società cooperativa a responsabilità limitata Palmaria. Il Credito italiano non solo resistette al gravame ma a sua volta propose appello in via incidentale.
     La società cooperativa S.r.l. Palmaria invece dedusse che, a seguito della cessione di azienda da parte della C.R.A.P., effettuato con atto del 2 dicembre 1992 e di un preciso impegno contrattuale assunto, la detta Cassa si era trasformata in società creditizia; chiese, pertanto, di essere estromessa dal giudizio, essendosi verificata la cessione a titolo particolare anche dei crediti vantati della cassa nei confronti del Licata (Omissis)
     Precisate le conclusioni, la causa venne assunta in decisione.
     La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 6 luglio 1998, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarò che il credito della C.R.A.P. (ed ora del Credito Italiano) era, alla data del 31 maggio 1994, di lire 1.191.694.000, per effetto della compensazione del credito del Licata pari a lire 10.468.000; respinse ogni altra domanda proposta dalle parti, confermando nel resto la sentenza impugnata, e compensò le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito.
     Per la cassazione della suddetta sentenza ha proposto ricorso Licata Giuseppe. Ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale la S.p.A. Unicredito Italiano (denominazione assunta dal Credito ItalianoS.p.A.).
     Nell’udienza del 10 febbraio 2001, questa Corte, rilevato che il ricorso incidentale non era stato notificato alla Banca di credito Cooperativa a responsabilità limitata Palmaria, nonostante la sua veste di dante causa a titolo particolare del diritto controverso, ha disposto che nei confronti della predetta fosse integrato il contraddittorio.

     Motivi della decisione – I due ricorsi devono essere riuniti perché proposti contro la stessa sentenza.
     Il ricorso incidentale deve essere dichiarato inammissibile non avendo le parti provveduto alla integrazione del contraddittorio disposta da questa Corte, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., nell’udienza del 1° febbraio 2001.
     Nella trattazione dei motivi sarà seguito l’ordine di priorità logica che non coincide con l’ordine di esposizione contenuto nel ricorso.
     Con il secondo motivo si denuncia: Violazione dell’art. 100 cod. proc. civ., in relazione all’art 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ. (Omissis)
     Con il terzo motivo si denuncia: Violazione dell’art. 100 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ..
Si deduce testualmente: «Il Credito Italiano che assume la veste di creditore opposto e appellato conserva tale qualifica se ed in quanto successore legittima del C.R.A.P., cosa che non ha dimostrato e pertanto manca di legittimazione ad causam».
Con il sesto motivo, connesso al terzo, si denuncia: Violazione dell’art. 100 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 stesso codice. (Omissis)
     Con il quarto motivo si denunzia testualmente:
«Violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 nn. 3-5 stesso codice – per essere la Corte d’Appello andata ultra petita cumulando sorte capitale ed interessi anatocistici e di mora senza fare il distinguo tra capitale ed interessi tempi di applicazione e somme cui si riferiscono e poiché non richiesti nelle forme rituali. Tali interessi dovevano essere richiesti in via giudiziale ed in ogni caso farli decorrere dalla domanda giudiziale; nel caso in esame gli interessi moratori ed anatocistici dovrebbero decorrere dalla domanda giudiziale che nel caso che ci occupa non è dato rilevare una domanda in tal senso e gravare sul residuo credito sempreché ancora residuasse a favore della C.R.A.P. con la specificazione della misura, scadenze e i tempi cui si riferiscono. Nel caso che ci occupa manca addirittura la motivazione del come si è pervenuti alla quantificazione delle somme al 31 maggio 1994».
     Con il quinto motivo si denuncia: Violazione dell’art. 1283 cod. civ. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ. Si deduce, sotto un primo profilo, che il giudice d’appello non avrebbe potuto cumulare gli interessi di mora con gli interessi dovuti sulle somme concesse in mutuo, in forza della clausola contrattuale che li prevedeva, poiché gli interessi possono produrre interessi soltanto dalla domanda giudiziale o in base a convenzione posteriore alla loro scadenza.
     Si deduce, sotto un secondo profilo, che il giudice di appello ha adottato acriticamente le conclusioni del consulente tecnico per determinare l’ammontare del debito complessivo.
     Si deduce, sotto un terzo profilo, la violazione dell’art. 117 del decreto legislativo 1° settembre 1993 n. 385, che sancisce l’espresso divieto di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi d’interesse e delle condizioni praticale dalle banche ai clienti.
     Con il settimo motivo si denuncia: Violazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione agli art. 1193, 1194,1283 e 1184 cod. civ.
     La censura sviluppa il secondo profilo del quinto motivo del ricorso, sopra illustrato.
     La censura sviluppata con il quarto motivo è infondata nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. perché il cumulo di interessi sugli interessi era stato fatto valere dalla creditrice opposta fin dal primo grado del giudizio.
     La questione prospettata con il terzo profilo di censura contenuta nel quinto motivo è nuova; infatti la questione non risulta prospettata nel giudizio di merito.
     Con riferimento al primo profilo di censura di cui al quinto motivo si osserva che il giudice d’appello ha respinto l’impugnazione proposta dal Licata, in base alle seguenti considerazioni:
     «Per gli interessi di mora va rilevato che dai contratti di mutuo intercorsi tra il Licata e la Cassa risulta che è stato pattuito un interesse di mora per entrambi i finanziamenti prevedendo espressamente la decorrenza dalla scadenza delle singole rate annuali in conformità al combinato disposto di cui agli artt. 1224, 1219 n. 3 e 1283 cod. civ., non essendo necessaria una preventiva costituzione in mora da parte della Cassa creditrice.
     Per il calcolo degli interessi sugli interessi, i c.d. interessi anatocistici va ribadito che nel caso in esame non sono applicabili le limitazioni previste dall’art. 1283 cod. civ. perché tali limitazioni valgono solo in mancanza di usi contrari, come viene previsto dallo stesso art. 1283 cod. civ., laddove invece nei rapporti bancari esiste un uso normativo contrario che viene considerato perfettamente legittimo (v. Cass. 7571/92 e6631/81)».
     I due finanziamenti cui la riferimento la Corte d’appello riguardano il mutuo di lire 80.000.000 in data 2 maggio 1980 ed il mutuo di lire 500.000.000 del 23 novembre 1982, entrambi concessi dalla CRAP al Licata.
     Il primo mutuo, rimborsabile in cinque anni, venne concesso al tasso del 15% in ragione d’anno. Venne previsto che il mutuo sarebbe stato rimborsato in cinque rate annuali uguali e costanti, ciascuna di lire 23.865.243, comprensive di sorte ed interessi. Fu, infine, previsto che il ritardato pagamento alla scadenza di ciascuna delle rate avrebbe prodotto un interesse di mora del 21% in ragione d’anno, con decorrenza dalla scadenza.
     Il secondo mutuo, anch’esso rimborsabile in cinque anni, venne concesso al tasso del 20,50% in ragione d’anno. Venne previsto che il mutuo sarebbe stato rimborsato in cinque rate annuali uguali e costanti, ciascuna di lire 169.032.785, comprensive di sorte ed interessi. Fu, infine, previsto che il ritardato pagamento alla scadenza di ciascuna delle rate avrebbe prodotto un interesse di mora del 25% in ragione d’anno, con decorrenza dalla scadenza.
     Come più sopra ricordato il ricorrente deduce che il giudice d’appello non avrebbe potuto cumulare gli interessi di mora con gli interessi dovuti sulle somme concesse in mutuo, in forza della clausola contrattuale che li prevedeva, poiché gli interessi possono produrre interessi soltanto dalla domanda giudiziale o in base a convenzione posteriore alla loro scadenza.
     La censura è fondata.
     Occorre, in primo luogo, rilevare che in ipotesi di mutuo per il quale sia previsto un piano di restituzione differito nel tempo, mediante il pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sulla intera somma integra un fenomeno anatocistico, vietato dall’art. 1283 cod. civ.
     Il principio è stato affermato da questa Corte a partire dalla sentenza n. 3479 del 1971, la quale osservò che «il semplice fatto che nelle rate di mutuo vengono compresi sia una quota del capitale da estinguere sia gli interessi a scalare non opera un conglobamento ne vale tanto meno a mutare la natura giuridica di questi ultimi, che conservano la loro autonomia anche dal punto di vista contabile». Lo stesso principio è stato affermato da Cass. 6 maggio 1977, n.1724.
     L’orientamento è da seguire.
     A carico del mutuatario di somme di denaro sono poste due distinte obbligazioni. La prima è quella di restituire la somma ricevuta in prestito (art 1813 cod. civ.). La seconda è quella di corrispondere gli interessi al mutuante, salvo diversa pattuizione (art. 1815 cod. civ.). Sono due obbligazioni distinte ontologicamente e rispondenti a finalità diverse.
     Nei mutui c.d. ad ammortamento, la formazione delle varie rate, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene ad una modalità dell’adempimento delle due obbligazioni; nella rata concorrono, infatti, la graduale restituzione della somma ricevuta in prestito e la corresponsione degli interessi; trattandosi di una pattuizione che ha il solo scopo di scaglionare nel tempo le due distinte obbligazioni del mutuatario, essa non è idonea a mutarne la natura né ad eliminarne l’autonomia.
     Ciò premesso deve ora verificarsi se in materia di mutuo bancario esista un uso contrario che legittimi la decorrenza degli interessi moratori sugli interessi corrispettivi sin dal momento della loro scadenza; il che si risolve nell’accertare la legittimità della clausola, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sulla intera somma, a prescindere quindi dalle condizioni previste dall’art. 1283 cod. civ.
     Una ricognizione della giurisprudenza sul punto appare necessaria.
     Anche in questo caso è opportuno prendere le mosse dalla Sentenza n. 3479 del 1971, sopra citata.
     La fattispecie esaminata riguardava un mutuo di £. 100.000.000, concesso da un istituto bancario a dei privati,, al tasso dell’8% da estinguersi in trenta rate semestrali di £. 5.783.010, ciascuna comprensiva del capitale e degli interessi a scalare; nel contratto era stato previsto che su tutte le somme dovute e non pagate nei termini contrattuali sarebbero decorsi a carico del mutuatario gli interessi di mora nella misura del 9%.
     La Corte d’appello aveva ritenuto legittima la richiesta della banca mutuante di ottenere il pagamento degli interessi di mora sulle rate scadute e non pagate, così come convenzionalmente pattuito, rilevando che la fattispecie non integrava un’ipotesi di anatocismo, in quanto nei contratti di mutuo, nei quali sia pattuita l’estinzione del debito per capitale ed interessi mediante un piano di ammortamento, gli interessi rimangono fin dall’inizio capitalizzati.
     Come si è più sopra ricordato, Cass. n. 3479 del 1971 ha escluso che gli interessi perdessero la loro natura per effetto della inclusione nei ratei di ammortamento ed ha statuito che «salvo eccezioni previste dalla legge o l’esistenza di usi contrari, che deve essere provata dalla parte interessata, anche nel caso di mutui ad ammortamento gli interessi di mora sulle rate di mutuo scadute e non pagate sono dovute soltanto a decorrere dalla domanda giudiziale o per effetto dì convenzioni posteriori alla loro scadenza e sempre che siano decorsi almeno sei mesi».
     Analogo principio venne successivamente affermato da Cass. n. 1724 del 1977, più sopra citata.
     Abbastanza significativo appare il fatto che le suddette sentenze non si pongano esplicitamente il problema dell’esistenza di usi contrari che consentano di derogate al divieto di cui all’art. 1283 cod. civ., considerato dalla seconda sentenza «norma imperativa, che presidia l’interesse pubblico ad impedire una forma, subdola, ma non socialmente meno dannosa delle altre, di usura» con la conseguenza che «i patti conclusi in sua trasgressione sono nulli al sensi dell’art. 1418 cod. civ.». Tuttavia dalla prima delle due sentenze, laddove è affermato che gli usi, con riferimento alla fattispecie esaminata, andavano provati, può indursi che nel caso esaminato tale prova non era stata data né (è da presumersi) offerta o dedotta.
     Alle citate sentenze segue la sentenza n. 6631 del 15 dicembre 1981 di questa Corte che, sempre con riferimento ad un contratto di mutuo intercorso tra un istituto di credito ed un privato affermò il principio così massimato: «Gli usi che consentono l’anatocismo, richiamati dall’art. 1283 cod. civ., sono usi normativi, in quanto operano sullo stesso piano di tale norma (secundum legem) come espressa eccezione al principio generale ivi affermato, onde essi hanno l’identica natura delle regole dettate dal legislatore ed il giudice può applicarli attingendone comunque la conoscenza (iura novit curia), con la conseguenza che anche in sede dì legittimità è ammessa una indagine diretta sugli usi in questione e, una volta accertatane l’esistenza, una decisione, sulla base dei medesimi, indipendentemente dalle allegazioni delle parti e dalle considerazioni svolte in proposito dal giudice di mento».
     In applicazione del suddetto principio – e ricordato «che gli usi sono caratterizzati da un comportamento della generalità degli interessati che vi sì adeguano con il convincimento di adempiere ad un precetto di diritto», la Corte ha ritenuto che «può fondatamente affermarsi che nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l’anatocismo trova generale applicazione in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono (nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi) come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata ma sugli interessi da questa prodotti e ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall’art. 1283 cod. civ.».
     Fatta questa premessa la Corte ha ritenuto che non era necessario accertare «un uso con specifico riferimento agli atti di mutuo, in quanto è idonea a legittimare l’anatocismo nei confronti di questi, una consuetudine che riguardi tutti i rapporti di credito, in un determinato campo, dato che la regola generale trova applicazione nei casi particolari ad essa riconducibile» ed ha concluso affermando che «sussiste, dunque, un uso che rende lecito l’anatocismo nelle relazioni tra banche e clienti e, pertanto, deve concludersi, in conformità alle decisioni dei giudici del merito, per la validità della clausola, contenuta nel mutuo in discussione, che prevede gli interessi moratori dell’8,50% sulle rate di ammortamento scadute e non pagate».
     Occorre soffermare l’attenzione sulla suddetta sentenza perché essa costituisce il precedente (solo indirettamente, e peraltro senza dimostrazione alcuna, l’esistenza di un uso era stata ritenuta da Cass. 12 aprile 1980, n. 2335) sul quale si sono basate le successive decisioni di questa Corte (fino a Cass. 15 marzo 1999, n. 2374) per affermare l’esistenza generalizzata di usi bancari derogatori della norma di cui all’art. 1283 cod. civ.
     Peraltro, la sola sentenza, successiva a Cass. n. 6631 del 1981, che si è occupata del problema dell’anatocismo nella materia del mutuo bancario è stata la n. 9227 del 1995, che si è limitata a richiamare il precedente senza nulla aggiungere (Ci si riferisce naturalmente alle sole decisioni in materia dì mutui ordinari atteso che nei mutui fondiari l’anatocismo è previsto dalla legge).
     Della sentenza n. 6631 del 1981 è da condividere l’affermazione secondo cui gli usi richiamati dall’art. 1283 cod. civ. sono soltanto i c.d. “usi normativi”. Questo punto non è discutibile ove si consideri che a detti usi è consentito derogare alla disciplina dettata dalla citata norma.
     Nella fattispecie di cui all’art. 1283 cod. civ., per effetto del richiamo, l’uso acquista forza di legge, così come è venuto a formarsi in seno alla categoria di persone che vi ha dato vita, onde la norma che lo richiama regola attraverso esso la materia che ne costituisce l’oggetto.
     Del resto, su tale punto la giurisprudenza di questa Corte è concorde e l’affermazione della natura normativa dell’uso richiamato dall’art. 1283 cod. civ. costituisce la premessa sia dell’indirizzo che fa capo alla sentenza n. 6631 del 1981 sia dell’indirizzo innovativo che ha avuto inizio con Cass. n. 2374 del 1999.
     Una rimeditazione è necessaria, invece, in ordine agli altri principi che si trovano affermati nella citata sentenza.
     Come si è più sopra ricordato, la sentenza n. 6631 del 1981, dopo aver premesso che «può fondatamente affermarsi che nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l’anatocismo trova generale applicazione in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono (nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi) come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata ma sugli interessi da questa prodotti e ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall’art. 1283 cod. civ.», afferma che «non è necessario … che si accerti un uso con specifico riferimento agli atti di mutuo, in quanto è idonea a legittimare l’anatocismo nei confronti di questi, una consuetudine che riguardi tutti i rapporti di credito, in un determinato campo, dato che la regola generale trova applicazione nei casi particolari ad essa riconducibili».
     L’affermazione di una regola generale tratta dalla constatazione della esistenza di una pratica anatocistica comune a «tutte le operazioni di dare e avere» nel campo bancario, non appare del tutto convincente quando poi si ammette che per almeno una di queste operazioni, e cioè quella di mutuo, tale pratica non è accertata; tanto che viene respinta la richiesta del ricorrente di accertamento di un uso con specifico riferimento agli atti di mutuo non con l’affermazione che un uso siffatto esista, ma con l’affermazione che in ordine a detto uso non sia necessario alcun accertamento stante l’esistenza della regola generale.
     Peraltro è ancora da osservare che allorquando l’uso è richiamato dalla legge, nei termini in cui ciò è fatto dall’art. 1283 cod. civ., questa ne recepisce il contenuto, che viene così ad essere incorporato nella norma scritta, di cui diventa parte integrante.
     In tale caso il contenuto della norma, nella parte in cui fa riferimento all’uso, è costituito appunto dal contenuto di questo, che viene così sussunto dalla norma negli stessi termini oggettivi e soggettivi in cui si è formato attraverso l’uniforme e costante ripetizione di un determinato comportamento da parte di un certo gruppo di soggetti.
     Ciò comporta che l’uso non può estendersi a soggetti diversi da quelli che lo hanno comunemente praticato (limite soggettivo) e non può riguardare atti diversi da quelli in nervazione ai quali è stato posto in essere.
     Così se un uso si è formato in relazione ad un determinato tipo di contratto bancario, non soltanto per ciò può essere esteso ad altri tipi di contratti pur se posti in essere da un istituto bancario.
     Così come del resto un uso formatosi in relazione ad uno specifico contratto posto in essere tra determinate categorie di soggetti non può estendersi anche ad altri soggetti ancorché pongano in essere lo stesso tipo di contratto.
     Alla luce delle esposte considerazioni non appare sufficiente l’accertamento di un generico uso al quale ricondurre le varie fattispecie contrattuali, peraltro di natura, a volte, completamente diversa, ma è necessario verificare se, con specifico riferimento al contratto di mutuo stipulato tra un istituto di credito ed un privato, esista un uso che deroghi alla disciplina dell’art. 1283 cod. civ..
     Prima di procedere a questa verifica occorre risolvere un problema pregiudiziale, che può essere così formulato: se gli usi contrari richiamati dall’art. 1283 cod. civ. sono solo quelli preesistenti all’entrata in vigore del codice civile ovvero se sia possibile la formazione di usi contrari successivi.
     Sul punto la dottrina è divisa.
     I sostenitori della prima tesi (necessità che gli usi richiamati dall’art. 1283 cod. civ. siano preesistenti alla norma) basano la loro opinione, fondamentalmente, sulla natura imperativa della norma, la quale non consente comportamenti contra legem e quindi la formazione di nuovi usi in deroga alla disposizione legislativa.
     I sostenitori della seconda tesi (ammissibilità della formazione di usi contrari successivi alla entrata in vigore della norma), fondano la loro opinione a) sulla considerazione che la gerarchia delle fonti non riguarda priorità temporali; b) sulla constatazione che l’uso contrario in quanto richiamato dalla norma non è un uso contra legem ma un uso secundum legem, con la conseguenza che esso sarebbe idoneo ad integrare la norma anche se formatosi successivamente; c) sulla osservazione che gli usi costituirebbero lex specialis, con la conseguenza dì esseri idonei a derogare, anche se di rango inferiore, alla legge generale.
     La Corte ritiene che debba essere proferita la prima tesi.
     Sul piano della teoria generale può convenirsi che le argomentazioni addotte dai sostenitori della seconda tesi non siano di per sé infondate. Ciò che non può essere, invece, condivisa è l’applicazione che dei principi generali viene fatta alla fattispecie di cui all’art. 1283 cod. civ..
     Uno scrutinio delle norme del codice civile, nelle quali e fatto rinvio agli usi contrari, consente di dare sostegno positivo alla tesi che si ritiene corretta.
     Rinviano agli usi contrari, attribuendo ad essi funzione integrativa-derogatoria della disciplina prevista dalla legge, gli arti. 1283, 1457, 1510, 1528, 1665, 1739; 1756,2148 del codice civile.
     Sono complessivamente otto articoli. In cinque di queste norme (artt. 1457, 1510, 1528, 1665, 1756) è usata la locuzione «in mancanza di patto o uso contrario» ovvero «salvo patto o uso contrario».
     Nell’art. 1739 è usata la locuzione «salvo che gli sia stato diversamente ordinato e salvi gli usi contrari»; nell’art. 2148 è usata la locuzione «senza il consenso del concedente o salvo uso contrario».
     Solo nell’art. 1283 cod. civ. è usata la locuzione «in mancanza di usi contrari» senza alcun riferimento a pattuizioni contrarie ovvero a manifestazioni unilaterali di volontà quali «consenso» ovvero «ordine diverso».
     L’unica pattuizione ammessa dall’art. 1283 è quella che le parti possono porre in essere in data posteriore alla scadenza degli interessi e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.
     Questa constatazione porta ad una prima conclusione: in base all’art. 1283 cod. civ. l’anatocismo è ammesso nei limiti indicati positivamente nella stessa norma (interessi dovuti per almeno sei mesi, nonché domanda giudiziale ovvero convenzione posteriore alta loro scadenza); sono fatti salvi gli usi contrari; non sono ammessi patti anteriori alla scadenza degli interessi.
     La salvezza degli usi contrari, contenuta nell’art. 1283 cod. civ., è dovuta alla constatazione da parte del legislatore del 1942 della esistenza nella pratica commerciale di radicali usi che consentivano l’anatocismo ed alla evidente intenzione di non incidere su di essi riconoscendone il valore normativo ancorché fossero contrari alla disciplina positiva che si intendeva dettare.
     La mancata previsione della possibilità di porre in essere patti contrari (se non nei limiti, dalla norma stessa indicati) trova, invece, la sua spiegazione nelle finalità che la norma di cui all’art. 1283 cod. civ. si prefigge.
     Come è stato ricordato da Cass. n. 2374 del 1999: «Le finalità della norma sono state identificate, da una parte, nella esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurari e, dall’altra, nell’intento di consentire al debitore di rendersi conto dei rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell’inadempimento (onere della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di sottoscrivere l’apposita convenzione, l’esatto ammontare del suo debito. Richiedendo che l’apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi il legislatore mira anche ad evitare che l’accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per potere accedere al credito. Finalità, va anche detta, che lungi dall’apparire anacronistiche, per quanto riguarda gli intenti antiusurai, sono di grandissima attualità, perché la lotta all’usura ha trovato in tempi recenti nuove motivazioni e nuovi impulsi e ha portato all’approvazione della legge 7 marzo 1996, n. 108, che ha radicalmente innovato la disciplina preesistente, rendendo più agevole l’applicazione delle sanzioni penali e civili (con la modifica del secondo comma dell’art. 1815 cod. civ.), anche con l’introduzione di un meccanismo semplificato di accertamento della natura usuraria degli interessi consistente nel mero superamento obbiettivo di un tasso-soglia determinato dal Ministro del tesoro per ogni trimestre. Ora, pur rimanendo nei limiti del tasso soglia, le conseguenze economiche sono diverse a secondo che sulla somma capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti. È stato, infatti osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del cinque per cento si raddoppia in venti anni, mentre con la capitalizzazione degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa quattordici anni».
     L’analisi della genesi e delle finalità dell’art. 1283 cod. civ. ed il raffronto tra il detto articolo e gli altri articoli del codice civile sopra richiamati danno ragione dell’affermazione che non consente la formazione di usi contrari aventi forza di legge in epoca successiva alla data di entrata in vigore della norma.
     La disciplina dell’anatocismo, dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942, è dettata dalle disposizioni positive contenute nell’art. 1283 e dagli usi contrari (presupposti già esistenti) dal detto articolo richiamati.
     A differenza delle altre norme del codice civile sopra richiamate l’art. 1283 cod. civ. non prevede la possibilità di patti contrari.
     Per comprendere appieno l’importanza che tale differenza comporta occorre avere presente che gli usi contrari, richiamati nelle norme del codice civile, si applicano ai rapporti da esse contemplati ancorché ad essi le parti non abbiano fatto riferimento ma solo per il fatto che esistono e sono accertati.
     In relazione agli artt. 1457, 1510, 1528, 1665, 1739, 1756 e 2148 cod. civ., le eventuali pattuizioni contrarie alla norma o non rispondenti ad usi contrari esistenti, trovano riconoscimento di legittimità nella stessa norma che le consente.
     Con riferimento a queste norme non si può escludere che la reiterazione di identiche pattuizioni, possa portare alla creazione di un uso contrario fino allora non esistente; in questo caso la legittimità dell’uso contrario non troverebbe la sua giustificazione nel fatto che la norma fa salvi gli usi contrari, ma nel fatto che le pattuizioni contrarie consentite dalla norma sono idonee, eventualmente, a far nascere un nuovo uso che sarebbe in tal caso applicabile anche se non più riprodotto in una pattuizione.
     Al contrario, in relazione all’art. 1283 cod. civ., una pattuizione relativa all’anatocismo, posta in essere successivamente all’entrata in vigore del codice, che non fosse stata conforme alla disciplina positiva dettata dall’art. 1283 ovvero agli usi già esistenti (perché relativa ad un contratto diverso da quello con riferimento al quale l’uso si era formato ovvero relativa a soggetti diversi), sarebbe stata nulla perché contraria al divieto, sia pure limitato, contenuto nella legge.
     Detta pattuizione ancorché ripetuta nel tempo, non sarebbe stata idonea a generare un uso normativo; essa avrebbe potuto al più generare una prassi negoziale contra legem non idonea, in quanto tale, a modificare la disciplina positiva esistente.
     È, infatti, vero che l’uso contrario, se richiamato dalla norme di legge, non è contra legem ma secundum legem, ma è anche vero che l’uso formatosi contro la legge esistente, in quanto frutto di patti posti in essere contro il divieto in essa contenuto, non può mai divenire secundum legem.
     Ciò che si è fin qui detto in ordine alle pattuizioni vale anche in relazione ai comportamenti, ancorché non tradotti in patti (precisazione questa doverosa, atteso che gli usi nascono anche per la reiterazione nel tempo di un determinato comportamento).
     Invero se tali comportamenti (e si fa sempre esclusivo riferimento alla disciplina dell’art. 1283 cod. civ.) si fossero risolti nella spontanea reciproca accettazione di una disciplina relativa ad un determinato rapporto in nulla si sarebbero distinti dalle pattuizioni se non per il fatto che con il comportamento la volontà veniva solo tacitamente manifestata.
     Se tali comportamenti avessero invece costituito frutto di imposizione unilaterale, determinata ad esempio da situazioni di monopolio o altre situazioni di predominio contrattuale, sarebbe mancato quel consenso minimo necessario per la nascita dell’uso; e ciò esime dall’affrontare il contestato (in dottrina) problema della necessità del requisito della opinio iuris ac necessitatis per l’esistenza dell’uso normativo.
     Deve pertanto affermarsi, con riferimento alla disciplina dell’art. 1283 cod. civ., che gli usi contrari cui la norma si riferisce sono quelli che esistevano anteriormente all’entrata in vigore del codice civile.
     Usi contrari non avrebbero potuto successivamente formarsi perché la natura della norma stessa, di carattere imperativo e quindi impeditiva del riconoscimento di pattuizioni e di comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente, impediva la realizzazione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita dì un uso avente le caratteristiched ell’uso normativo.
     Né può essere contestata la natura imperativa della norma per il fatto che essa stessa ammette di essere derogata da usi contrari, una volta dimostrato che tale deroga è possibile solo ad opera di usi contrari preesistenti.
     A questo punto occorre, allora, verificare se anteriormente al 1942 esistevano o meno usi che nel campo specifico del mutuo bancario ordinario consentissero l’anatocismo oltre i limiti previsti dall’art. 1283 cod. civ. e, particolarmente, una pattuizione analoga a quella intercorsa tra le parti del presente giudizio.
     La risposta è negativa.
     La dottrina che subito dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942 si è occupata del commento dell’art. 1283 cod. civ. ha indicato l’esistenza di usi contrari per il conto corrente e per altri contratti tipici bancari ma non per il mutuo.
     Fino al 1976 nelle raccolte degli usi a cura delle camere di commercio l’applicazione degli interessi sugli interessi veniva ammessa con riferimento a specifiche operazioni bancarie; tra i contratti non viene mai menzionato il contratto di mutuo; si menzionano, infatti, solo i rapporti di conto corrente, i depositi a risparmio, i conti vincolati e non vincolati. Del contratto di mutuo solo qualche raccolta si occupa ma solo per certificare che gli interessi relativi a frazione di anno si calcolano computando i giorni secondo l’anno civile e dividendo il numero così ottenuto per il divisore fisso dell’anno commerciale.
     Solo la raccolta degli usi di Catania prevedeva che «nel caso che il pagamento delle bimestralità, semestralità ed annualità di ammortamento di un debito commerciale avvenga dopo uno o più periodi di tempo, gli interessi di mora che decorrono al tasso consentito sulle somme si capitalizzano a fine di ogni periodo di tempo e si producono quindi alla loro volta nuovi interessi di mora» (il che a ben vedere costituisce una diversa forma di anatocismo, questa volta non sugli interessi corrispettivi del mutuo ma sugli interessi di mora dovuti in relazione al ritardato pagamento delle rate di mutuo).
     Soltanto a partire dal 1976 nella raccolta degli usi della provincia di Milano (e, a volte con qualche insignificante variazione in numerose altre raccolta provinciali, ma non in tutte) viene certificata l’esistenza di un uso concernente gli interessi di mora su rate scadute di mutui e finanziamenti. In particolare l’art. 12 della raccolta di Milano indica che «nel caso di mancato pagamento entro il quinto giorno successivo alla scadenza, anche se festivo, di rate di rimborso di mutui e finanziamenti estinguibili secondo piani di ammortamento, le banche percepiscono gli interessi di mora sull’intero importo delle rate scadute e non pagate».
     Analoga disposizione si trova poi al paragrafo 16 degli usi bancari accertati su base nazionale: «nel caso di mancato pagamento, nei termini previsti, di quanto dovuto dal debitore per capitale, interessi ed accessori, le banche percepiscono, su tutte le somme rimaste insolute, gli interessi di mora a decorrere dal giorno di scadenza fino al giorno della valuta del pagamento effettuato».
     Il fatto che l’esistenza dell’uso sia stata certificata solo trentaquattro anni dopo l’entrata in vigore del codice dimostra con sufficiente certezza che almeno precedentemente al 1942 un uso siffatto non esisteva.
     Inoltre, per le ragioni precedentemente esposte, la certificazione dell’uso non può attribuire allo stesso il valore di uso normativo, ma può al più costituire prova dì una prassi, volontaria o imposta, contraria alla legge.
     È appena il caso di aggiungere che sulla vicenda in esame non incide il d. lgs. 4 agosto 1999, n. 342; infatti, l’art. 25, comma terzo, del detto decreto legislativo, il quale aveva stabilito la validità ed efficacia delle clausole relative alla produzione dì interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data d’entrata in vigore della delibera del CICR dì cui al comma secondo del medesimo articolo, è stata dichiarata costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 17 ottobre 2000.
     Quanto sin qui detto porta, in accoglimento del primo profilo di censura di cui al quinto motivo del ricorso, alla cassazione della sentenza impugnata in relazione al punto in cui ha affermato che nel caso in esame, in relazione al calcolo degli interessi, non sono applicabili le limitazioni previste dall’art. 1283 cod. civ., per effetto di un uso bancario contrario.
     L’accoglimento della censura comporta l’assorbimento del secondo profilo di censura dello stesso motivo e del settimo motivo. (Omissis).

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