il diritto commerciale d’oggi
    N° 2.2– febbraio 2003

Giurisprudenza

TRIBUNALE DI ROMA, Sez. distacc. OSTIA, 5 dicembre 2002; Giud. unico Moriconi; Ciocca c. Credito Italiano s.p.a.
     È nulla per indeterminatezza la clausola di un contratto di conto corrente bancario, con la quale si rinvii, per la determinazione del tasso di interesse, alle “condizioni usualmente praticate su piazza”.
     Costituisce illecito anatocismo la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del cliente da parte degli istituti di credito.
     La norma interpretativa autentica del decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394, convertito con modifiche con la legge 28 febbraio 2001, n.24, si applica ai soli rapporti sorti dopo l’entrata in vigore della legge antiusura, e non a quelli antecedenti.

»Commento di Giuliano Lemme«

Il Giudice (omissis)
Letti gli atti e le istanze delle parti,
osserva:
     l’attrice ha premesso di essere titolare di un conto corrente con l’agenzia 14 del Credito Italiano fin dal 5.11.1985 con affidamento sotto forma di scoperto di conto corrente per Lire 30.000.000 che per consuetudine operativa è sempre stato utilizzato anche oltre detto tetto, ed ha fra l’altro lamentato ed eccepito:
     1) la nullità totale o parziale del contratto per indeterminatezza dell’oggetto sotto il profilo che veniva pattuito che gli interessi dovuti dal correntista si intendevano determinati alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza e producevano a loro volta interessi nella stessa misura.
     In relazione a tale censura l’attrice chiedeva che fosse dichiarata la nullità del contratto ai sensi degli artt. 1346 e 1418 2° cod. civ. ovvero in via subordinata fosse sostituita la clausola dell’art. 7 (surriportata) del contratto, in quanto vietata dall’art. 117 del decreto legislativo 385/1993, con il tasso legale per il tempo vigente e ricalcolare quindi l’intero rapporto intercorso.
     2) la violazione della legge 108/1996 in quanto che, come da specifica e dettagliata esposizione contabile, nel contratto di conto corrente de quo erano stati applicati dalla banca tassi di interesse che ripetutamente hanno violato, per eccesso, i c.d. tassi soglia stabiliti dalla legge 108/1996.
     Sotto tale profilo l’attrice chiedeva che accertata la violazione della legge antiusura fossero dichiarati non dovuti gli interessi al Credito Italiano.
     3) Illegittimità dell’anatocismo (capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi).
     In relazione a tale censura l’attrice richiedeva che fosse dichiarata l’illegittimità dell’addebito di interessi anatocistici sia in corso di rapporto che successivamente alla chiusura dello stesso e che fossero dichiarate di conseguenza non dovute tutte le maggiori somme che fossero state percepite a tale titolo dal Credito Italiano.
     La banca convenuta resisteva con pregevoli accurate memorie nelle quali venivano illustrate in dettaglio le ragioni della opposizione alle richieste attrici.
     Quanto alla prima questione ritiene il Giudicante che sia da considerare nulla (per violazione dell’art. 1284 2° e 3° cod. civ.) la clausola inserita nel contratto di conto corrente bancario, con la quale si rinvii per la determinazione del tasso di interessi ultralegali alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito su piazza poiché si tratta di criteri estrinseci inidonei a consentire un’oggettiva determinabilità del tasso convenzionale.
     Va su tale punto interamente condivisa la ormai consolidata autorevole opinione espressa dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 19.7.2000 n. 9465 in Foro it. 2001 I° 155; Cass. 1.2.2002 n. 1287 ibidem 2002 I° 1411).
     Ne consegue che anche anteriormente alla entrata in vigore del nuovo testo (ex d. lgs. 342/99) dell’art. 117 del d. lgs. 385/1993 (secondo cui sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizione praticati nonché quelle che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati) la clausola di rinvio alle condizioni praticate usualmente sulla piazza è da considerare nulla per indeterminatezza.
     L’osservazione della banca che a tutto concedere vi sarebbe nullità solo laddove sussista la pratica impossibilità di determinare univocamente l’interesse non coglie nel segno nel caso di specie.
     Ed invero la banca non ha dimostrato che sussista una tale ipotesi.
     Viceversa vale in pieno l’osservazione della S.C. secondo cui la clausola che si limiti a fare riferimento alle condizioni praticate usualmente sulla piazza dalle aziende di credito non è sufficientemente univoca e non giustifica la pretesa al pagamento di interessi in misura superiore a quella legale in quanto data l’esistenza di diverse tipologie di tassi, non consente per la sua genericità di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso concretamente riferirsi.
     Né il Credito Italiano ha indicato un eventuale accordo di cartello (centralizzato e vincolante) vigente per l’epoca e contenente uno specifico tasso di interesse per il rapporto de quo agitur al quale fare univoco riferimento.
Sostituita la clausola nulla (che non inficia certamente l’intero contratto) vanno applicati gli interessi legali secondo il tasso via via vigente nel corso del rapporto (arg. ex art. 1419 capov. e 1284).
     Sulla seconda questione vanno ricordati i principi espressi dalla Suprema Corte (fra le altre Cass. 11.11.1999 n. 12507 in Foro It. 2000 I° 451 e ss.) secondo cui:
     a) gli usi idonei a derogare alla disciplina legale dell’anatocismo devono avere carattere normativo;
     b) la generale applicazione nei rapporti tra le banche ed i clienti dell’anatocismo, nella forma derivante dagli schemi contrattuali predisposti dalle banche, può condurre a ravvisare un uso negoziale, ma non basta per identificare un uso normativo.
    È ben vero che taluni giudici di merito, anche all’interno di questo tribunale, hanno espresso contrario avviso, ma si tratta di valutazioni non condivisibili.
    Ed invero quel che è obliterato in tali decisioni è che in un’ambito (vale a dire la identificazione della natura – normativo o meno – dell’uso di cui trattasi) sicuramente non alieno da possibili interpretazioni diverse (è significativa l’indagine storica condotta fino ad epoca anteriore a quella di entrata in vigore del codice civile vigente effettuata da alcuni tribunali, cfr. per tutti Tribunale Bari 28 febbraio 2001, Barbieri in Foro it. 2001, I) l’assunto della Suprema Corte è sicuramente preferibile perché la clausola (non ha importanza per quanto tempo tollerata) della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi (operante solo per i conti debitori e non per quelli creditori, avente invece cadenza annuale) è certamente ridondante di aspetti di iniquità che rendono l’eventuale uso normativo che la sorreggesse costituzionalmente assai sospetto; con conseguente scelta obbligata – secondo il noto insegnamento della Corte delle Leggi – della interpretazione fra le varie più corretta dal punto di vista costituzionale (ed in particolare sotto il profilo del principio di eguaglianza).
    Quello che a chi scrive appare in ogni caso lapalissiano è che sia il primo meccanismo (capitalizzazione trimestrale) che il secondo (diversa periodicità della chiusura dei conti debitori e creditori) non sono (né sono mai stati) la conseguenza di accordi e pattuizioni realmente negoziate fra le parti quanto piuttosto il frutto di una imposizione della parte in grado di dettare unilateralmente le sue condizioni (come dire che da una parte vi è il potere economico degli istituti di credito dall’altra la categoria indifferenziata dei clienti utenti). È notorio che il singolo correntista, di fronte al potere economico e contrattuale delle banche, non abbia alcun potere di contrattare meccanismi (quale quello in oggetto) largamente se non unanimemente praticati dagli istituti di credito (sicché non vi è alcuna alternativa all’accettazione delle clausole imposte in assenza di disciplina legale se non quella di rinunciare all’accensione di un conto corrente).
    Se così stanno le cose ed è davvero difficile dubitarne è corretto ritenere che men che meno in passato vi sia mai stata una diversa forza contrattuale dell’utenza che allora più di ora ha sempre percepito tale potere del sistema bancario (più che la esistenza di un obbligo di legge) quale la vera fonte, non contrattabile, di questo ed altri oneri impostigli.
    Ne consegue che c'è più di una ragione per ritenere l’uso in questione non normativo (mancando l’opinio juris et necessitatis). D’altra parte è difficile non ritenere l’intrinseca ingiustizia del meccanismo in questione. Del che vi è controprova legale.
    Ed invero non va dimenticato che il D. Lgs. 4 agosto 1999, n. 342 (nel modo ivi previsto, demandando il compito ad apposito comitato) disponeva che tutte le banche relativamente alle operazioni regolate in conto corrente dovessero assicurare nei confronti della clientela la stessa peiodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori (art. 120: Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori).
    E poiché è difficile ritenere che si tratti solo di valutazione di opportunità devesi invece ritenere che la legge abbia in tale modo (sulla spinta della legislazione comunitaria) alfine corretto una palese ingiustizia nei rapporti clienti-banche.
    Del che vi è ulteriore conferma nel fatto che se di mera opportunità si fosse trattato, non avrebbe lo stesso legislatore sentito la necessità di dettare (o meglio, vistone il successivo esito tentato di dettare) norme volte a sanare per il passato il meccanismo di cui si discute.
    Il Credito Italiano ha eccepito inoltre e non sussiste alcuna violazione di legge anche in considerazione del meccanismo di legge che regola le operazioni in conto corrente (artt. 1825, 1823 2° e 1831 cod. civ.) all’atto della chiusura del conto che non coincide con la cessazione del rapporto ma che è una mera operazione contabile di compensazione tra reciproche rimesse il saldo, comprensivo degli interessi, diviene la prima rimessa di un nuovo conto.
    L’assunto, confortato da talune pronunce del tribunale capitino, non è condivisibile.
    Ed invero non vi è alcuna fonte normativa che consenta alla banca di disporre la chiusura anticipata (quattro rispetto all’unica annuale per i clienti) del conto e con tale metodo inglobare gli interessi passivi nel capitale così facendoli diventare produttivi di ulteriori interessi.
    La norma di cui all’art. 1831 cod. civ. infatti non è richiamata, e non è ovviamente una svista, dall’art. 1857 cod. civ. che regola il conto corrente bancario.
    La prassi della capitalizzazione trimestrale (che non si fonda pertanto neppure sotto tale punto di vista su una norma di legge) si rivela un modo “pattizio” (le virgolette ricordano la sperequazione fra le parti sopra ricordata) surrettiziamente posto in essere per aggirare il divieto di anatocismo, che solo in presenza di un equilibrato rapporto negoziale fra le parti può venir meno.
    Ne consegue la declaratoria di nullità dell’art. 7 secondo comma del contratto di conto corrente per violazione dell’art. 1283 cod. civ..
    Quanto alla terza questione va preliminarmente osservato che non è assorbita dall’accoglimento del primo profilo di doglianza posto che laddove dovesse risultare fondata questa censura ne conseguirebbe che nessun interesse sarebbe dovuto all’istituto di credito.
    Il quadro normativo e giurisprudenziale di fondo è quello noto, riferito alle leggi infra menzionate e derivante dalle sentenze dei giudici di legittimità (in particolare Cass. 17.11.200 n. 14899) e di merito che affrontavano le questioni in oggetto, nonché dalla successiva sentenza della Corte Cost. 25 febbraio 2002 n. 29 (in Foro it. 2002 I° 933 e ss.).
    La domanda dell’attrice merita sia pure nel contesto di un accertamento di carattere preliminare adeguata favorevole considerazione, salvo all’esito della necessaria consulenza contabile la concreta verifica della sussistenza di richieste dell’istituto di credito non dovute perché non in linea con la normativa vigente.
    L’esame della fattispecie deve tenere conto del seguente ambito: il contratto di conto corrente intercorso fra le parti veniva stipulato il 5.11.1985 e cioè prima dell’entrata in vigore della legge 7marzo 1996 n. 108.
    Il Giudice ha già affrontato (cfr. sentenza n. 445/01 del 26.9.2001) la questione se la legge 108/1996 ed in particolare il regime dei tassi-soglia (oltre i quali gli interessi sono da considerarsi sempre usurari), dalla stessa stabilito, possa o meno applicarsi anche ai contratti, quale quello in esame, stipulati prima dell’entrata in vigore della legge stessa.
    Va considerato che secondo l’art. 1 comma primo della L. 24/2001 ai fini della valutazione di nullità per superamento del limite massimo dei tassi soglia non rileva l’interesse corrisposto e pagato, dovendosi fare esclusivo riferimento all’interesse pattuito. Occorre pertanto affermare che la legge 108/1996 nell’interpretazione autentica datane dalla legge 24/2001 non può trovare spazi applicativi ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore.
    A tanto si perviene sia considerando che la legge di regola non è retroattiva e non vi sono ragioni per affermare che in questo caso sia inteso derogare a tale principio e sia per la ragione testuale che la legge 24/01 afferma che ai fini dell’applicazione dell’art. 644 cod. pen. e dell’art. 1815 2° co. si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti... affermazione che non ha senso alcuno per i contratti stipulati prima della L. 108/1996 in quanto in precedenza NON ESISTEVA UN LIMITE STABILITO DALLA LEGGE; il che si rende manifesto perché non è possibile che l’art. 644 nella lettura datane dalla L. 24/01 sia applicabile a contratti stipulati prima della L. 108/1996.
    Il fatto che la legge c.d. antiusura, nell’interpretazione legale (L. 24/01) avallata dalla Corte Costituzionale nella sentenza 25 febbraio 2002, n. 29, non sia applicabile a fattispecie negoziali antecedenti all’entrata in vigore della L. 108/1996 non implica però che l’attuale normativa costituisca uno scudo assoluto ed impermeabile dietro il quale qualsiasi condotta negoziale anteriore alla L. 108/1996 in tema di pattuizione di interessi sia del tutto insindacabile.
    Questa insindacabilità non è mai esistita (l’art. 1815 capov. nel testo antecedente alla modifica operata dalla legge 108/1996 stabiliva che se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e gli interessi sono dovuti solo nella misura legale) e sarebbe oltre che ben strano addirittura paradossale che dal contesto normativo e giurisprudenziale si pretendesse (ma non si vede come) di estrarre un tale principio.
    Fino alla entrata in vigore della L. 108/1996 la valutazione di usurarietà di cui all’art. 1815 capov. andava condotta con il parametro di riferimento della norma di cui all’art. 644 all’epoca vigente (ed in primo luogo quindi verificando la sussistenza dello stato di bisogno dell’obbligato e la relativa conoscenza e approfittamento da parte dell’erogante, con onere della prova a carico dell’obbligato).
    Poiché all’evidenza nel caso di specie tali requisiti non sussistono va esclusa qualsiasi prova ed indagine sul punto.
    Occorre verificare se, in tale contesto, qualcosa sia cambiato con l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 644 introdotto dalla L. 108/1996 e in caso positivo quale sorte abbiano i rapporti in corso per la parte non esaurita.
    Va considerato che per giurisprudenza costante (anteriore alla L. 24/01) sono rilevanti ai fini della valutazione di usurarietà le somme corrisposte e non solo quelle promesse (e tale giurisprudenza rimane pienamente valida anche a seguito della 24/2001 la quale come detto non è applicabile ai rapporti precedenti alla L. 108/1996 che ha innovato sul punto rendendo rilevante solo la promessa o convenzione circa gli interessi e svalutando il momento del pagamento) sicché occorre senz’altro effettuare tale valutazione con riferimento al momento ed all’importo della dazione (o., in mancanza, della pretesa).
    In tale operazione non v’ha dubbio che occorra fare riferimento al nuovo testo dell’art. 644 cod. pen. con esclusione della normativa della L. 24/2001 che riguardando per quanto detto solo i rapporti successivi all’entrata in vigore della legge 108/1996 risulta del tutto inapplicabile ai rapporti antecedenti a tale ultima legge. D’altra parte ipotizzare che dopo l’entrata in vigore della L. 608/96 si debba continuare ad applicare il testo abrogato dell’art. 644 anche per la parte dei rapporti negoziali ancora in corso successivamente alla nuova legge è contrario a tutti i principi giurisprudenziali affermati sul punto anche perché così operando si introdurrebbe un’ultrattività del vecchio testo dell’art. 644 che non è prevista da alcuna norma. Non possono a tale riguardo che essere condivise le affermazioni sul punto di Cass. 17.11.2000 n. 14899 cit.. Ancora più esplicita Corte Costituzionale 27.6.1997 n. 204 (F.I. I° 1997, 2033 e ss.) che, in un caso analogo (la legge 17.2.1992 n. 154 (fideiussioni omnibus), chiariva – a fronte del dubbio sollevato dal giudice remittente secondo cui le norme di garanzia previste dalla legge 154 non sarebbero valse per le fideiussioni prestate prima della sua entrata in vigore – che il non essere la legge retroattiva (quella legge, come non lo è la L. 108/1996) non implica che la disciplina precedente acquisti carattere ultrattivo, tale da consentire che la garanzia personale prestata dal fideiussore assista non solo le obbligazioni principali sorte prima della entrata in vigore della L. 154 ma anche quelle successive, in modo da attribuire efficacia permanente alla illimitatezza del rapporto di garanzia. In altri termini l’innovazione legislativa, che stabilisce la nullità delle clausole delle fideiussioni per obbligazioni future senza limitazioni di importo, non tocca la garanzia per le obbligazioni principali già sorte, ma esclude che si producano ulteriori effetti e che la fideiussione possa assistere obbligazioni principali successive al divieto di garanzia senza limiti.
    Va disposta con separata ordinanza consulenza contabile al fine di verificare in concreto se si siano verificate violazioni della legge tenendo conto che da parte dell’istituto di credito non è stata sollevata alcuna eccezione di prescrizione.
( omissis)

Commento

     La sentenza in esame affronta, in maniera certamente dotta ma non altrettanto convincente, tre profili di invalidità di clausole contenute nei contratti di conto corrente bancario, venute alla ribalta negli ultimi tempi a seguito di alcune pronunce della Cassazione, che hanno “innescato” un nutrito contenzioso nei confronti degli istituti di credito.
     La prima questione affrontata dal Tribunale è quella relativa alla norma che determina, con rinvio agli “usi praticati su piazza”, gli interessi applicati al rapporto di conto corrente bancario.
     In sostanza, ha ragionato il Giudice, la clausola in questione non è sufficientemente univoca per sfuggire alla sanzione di illiceità per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto.
     Ora, va osservato come la materia sia stata oggetto di una norma specifica del Testo Unico Bancario (TUB), il cui art. 117 esplicitamente riconnetteva una ipotesi specifica di nullità alla clausola in questione. Il che tuttavia, non comporta certamente la automatica estensione della nullità ai rapporti sorti antecedentemente, sia per il generale principio di irretroattività della legge, sia per l’esplicita previsione contenuta nell’art. 161, co. 6, dello stesso TUB («i contratti già conclusi e i procedimenti esecutivi in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo restano regolati dalle norme anteriori»).
     Ma non basta: la stessa previsione legislativa di una causa specifica di nullità per la clausola di rinvio alle condizioni praticate su piazza dovrebbe indurre a ritenere che non vi era, antecedentemente a tale previsione, una causa generale di nullità: altrimenti, lo stesso intervento legislativo sarebbe stato del tutto inutile. Ed infatti, la nullità del contratto (totale o parziale) per indeterminatezza dell’oggetto non si verifica quando questo sia comunque determinabile, anche facendo ricorso ad elementi estranei. Sotto tale profilo, sembra evidente come il riferimento alle condizioni praticate su piazza consente senz’altro al correntista di accertare l’esatto ammontare dell’interesse, tenuto anche conto che clausole rigide di indicazione dello stesso sarebbero nella pratica improponibili, atteso l’andamento dinamico del mercato del denaro.
     Su questa stessa linea si è attestata parte delle giurisprudenza di legittimità (Cass. 9 dicembre 1997, n. 12453; Cass. 18 maggio 1996, n. 4605; Cass. 13 marzo 1996, n. 2103; Cass. 7 marzo 1992, n. 2765; Cass. 12 novembre 1987, n. 8335). D’altro canto, la Suprema Corte aveva più volte affermato la validità della clausola in questione, anche con riferimento all’approvazione continuativa degli estratti conto da parte del correntista (Cass. 18 maggio 1996, n. 4605: «Una volta accertata l'esistenza di patto scritto circa la corresponsione degli interessi bancari in misura superiore a quella legale (nella specie, tassi medi praticati dalle banche su una determinata piazza), l'approvazione ripetuta di estratti conto può valere, per la sua natura confessoria, a far ritenere che il concreto ammontare degli interessi computati dalla banca sia avvenuto in conformità del criterio dettato in via preventiva con la clausola»; conf. Cass. 9 dicembre 1997, n. 12453; Cass. 16 giugno 1997, n. 5379; Cass. 13 marzo 1996, n. 2103; Cass. 1 settembre 1995, n. 9227; Cass. 20 aprile 1994 n. 3764; Cass. 7 marzo 1992, n. 2765; Trib. Genova 19 febbraio 1992, in Fallim., 1992, p. 854; Cass. 22 maggio 1990, n. 4617; Trib. Milano, 25 maggio 1989, in Banca, borsa e tit. cred., 1991, II, p. 199). Infine, un ulteriore indirizzo giurisprudenziale (Cass. 25 gennaio 2000, n. 819; conf. Cass. 22 agosto 1977, n. 3832, e Cass. 23 ottobre 1976, n. 9807) ha ritenuto che, a prescindere dalla nullità della clausola, il pagamento degli interessi da parte del correntista costituisca adempimento di una obbligazione naturale, come tale non ripetibile.
     Dunque, tenuto conto di questi molteplici profili, la pronuncia del Tribunale appare veramente poco convincente, anche se non isolata.
     La seconda questione affrontata dal Giudicante è quella, ormai arcinota, dell’anatocismo bancario. È persino superfluo ricordare il ragionamento che ha spinto la Cassazione, rinnegando un suo precedente orientamento, a considerare nulla la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi; giova piuttosto evidenziare come il Tribunale di Ostia, pur dando correttamente atto dell’incertezza e delicatezza della questione, abbia ritenuto che l’uso sorreggente la clausola non fosse normativo, a causa della sua “iniquità”, confliggente, a dire del Tribunale, con lo stesso principio contenuto nell’art. 3 Cost.
     Peraltro, prima ancora di chiedersi se l’uso in questione fosse normativo o meno, bisognerebbe interrogarsi sulla natura antocistica della capitalizzazione trimestrale.
     Il meccanismo economico del conto corrente bancario, infatti, deriva direttamente da quello del conto corrente civilistico (artt. 1823 segg. cod. civ.); l’art. 1825 cod. civ. prevede esplicitamente che le rimesse effettuate sul conto producano interessi; e tale norma va coordinata con quelle degli artt. 1823, 2° co. e 1831 cod. civ., che regolano la chiusura del conto. Dunque, “chiuso” il conto, il saldo diviene la prima rimessa di un nuovo conto.
     Secondo la sentenza in esame l’art. 1831 cod. civ., che regola per il contratto civilistico la periodicità della chiusura del conto, non essendo richiamato dall’art. 1857 cod. civ., non sarebbe applicabile al conto corrente bancario. Bisogna allora ricordare che, per dottrina ormai pressochè unanime, quest’ultima fattispecie costituisce un contratto non già regolato dagli artt. 1852 segg. cod. civ., ma che trova la sua fonte di disciplina sia nelle specifiche clausole contrattuali approvate dalle parti (le Norme Bancarie Uniformi), sia nello stesso contratto civilistico, il cui meccanismo economico, con alcune varianti, viene adottato.
     Sotto tale profilo, dunque, è irrilevante che la norma in tema di chiusura del conto non sia esplicitamente richiamata dall’art. 1857 cod. civ., in quanto la disciplina applicabile al rapporto non si esaurisce nelle norme sul regolamento in conto corrente delle operazioni bancarie (che è fattispecie diversa).
     Va peraltro evidenziato (come argutamente notato da FERRO-LUZZI, Una nuova fattispecie giurisprudenziale:”l’anatocismo bancario”; postulati e conseguenze, in Giur. Comm., 2001, pagg. 20 segg.), che a seguire il ragionamento del Tribunale anche la capitalizzazione annuale degli interessi a vantaggio dei clienti costituirebbe anatocismo!
     Non solo: a ben vedere – e questo è uno dei casi più evidenti di discrasia tra categorie giuridiche astratte ed analisi economica delle fattispecie – l’applicazione del divieto di anatocismo comporterebbe inevitabilmente l’impossibilità pratica di funzionamento del conto corrente bancario. Se infatti un cliente è affidato, e presenta dunque un saldo a debito, l’addebito degli interessi in conto, non importa con quale periodicità, costituirebbe anatocismo, e sarebbe dunque illegittimo. Alle banche, pertanto, non resterebbe che pretendere il pagamento in contanti; ma beninteso, senza che i contanti possano essere prelevati dalla disponibilità del cliente, perchè tale azione, aumentando il saldo passivo su cui calcolare gli interessi, produrrebbe comunque anatocismo.
     Dunque, non resterebbe altra soluzione che ammettere che gli interessi possano essere pretesi solo alla chiusura del rapporto, intendendo con “chiusura” la sua estinzione. Il che, nella pratica, comporterebbe la fine delle aperture di credito a tempo indeterminato e, beninteso, anche dell’accredito degli interessi sul conto attivo da parte della banca.
     Non resta dunque che concludere che il meccanismo che regola l’addebito (e l’accredito) degli interessi su conto corrente da un lato fa parte del meccanismo economico della fattispecie (che nulla ha a che vedere con l’anatocismo) e dall’altro costituisce applicazione dell’art. 821, co. 3, cod. civ.
     Ma, anche a trascurare il profilo che precede, sembra evidente come nella fattispecie, anche a concedere che si applichino le norme sull’anatocismo, vi sia un uso normativo, e non già meramente negoziale.
     Nel codice civile del 1865 (che conteneva all’art. 1232 una norma simile a quella dell’art. 1283 cod. civ.), l’uso normativo era esplicitamente riconosciuto per le Casse di Risparmio ed Istituti simili. Mentre le norme della Confederazione Generale Bancaria Fascista prevedevano la capitalizzazione trimestrale degli interessi sui conti anche saltuariamente debitori.
     Lo stesso Tribunale di Roma, d’altro canto, aveva ritenuto che «Posto che la previsione di cui all'art. 25 comma 3 d. lgs. n. 342 del 1999, ha carattere meramente ricognitivo di norme previgenti, rimangono valide le clausole, contenute in un contratto di conto corrente bancario stipulato in epoca anteriore alla delibera con cui il comitato interministeriale per il credito e il risparmio stabilirà modalità e criteri per regolare l'anatocismo, che prevedono la chiusura dei conti debitori ogni trimestre, sì da consentire la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente alla banca» (Trib. Roma, 17 dicembre 1999, in Foro It., 2000, I, c. 452).
Dunque, in conclusione, da un lato si ha che la capitalizzazione degli interessi non costituisce anatocismo, dall’altro che, comunque, lo stesso sarebbe reso legittimo dall’esistenza di un uso normativo, risultando pertanto del tutto inconferente il richiamo operato dal Tribunale all’art. 3 Cost., non potendosi considerare illegittima qualsiasi interpretazione negoziale che dia atto di uno stato di squilibrio tra le posizioni contrattuali delle parti nelle trattative negoziali (altrimenti, sarebbero del tutto inutile la norma dell’art. 1370 cod. civ.
     Infine, circa la terza questione, il ragionamento del Tribunale può essere così sintetizzato:
– la norma interpretativa autentica della legge antiusura fa riferimento al superamento del tasso soglia all’epoca della pattuizione degli interessi;
– antecedentemente alla legge antiusura, non esisteva il concetto del tasso soglia;
ergo, la norma interpretativa si riferisce ai soli rapporti sorti dopo l’entrata in vigore della legge antiusura.
     La sentenza, che si basa su una sorta di “presunzione interpretativa” basata sul mero dato letterale della legge, è certamente sottile, ma conduce in pratica ad effetti aberranti.
     Infatti, mentre è evidente che la ratio legis della normativa di interpretazione autentica è quella di evitare che ai vecchi rapporti si applichi pedissequamente la nuova normativa, l’interpretazione del Tribunale giunge al risultato totalmente opposto: ai nuovi rapporti si applica la vecchia normativa, mentre ai vecchi rapporti si applica la nuova.      Si consideri, infatti, che la pattuizione degli interessi, ove fosse avvenuta in epoca remota, cadrebbe automaticamente sotto la sanzione dell’art. 1815 cod. civ. (non debenza dell’interesse), mentre ove fosse avvenuta in epoca recente, non vi cadrebbe. E non si comprende perchè, mentre chi contratti dopo l’entrata in vigore della legge antiusura non debba porsi il problema dell’eventuale, successivo sconfinamento degli interessi pattuiti rispetto al tasso soglia, se ne dovesse occupare chi abbia contrattato quando il concetto di tasso soglia neppure esisteva.
     D’altro canto, il Tribunale fa un ulteriore passo, che anch’esso desta più di una perplessità, nel considerare inapplicabile ai rapporti sorti anteriormente alla normativa antiusura la norma di interpretazione autentica, ma considerando applicabile agli stessi la normativa più sfavorevole alle banche dettata dalla stessa legge antiusura; contraddicendo così immediatamente il principio di irretroattività della legge, richiamato dallo stesso Giudice.
     Pertanto, di vari punti affrontati dal Tribunale, quest’ultimo è certamente quello che desta le maggiori perplessità, anche per le dirompenti conseguenze, cui una sua indiscriminata applicazione porterebbe.

GIULIANO LEMME

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