il diritto commerciale d’oggi
    II.11 – dicembre 2003

STUDÎ E COMMENTI

 

MARIA CONCETTA BRESCIA-MORRA

Finanziamento delle società di capitali e titoli di debito

 

 

   SOMMARIO 1. L’evoluzione della normativa in materia di titoli di debito. – 2. Le novità della riforma societaria. – 3. Portata e ragioni dei cambiamenti. – 4. Una valutazione delle nuove regole.

 

1. L’evoluzione della normativa in materia di titoli di debito.
     Il codice civile del 1942 disciplinava essenzialmente una sola forma di finanziamento dell’impresa societaria: quella rappresentata dall’emissione di titoli di partecipazione al capitale della società. L’unica modalità alternativa per far affluire mezzi finanziari all’impresa era rappresentata dalle “obbligazioni”, la cui emissione era consentita alle sole società per azioni e fortemente limitata sotto il profilo quantitativo, con la fissazione di un rigido rapporto tra capitale proprio e capitale di debito; secondo l’art. 2410 cod. civ., le obbligazioni non potevano essere emesse per una somma eccedente il capitale versato ed esistente secondo l’ultimo bilancio approvato.
     Il codice civile, prima della riforma, stabiliva una netta distinzione fra l’azione come strumento per la partecipazione al rischio d’impresa (di conseguenza disciplinava soprattutto il profilo connesso alla posizione di socio, dotato di poteri amministrativi e di controllo sulla gestione) e l’obbligazione quale titolo di debito, destinato, come sottolineava la Relazione, al risparmiatore che cerca un “investimento sicuro e un reddito costante”. L’organizzazione degli obbligazionisti era concepita per consentire di far valere i loro interessi in maniera unitaria nei confronti della società e per rendere più agevole per quest’ultima l’eventuale rinegoziazione del prestito.
     In questo contesto normativo il finanziamento dell’impresa era sostanzialmente affidato agli intermediari bancari e la sua disciplina era contenuta nelle leggi speciali che regolano quest’attività. Studi e indagini, anche di carattere storico, hanno posto in luce che le imprese italiane hanno fatto ricorso limitato al mercato obbligazionario per le loro esigenze di finanziamento (1). Solo in epoca recente le emissioni obbligazionarie sono aumentate, ancorché concentrate pressoché interamente sul mercato internazionale; i titoli, peraltro, sono spesso stati successivamente collocati in Italia dagli investitori istituzionali che li avevano originariamente sottoscritti, come documenta il recente caso delle obbligazioni emesse dalle società del gruppo Cirio, oggetto di dibattito in molte sedi, a causa delle perdite causate ai risparmiatori. L’emissione sul mercato internazionale può essere in parte ascritto proprio ai limiti alle emissione di titoli di debito nel nostro ordinamento.
     La possibilità di emettere titoli rappresentativi di capitale di debito diversi dalle obbligazioni è stata per lungo tempo, di fatto, vietata alla luce delle disposizioni dell’ordinamento bancario, in specie dell’interpretazione giurisprudenziale della riserva di attività delle banche sancita dalla legge bancaria del trentasei (2). Il divieto di emissione di titoli atipici per la raccolta di capitale di debito è stato esplicitamente affermato solo con l’emanazione della legge 23 marzo 1983, n. 77, che si preoccupava di regolare i nuovi fenomeni di innovazione finanziaria. L’art. 12 della legge 77/83 prevedeva che la raccolta del risparmio presso il pubblico, in forme diverse da quelle delle emissioni di azioni o obbligazioni, era riservata alle società per azioni e ad altri soggetti specificamente individuati. Le autorità creditizie hanno escluso che questa norma consentisse alle imprese non bancarie la raccolta del risparmio (di debito), in forma diversa da quella di emissioni obbligazionarie prevista dal codice civile, al fine di evitare fenomeni di «abusivismo» di attività bancaria (3). Successivamente, con l’emanazione del Testo Unico delle disposizioni in materia creditizia e finanziaria del 1993 (art. 11 d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385) è stata confermata l’attrazione della materia nel campo delle competenze delle Autorità creditizie; in questo contesto normativo sono state ampliate le possibilità per le imprese di emettere titoli di debito.
     L’art. 11 del T.U. banc. (4), e le relative norme di attuazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) (5) hanno tipizzato gli strumenti con cui le imprese possono raccogliere risparmio tra il pubblico: oltre alle obbligazioni, certificati di investimento e cambiali finanziarie (6). Le stesse disposizioni hanno stabilito una disciplina complessa per la raccolta del risparmio, che prevede limiti quantitativi alle emissioni di titoli di debito analoghi a quelli sanciti dal codice civile per le emissioni obbligazionarie. È consentita l’emissione di certificati di investimento e cambiali finanziarie anche alle società diverse dalle s.p.a., purché si tratti di società con titoli quotati, ovvero presentino gli ultimi tre bilanci in utile e i titoli siano assistiti da garanzia, non inferiore al 50 per cento, rilasciata da soggetti vigilati. La diffusione di questi titoli è stata, inoltre, fortemente limitata, prevedendo un limite di taglio nominale unitario minimo (non inferiore a 51.645,69 euro, ovvero 100 milioni delle vecchie lire); questa previsione circoscrive agli investitori professionali la platea dei possibili sottoscrittori di questi titoli.
     Con queste norme è stata inoltre ampliata, se pur in misura contenuta, la possibilità di emettere obbligazioni da parte delle società con titoli quotati: il limite dell’art. 2410 cod. civ. è elevato sino all’ammontare del patrimonio – capitale versato e delle riserve – risultante dall’ultimo bilancio approvato.

2. Le novità della riforma societaria
     Nella riforma del diritto societario assume rilevanza in numerosi punti il problema del finanziamento dell’impresa. Il termine “finanziamento” viene utilizzato espressamente negli articoli dedicati a un istituto nuovo: i patrimoni destinati a uno specifico affare. Gli artt. 2247 bis e segg. individuano due fattispecie, parzialmente diverse dell’istituto, una delle quali è rappresentata dal “finanziamento di uno specifico affare”. Questa figura prevede un contratto con cui terzi possano fornire alla società un apporto finanziario specificamente destinato a una particolare iniziativa imprenditoriale che la società intende porre in essere; l’ordinamento riconosce separazione patrimoniale ai proventi dell’affare, rispetto al patrimonio della società. In tale ambito è prevista la possibilità che il finanziamento sia rappresentato da titoli destinati alla circolazione (artt. 2447- bis e, in particolare, artt. 2447-decies).
     La riforma innova profondamente l’ordinamento in punto di gamma dei titoli che le società possono emettere. Oltre ai tradizionali modelli di azione e obbligazione, sono consentiti gli strumenti finanziari “partecipativi” (sezione V del capo V), ossia titoli che presentano caratteristiche proprie delle azioni, anche se viene escluso il voto nell’assemblea ordinaria. Inoltre, possono essere emessi titoli, più vicini alle obbligazioni, ma che si distinguono dalla figura tradizionale perché non comportano necessariamente il rimborso al valore nominale, ma possono condizionare i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società (art. 2411, comma 3).
     Con la riforma sono ampliate le possibilità per le società di raccogliere fondi mediante l’emissione di obbligazioni. Viene consentita l’emissione anche alle società a responsabilità limitata, ancorché la raccolta debba essere circoscritta alla platea degli “investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale” (art. 2483). Anche per le società per azioni è accresciuta la possibilità di ricorrere a questo strumento finanziario: il limite quantitativo generale è ampliato (il doppio del capitale sociale facendo riferimento anche alle riserve – legale e disponibili). Sono previste, inoltre, rilevanti deroghe al limite quantitativo, la più importante delle quali è rappresentata dalla eliminazione di qualsiasi vincolo per le emissioni delle società quotate, laddove anche i titoli obbligazionari siano quotati. Inoltre, analogamente a quanto previsto per le s.r.l., il limite quantitativo non sussiste nel caso in cui i sottoscrittori dei titoli siano investitori professionali soggetti a forme di vigilanza prudenziale (7).

3. Portata e ragioni dei cambiamenti
     Per tentare una ricostruzione sul piano sistematico del nuovo impianto normativo occorre cercare di comprendere se le innovazioni mutino radicalmente l’impostazione precedente, ovvero siano riconducibili solo all’idea di ampliare le possibilità delle società di ricorrere allo strumento finanziario delle obbligazioni in risposta alle sollecitazioni degli operatori.
     La ratio che giustificava il limite nel precedente quadro normativo era rappresentata – secondo l’interpretazione della dottrina che credo più corretta – dall’esigenza di assicurare un equilibrio nella ripartizione dei rischi fra gli azionisti, che hanno capacità di incidere sulla gestione, e gli obbligazionisti, che non hanno possibilità di controllare o intervenire sulla gestione (8).
     Non sembrano convincenti le diverse interpretazioni, in primo luogo, quella secondo cui la fissazione di un ammontare di capitale pari a quello obbligazionario in via legislativa avrebbe la funzione di fornire una garanzia di rimborso per gli obbligazionisti rappresentata dal patrimonio della società (9). L’obiezione principale riguarda proprio la convinzione che il capitale dell’impresa possa costituire una garanzia per i creditori. Questa tesi appare figlia dell’idea, affermatasi nella seconda metà del secolo scorso, secondo cui il capitale sociale rappresenta un complesso di beni destinati, già al momento della costituzione della società, e poi per tutta la durata di questa, a garantire i creditori sociali (10). In questa linea di pensiero alcuni autori hanno affermato che la previsione di una sanzione grave come la nullità per la mancata indicazione del capitale sociale (art. 2332 cod. civ.) si giustifica in quanto «non si tratta soltanto di una carenza di informazione, ma addirittura della inesistenza della garanzia», consistente nel vincolo di indisponibilità posto dall’ordinamento sul patrimonio sociale in favore dei creditori (11).
     Risulta più convincente la diversa corrente di pensiero che attribuisce al capitale sociale una funzione produttivistica e solo indirettamente di garanzia; in particolare in questa concezione la migliore garanzia per i creditori consiste nell’idoneità dell’impresa a essere gestita economicamente e produttivamente (12). Al capitale sociale è attribuito il ruolo di strumento rilevante per il conseguimento dell’equilibrio economico-finanziario dell’impresa; quest’ultimo costituisce l’unica vera «garanzia» del pagamento dei debiti sociali (13).
     Inoltre, l’orientamento secondo cui la fissazione di un limite quantitativo alle emissioni obbligazionarie pari al capitale sociale tenda a preservare una garanzia per i creditori si scontra con la considerazione che il vincolo riguarda non tutte le fonti di indebitamento della società, ma solo quello nella forma delle obbligazioni; se si considera che generalmente le società si finanziano principalmente mediante il canale bancario, il limite alle emissioni obbligazionarie non può rappresentare una garanzia sufficiente a tutelare i sottoscrittori (14).
     D’altro canto, ci sembra che la scelta di stabilire un limite quantitativo alle emissioni obbligazionarie pari al capitale non potesse essere interpretata neppure come l’imposizione in via legislativa di una regola di buona gestione dei flussi finanziari di un’impresa, ovvero un modo per limitare l’accesso al mercato obbligazionario alle sole imprese che presentino un passivo finanziario tendenzialmente in equilibrio (15). La tesi secondo cui la mancanza di equilibrio fra capitale proprio e capitale di debito possa accrescere le possibilità di insolvenza dell’impresa nel lungo periodo è, infatti, fortemente criticata dalla migliore letteratura economica (16).
     La norma in commento può essere considerata più correttamente quale forma di limitazione del “moral hazard” (17) dell’azionista. In altri termini, il legislatore ha ritenuto che consentire all’azionista, che controlla la società, di investire pochi mezzi propri nella gestione dell’impresa e utilizzare soprattutto capitale di debito raccolto tra il pubblico, possa favorire la propensione dello stesso per politiche gestionali molto rischiose; le conseguenze della crisi, infatti, verrebbero sopportate, quasi interamente dai creditori. Si tratta ovviamente di una forma elementare di difesa degli obbligazionisti in un contesto finanziario caratterizzato da una larga prevalenza del finanziamento bancario e dalla scarso sviluppo di un sistema di regole di mercato. È facile osservare che divieti quantitativi all’emissione di obbligazioni non sono previsti in nessun altro ordinamento e, in particolare, in quelli in cui sono maggiormente sviluppati i mercati finanziari. In questi sistemi, fra cui si ricorda principalmente quello statunitense, il mercato ha elaborato strumenti contrattuali che consentono agli obbligazionisti di tutelarsi a fronte di possibili traslazioni del rischio da parte degli azionisti (18). In questo contesto, i finanziatori dell’impresa, essendo titolari di un credito la cui fonte è contrattuale, valutano l’affidabilità delle gestione dell’impresa al momento della stipula del finanziamento e contrattano il prezzo del finanziamento non solo sulla base della durata, ma anche del rischio assunto. Il tasso di interesse nel contratto di finanziamento non è solo la contropartita del prestito del capitale, ma anche la ricompensa per il rischio che il debitore non restituisca la somma ricevuta. Inoltre, si considera che il creditore ha la capacità di contrattare non solo le condizioni iniziali, ma anche che tali condizioni non mutino nel tempo, attraverso la richiesta di specifiche garanzie al debitore. A fronte di situazioni in cui il rischio muti dopo la stipula del contratto, creditore e debitore possano prevedere nel contratto iniziale alcune soluzioni come, ad esempio, un’eventuale rinegoziazione del tasso di interesse, ovvero l’imposizione al creditore di restrizioni nella gestione (19).
     L’ampliamento dei limiti alle emissioni, stabilito dalla riforma societaria, sembra dettato dalla considerazione che effettivamente i limiti quantitativi non servono in presenza di mercati liquidi dei titoli e di emittenti soggetti a regole di trasparenza del mercato. Le nuove regole, infatti, esonerano dal rispetto di limiti quantitativi le società quotate che, in ragione di questa qualifica, sono soggette a una serie di oneri informativi nei confronti del pubblico dei risparmiatori sulla propria situazione finanziaria e soggetti al controllo da parte della Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa); appare rilevante che le società quotate possano emettere liberamente obbligazioni solo ove queste siano quotate, ovvero esiste un mercato secondario dei titoli con prezzi trasparenti. Inoltre, viene confermata l’inutilità di regole quantitative nel caso in cui i sottoscrittori siano soggetti in grado, non solo di valutare il rischio connesso alla sottoscrizione dello strumento finanziario, ma anche di “controllare” la gestione dell’emittente. È stato scelto, infatti, di limitare la deroga ai limiti quantitativi al caso in cui i sottoscrittori, non solo siano investitori professionali – secondo la definizione Consob utilizzata nell’offerta fuori sede di prodotti finanziari – ma anche soggetti a vigilanza prudenziale. Si tratta di intermediari, come le banche, che sono considerati soggetti, pur estranei alla compagine sociale, in grado di effettuare un controllo sulla gestione dell’impresa da parte del debitore.

4. Una valutazione delle nuove regole
     La riforma rappresenta un importante passo in avanti, che consente alle imprese societarie di rivolgersi al mercato per finanziarsi, in sostituzione del tradizionale canale bancario, in maniera molto più ampia che in passato.
     Le nuove scelte legislative, anche se di poco anteriori all’accendersi del caso Cirio e del dibattito conseguente sulla scarsa tutela offerta dall’ordinamento ai risparmiatori che avevano sottoscritto le obbligazioni emesse dalle società del gruppo agro-alimentare, sembrano offrire risposte adeguate anche alle contestazioni da più parti sollevate. Le obbligazioni in questione non erano soggette alla normativa civilistica italiana, e quindi ai più volte citati limiti quantitativi da essa stabiliti, in quanto emesse all’estero, per lo più in Lussemburgo, e poi collocate sul mercato italiano dagli investitori istituzionali. Si tralascia di entrare nel merito della questione riguardante l’accertamento dell’eventuale responsabilità in concreto per le ingenti perdite subite dai risparmiatori e l’individuazione dei soggetti su cui essa ricada. Questa esperienza mostra che era necessaria una riforma per consentire una maggiore possibilità per le imprese italiane di finanziarsi con questi strumenti, senza dover necessariamente ricorrere al mercato internazionale, nel quale appaiono scarse e poco chiare le regole applicabili e le conseguenti possibilità di tutela dei sottoscrittori. Inoltre, alla luce dei problemi posti da questo caso – in particolare della circostanza che al momento in cui si sono manifestate le difficoltà finanziarie delle società emittenti, i titoli erano in gran parte nei portafogli di piccoli risparmiatori – sembra giusta la scelta del legislatore nazionale di confermare una netta distinzione fra soggetti quotati ed altre imprese in punto di possibilità di emettere obbligazioni. Solo le prime che offrono garanzie di trasparenza delle proprie condizioni economico-finanziarie e possibilità di smobilizzo dell’investimento possono rivolgersi anche ai piccoli risparmiatori; le altre imprese devono invece collocare le obbligazioni solo a soggetti in grado di valutare i rischi dell’investimento e l’andamento della società emittente. Non sembra, inoltre, valida l’affermazione secondo cui questo caso conferma che i limiti posti dal nostro ordinamento non servono a nulla in presenza di possibilità illimitate di collocare titoli in mercati esteri; seguire fino in fondo quest’obiezione significa solo accettare un meccanismo di concorrenza al ribasso delle regole a tutela dei risparmiatori; appare, invece, più opportuno stabilire regole più severe per il collocamento da parte degli intermediari in Italia di titoli della specie emessi all’estero.
     Diversamente, non ci sembra del tutto coerente con gli obiettivi della riforma la scelta del legislatore di lasciare sostanzialmente invariato il sistema di regole sull’organizzazione e la rappresentanza degli obbligazionisti, che, come prima sottolineato, mira a consentire alla società emittente una facile rinegoziazione delle condizioni del prestito e agli obbligazionisti di opporsi a decisioni che possano rappresentare un diretto danno ai loro interessi. Una scelta più coraggiosa poteva essere rappresentata da un maggiore e migliore coordinamento del sistema dell’organizzazione degli obbligazionisti con l’organizzazione societaria. Si poteva consentire, in analogia con quanto realizzato dai bond covenants – sopra ricordati – adottati nei paesi anglosassoni (20), la possibilità dei portatori di obbligazioni di poter intervenire nel controllo della gestione sociale.
     Tale scelta sarebbe risultata, inoltre, più coerente con un altro importante cambiamento nella disciplina dei titoli di debito introdotto con la riforma: l’attenuazione della linea di confine tra titoli di rischio e titoli di debito, di cui si è già fatto cenno all’inizio. Indizi di tale cambiamento sono le previsioni secondo cui «il diritto degli obbligazionisti alla restituzione del capitale e agli interessi può essere in tutto o in parte subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società» (art. 2411, comma 1); la disciplina delle obbligazioni si applica anche “agli strumenti finanziari”, comunque denominati, che condizionano i tempi e “l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società” (art. 2411, comma 2). Sparisce, quindi uno dei principali elementi che i manuali tradizionali utilizzavano per distinguere le azioni dalle obbligazioni, ossia il diritto al rimborso del valore nominale del titolo di debito. Se si avvicinano le posizioni dell’azionista e dell’obbligazionista sotto il profilo della partecipazione al rischio d’impresa, ci sembra più corretto avvicinare le due discipline anche in punto di controlli sulla gestione nell’ambito dell’organizzazione societaria.

 

NOTE

     (1) Banca d’Italia, Lo sviluppo del mercato obbligazionario per le imprese italiane, ottobre 2003, www.bancaditalia.it; COTULA F., Stabilità e sviluppo negli anni cinquanta. Politica bancaria e struttura del sistema finanziario (vol. 3), Collana Storica della Banca d’Italia, Roma-Bari, 1999; BARBIELLINI AMIDEI F., IMPENNA C., Il mercato azionario e il finanziamento delle imprese negli anni cinquanta, in COTULA F., Stabilità e sviluppo negli anni cinquanta. Politica bancaria e struttura del sistema finanziario (vol. 3), Collana Storica della Banca d’Italia, Roma-Bari, 1999.

     (2) La sussistenza di un divieto generalizzato riguardante forme di raccolta del risparmio, diverse dalle obbligazioni non era espresso chiaramente dall’ordinamento. Il fondamento di tale divieto era, secondo parte di dottrina e giurisprudenza, rinvenibile nella riserva di attività riconosciuta dalla legge bancaria del ‘36 in favore delle banche. L’art. 96 della legge bancaria sanzionava penalmente lo svolgimento senza autorizzazione della «attività prevista dall’art.1 per la raccolta del risparmio tra il pubblico sotto ogni forma». La norma non chiariva se ai fini della configurabilità dell’illecito fosse necessario lo svolgimento di una attività congiunta della raccolta del risparmio e dell’esercizio del credito, ovvero se fosse sufficiente la mera raccolta del risparmio tra il pubblico. In favore della tesi che riteneva punibile anche la sola raccolta si veda G. RUTA, Configurabilità dell’abusiva raccolta del risparmio tra il pubblico, in Banca, borsa e tit. cred., 1964, I, p. 54 e ss. In favore del riconoscimento della qualifica di banca a qualsiasi intermediario che esercita professionalmente qualsiasi operazione avente a oggetto la moneta si è pronunciato Trib. Bologna 10 marzo 1961, in Banca, borsa e tit. cred., II, p. 265, con nota critica di G. MOLLE, Ancora sul «caso Giuffrè». Diversamente, la maggioranza della dottrina riteneva configurabile la fattispecie delittuosa in discorso solo nel caso di esercizio congiunto della raccolta e del credito. Cfr. in tal senso A. CRESPI, Attività bancaria e raccolta del risparmio non autorizzata, in Banca, borsa e tit. cred., I, 1961, p. 489; V. SPAGNOLO VIGORITA, Note sull’autorizzazione all’apertura di istituti di credito, in Banca, borsa e tit. cred., I, 1962, p. 185; G. MOLLE, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, Milano, 1980, p. 431.

     (3) Cfr. decreto del Ministro del tesoro 8 settembre 1983 e Decreto del Ministro del tesoro del maggio 1990.

     (4) L’art.11, comma 3, T.U. banc., in primo luogo, individua il concetto di pubblico al fine di escludere alcune fattispecie dall’ambito applicativo del divieto. Non è, quindi, considerata raccolta fra il pubblico, nei limiti stabiliti dalla normativa amministrativa, la raccolta effettuata presso soci o dipendenti; presso società controllanti, controllate o collegate ai sensi dell’art. 2359 del codice civile e presso controllate da una stessa controllante.

     (5) Delibera del 3 marzo 1994; decreto del Ministro del tesoro 7 ottobre 1994; BANCA D’ITALIA, Istruzioni di vigilanza di vigilanza per le banche, tit. IX, cap. 2, aprile 1999.

     (6) Le cambiali finanziarie erano state già oggetto di disciplina legislativa con la legge 43/94.

     (7) Altre deroghe, meno rilevanti anche perché sostanzialmente già previste nel vecchio codice, sono rappresentate dalle emissioni garantite da ipoteca su immobili di proprietà della società, sino a due terzi del valore degli immobili medesimi e dalle emissioni autorizzate con provvedimento governativo quando ricorrono particolari ragioni che interessano l’economia nazionale. E’ scomparsa, invece, la deroga sancita per il caso in cui l’importo delle obbligazioni, in eccedenza rispetto al capitale versato, è garantita da titoli nominativi emessi o garantiti dallo Stato, aventi scadenza non anteriore a quella delle obbligazioni, ovvero da equivalente credito di annualità o sovvenzioni a carico dello Stato o di enti pubblici.

     (8) P. FERRO-LUZZI, Vecchi e nuovi orientamenti in tema di limiti all’emissione di obbligazioni, in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 219 e ss.

     (9) In tal senso si veda A. MIGNOLI, Il capitale «versato ed esistente» come limite all’emissione dei obbligazioni, in Riv. dir. civ., 1961, II, p. 503 e ss. , il quale ritiene che il capitale della società costituisca una garanzia, se pure a-tecnica, del prestito; E. SIMONETTO, Rapporto tra garanzia ed obbligazioni emesse o in corso, in Riv. soc., 1961, p. 774 e ss.; G. OPPO, Finanziamenti in ECU, clausole monetarie e garanzie del prestito, in Riv. dir. civ., 1985, I, p. 213; in giurisprudenza Trib. Milano 17 luglio 1982 e App. Milano 11 novembre 1982, in Giur. comm., 1983, II, p. 750 e ss.; Trib. Genova, 13 maggio 1987, in Società, 1987, p. 965 e ss.; un riferimento implicito a tale tesi è rinvenibile anche più recentemente in App. Napoli 2 febbraio 1996, in Società, 1996, p. 529 e ss. con nota di A. MONTESANO, Emissione di obbligazioni: limite del capitale sociale e bilancio ex art. 2410 cod. civ.

     (10) E. SIMONETTO, Concetto e composizione del capitale sociale, in Riv. dir. comm., 1956, I, p. 48 ss., secondo il quale il capitale reale, ovvero la «massa dei beni capitale esistente nel patrimonio sociale» è idonea a esplicare una duplice fondamentale funzione: di produzione dell’utile sociale e di garanzia per i creditori sociali.

     (11) A. BORGIOLI, La nullità della società per azioni, Milano, 1977, p. 430-431.

     (12) In tal senso v. G.B. PORTALE, Capitale sociale e conferimenti nella società per azioni, in Riv. soc., 1970, p. 16 e ss.; F. DI SABATO, Manuale delle Società, Torino, 1992, pp. 100 e ss.; F. FENGHI, Capitale e oggetto sociale: osservazioni e problemi, in Riv. soc., 1979, p. 590 e ss.; G. E. COLOMBO, Il bilancio di esercizio. Struttura e valutazioni, Torino, 1987, p. 12 e ss.; F. FERRARA JR., F. CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 1987, VII ed., p. 244. Va rilevato che la tesi reale e quella produttivistica non esauriscono il dibattito sulla funzione del capitale sociale. In dottrina sono rinvenibili altri approcci eclettici che attribuiscono al capitale sociale entrambe le funzioni: cfr. G. NICCOLINI, Il capitale sociale minimo, Milano, 1981, p. 22 e ss.; G. TANTINI, Capitale e patrimonio nelle società per azioni, Padova, 1980, p. 30 e ss. Diverso ancora appare l’approccio sul punto di S. FORTUNATO, Capitale e bilanci nella s.p.a., in Riv. soc., 1991, p. 193, il quale indica il capitale nominale come «...il segnale di efficienza-inefficienza dell’impresa che si accende come in allarme a determinate circostanze e che invita all’adozione di responsabili provvedimenti nel rispetto dell’autonomia degli organismi economici». M.S. SPOLIDORO, Il capitale sociale, in AA. VV., Il diritto delle società per azioni: problemi, esperienze, progetti, a cura di P. Abbadessa e A. Rojo, Milano, 1993, II cit., 59 e ss., il quale ritiene che il capitale sociale assolva principalmente una funzione informativa per i creditori sul rischio che assumono nel finanziare l’impresa.

     (13) In tal senso v. G.B. PORTALE, Capitale sociale e conferimenti cit., p. 65 e ss.; ID. Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Riv. soc., 1991, pp. 16 e ss.

     (14) Si può, peraltro, obiettare che la scelta di prevedere un limite solo per l’indebitamento realizzato mediante il collocamento presso il pubblico di titoli di lungo periodo, ignorando il canale bancario, può derivare dalla considerazione che la professionalità degli operatori bancari nel valutare la situazione finanziaria dell’impresa nella concessione dei finanziamenti dovrebbe garantire che non vengano erogati, attraverso questo canale, finanziamenti a un impresa che presenti una situazione finanziaria particolarmente rischiosa.

     (15) Si veda in tal senso F. DI SABATO, Manuale delle Società cit., p. 405; N. D’AMICO e A. ENRIA, La riserva di raccolta del risparmio, in AA.VV., La nuova legge bancaria. Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di P. Ferro-Luzzi e G. Castaldi, Milano, 1996, I, p. 299 e 300.

     (16) La letteratura in materia è molto ampia. Il punto di riferimento è rappresentato dal teorema di Modigliani e Miller del 1958 (F. MODIGLIANI e M. MILLER, The cost of Capital, Corporation Finance, and the Theory of investiment, in American Economic Review, 1958, vol. 48, pp. 655 e ss.) secondo cui «the market value of any firm is indipendent of its capital structure» ossia dal rapporto tra debito e azioni. La tesi che ha affermato l’irrilevanza del rapporto tra capitale e debito è stata sottoposta a numerose critiche, in primo luogo connesse ai vantaggi che il debito presenta in termini di tassazione. Fra le altre critiche si ricorda quella secondo cui un elevato livello di indebitamento rispetto al patrimonio incentiva politiche di gestione più rischiose (cfr. in tal senso M.C. JENSEN, W.H. MECKLING, The theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs and Ownership Structure, in Journal of Financial Economics, 1976, p. 305). In Italia molti scritti hanno sostenuto l’esigenza di un equilibrio fra indebitamento e capitale di proprietà nel finanziamento dell’impresa (cfr. in tal senso F. ONIDA, Economia d’azienda, Torino, 1960, pp. 417 e ss.; P. CAPALDO, Capitale proprio e capitale di credito nel finanziamento dell’impresa, Milano, 1967, p. 1 e ss.; ID., Reddito, capitale e bilancio di esercizio, Milano, 1998, pp. 16 e ss.) soprattutto per ridurre, al crescere del rischio dell’impresa, l’entità dei costi fissi di interessi a carico dell’esercizio, e quindi evitare un aumento dell’indebitamento a condizioni sempre più gravose che potrebbero condurre al dissesto dell’impresa.

     (17) Il problema del moral hazard è oggetto di numerosi studi in economia e in particolare degli scritti che analizzano le possibili aree di intervento della regolamentazione pubblica a fronte di fallimenti del mercato. Il concetto è chiaramente illustrato in L. KAPLOW, An Economic Analysis of Legal Transitions, in Harvard Law Review, vol. 99, 1986, p. 536 542. Per una sintesi si veda pure Y. KOTOWITS, Moral Hazard, in The New Palgrave, Allocation, Information, and Markets, a cura di J. Eatwell, M. Milgate, P. Newman, New York, 1987, p. 207 e ss.

     (18) Cfr. sul punto R. A. POSNER, The Rights of Creditors of Affiliated Corporations, in University of Chicago Law Review, vol. 43, 1976, p. 499 e ss.

     (19) Quest’analisi si adatta bene al creditore banca o altra impresa finanziaria, in grado effettivamente di valutare il rischio assunto con il finanziamento. L’ipotesi si applica in minore misura ad altre categorie di creditori come, ad esempio, un fornitore dell’impresa.

     (20) I contratti di emissione obbligazionaria negli Stati Uniti prevedono numerose condizioni che si traducono in restrizioni alle politiche di gestione dell’impresa. Esse sono scomponibili in quattro grandi categorie: le restrizioni alle politiche di produzione e di investimento (ad esempio investimento in altre imprese, la disposizione di attività della società al di fuori della gestione ordinaria, la partecipazione a operazioni di concentrazione con altre imprese); le restrizioni alla politica di futuro indebitamento della società (come i limiti all’indebitamento complessivo); le restrizioni alle politiche di distribuzione dei dividendi; la fissazione di ordini di priorità nel pagamento dei creditori. Cfr. sul tema C. W. SMITH JR. & J. B. WARNER, On Financial Contracting: An Analysis of Bond Covenants, in Journal of Financial Economics, 1979, pp. 117-161; V. BRUDNEY, Corporate Bondholders and Debtor Opportunism: In Bad Times and Good, in Harvard Law Review, 1992, vol.105, pp. 1821 e ss. Va rilevato, peraltro, che alcuni autori hanno comunque avvertito il problema della scarsa efficacia della tutela contrattuale dei portatori di obbligazioni e sottolineano i problemi di carenza di informazione derivanti dalla dispersione dei creditori. La soluzione proposta per far fronte a tali problemi applicativi delle bond covenants si colloca comunque sempre nell’ottica contrattuale; viene proposto di far rilevare, in sede di interpretazione del contratto, il rischio di comportamenti unilaterali del debitore non prevedibili, in assenza di una preventiva informazione sul rischio sopportato dai creditori (in tal senso V. BRUDNEY, Corporate Bondholders and Debtor Opportunism, cit. p. 1828).


    

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