il diritto commerciale d’oggi
    II.10 – novembre 2003

 

Giurisprudenza

TRIBUNALE BOLOGNA, 1° ottobre 2003 – Giud. Drudi – Landini c. Trombetti.
     Non contrasta con il nostro ordinamento la costituzione di un trust c.d. interno.
     

 

 

     SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con atto di citazione del 3/7/2000, Landini Norma Giovanna conveniva in giudizio Gianfranco Trombetta e la Sofir – Società Fiduciaria e di Revisione s.r.l., l’attrice affermava:
     1) che era pendente presso la Corte d’Appello di Bologna una causa di separazione giudiziale dal coniuge Gianfranco Trombetta (la sentenza di I grado era stata pronunciata dal Tribunale di Bologna il 21/5/1999; 2) che con atto del 29/9/1999, registrato in data 26/10/1999, il marito aveva istituito un trust conferendo al trustee Sofir - Società Fiduciaria e di Revisione il potere di disporre, amministrare e gestire alcuni beni immobili che venivano che venivano contestualmente affidati (e trasferiti) per tale scopo (in particolare, la porzione del fabbricato denominato “Palazzo Majani”, in piena ed esclusiva proprietà del settlor Gianfranco Trombetti ubicato in Bologna – via Carbonesi 5 e 7 e Vicolo Spirito Santo 16 e 18, la quota di 1/2, in comunione indivisa con la Ladini, di porzioni del fabbricato sito in Monghidoro di Bologna – via Roma 15 con le relative pertinenze e, infine, la quota di 1/2, in comunione indivisa con la Landini, di porzioni del fabbricato sito in Dimaro di Trento identificato alla particella edificale nr. 386 del Libro Fondiario della Pretura di Malè).
     Nell’atto introduttivo l’attrice sosteneva che i predetti beni formavano oggetto della comunione legale dei coniugi, la quale non poteva ritenersi cessata con la sentenza di separazione resa in I grado stante la pendenza del giudizio di appello, e che l’atto di disposizione realizzato era pertanto invalido. Specificatamente, la Landini chiedeva: a) di dichiarare la nullità del trust istituito dal Trombetta in quanto inammissibile nell’ordinamento italiano sia per la scelta della legge inglese in carenza di elementi di internazionalità, sia per il contrasto con la norma imperativa interna di cui all’art. 2740 cod. civ.; b) in subordine, di dichiarare la nullità dell’atto di disposizione delle quote della comunione legale riguardanti gli immobili in Monghidoro e Dimaro trattandosi di beni indisponibili ex art. 1346 cod. civ. e, rappresentando la violazione dell’art. 184 cod. civ., di annullare il trasferimento al trustee dell’appartamento in Palazzo Majani a Bologna.
     Con comparsa depositata il 27/10/2000, si costituiva nel giudizio Trombetti Gianfranco, che si difendeva sostenendo che a) nonostante il diverso orientamento della giurisprudenza di legittimità, la comunione inglese doveva ritenersi cessata (come afferma una parte della dottrina e dei giudici di merito) sin dal 12/1/1994, giorno in cui i coniugi erano comparsi all’udienza ex art. 708 c.p.c. (nel corso della quale il Presidente aveva autorizzato i coniugi a vivere separati); b) secondo la tesi esposta, l’immobile sito in Bologna, acquistato dal convenuto il 20/4/1994, non poteva essere assoggettato al regime di comunione legale mentre erano pienamente legittimi gli atti di disposizione di quote della comunione ordinaria sorta a seguito dello scioglimento della comunione legale; anche aderendo al diverso orientamento secondo cui il regime di comunione legale cessa col passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale ma con effetto ex tunc dalla presentazione dalla presentazione del ricorso, dovevano ritenersi pienamente validi gli atti compiuti dal Trombetti ; c) in subordine, l’appartamento in Bologna Via Carbonesi era stato acquistato con denaro proveniente dalla vendita di cespiti personali del convenuto (il quale, tra l’altro, si riservava di chiederne conguaglio in altro giudizio); d) l’atto istitutivo di trust era da considerarsi pienamente valido e legittimo, sia perché il predetto istituto, di origine anglosassone, è stato espressamente riconosciuto dalla legislazione italiana (Convenzione de L’Aja dell’1/7/1985, recepita con legge di ratifica del 16/10/1989 n. 364) come confermato anche dalla giurisprudenza (proprio sul trust in questione, Trib. Bologna 18/4/2000), sia perché, salva l’applicazione dell’art. 1419 comma 1° cod. civ., la pretesa invalidità riguarderebbe solo alcune delle disposizioni del settlor. Il Trombetti rassegnava le proprie conclusioni domandando il rigetto di tutte le domande svolte dall’attrice.
     Con comparsa depositata il 30/10/2000 si costituiva nel giudizio anche la Sofir – Società Fiduciaria e di Revisione s.r.l., che deduceva, in primis, a carenza di interesse ad agire in capo all’attrice relativamente alla domanda principale avanzata: difatti, a parere della società convenuta, dato che il trust istituito dal Trombetti riguardava un complesso di beni (ulteriori rispetto a quelli oggetto di causa) trasferiti con effetti reali alla Sofir, divenuta titolare degli stessi in qualità di trustee, la Landini non aveva alcun interesse né a rilevare la presunta nullità di un complesso negozio ben più ampio ed articolato rispetto alla pretesa attorea, né a contestare l’ammissibilità nell’ordinamento dell’effetto segregativo che non coinvolge la posizione del Trombetti (settlor), ma, semmai, quella della Sofir (trustee).
     Riguardo alla validità del trust in questione, la Sofir, contestando le conclusioni avverse, rileva elementi di estraneità nella cittadinanza e residenza (Repubblica di San Marino) di uno dei beneficiari e nella residenza (sempre in San Marino) del disponente e illustrava con dovizia di particolari dottrina e giurisprudenza sull’argomento.
     Infine, la Sofir, aderendo alle ulteriori deduzioni ed eccezioni del Trombetti, chiedeva di dichiarare inammissibili e/o infondate le domande della Landini relative alla validità del trust. (Omissis)
MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Deve essere esaminata preliminarmente l’eccezione della convenuta Sofir che ha obiettato la carenza di interesse dell’attrice in merito alla contestazione della validità del trust.
     L’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. va considerato con riguardo alla domanda proposta nel giudizio e nell’ambito dello stesso, ovvero con riferimento al vantaggio che l’istante si è ripromesso nel proporre la domanda (da ultimo, Cass. 24/5/2003 n. 8236).
     La verifica sulla sussistenza della menzionata condizione dell’azione, poi, non può che svolgersi in astratto valutando l’intento finale o, con altra terminologia, il bene della vita cui aspira il richiedente, indipendentemente dalla fondatezza delle allegazioni e delle argomentazioni addotte a sostegno della domanda giudiziale: in altre parole, l’interesse ad agire prescinde dalla validità delle tesi sostenute e deve essere ritenuto sussistente qualora dall’ipotetico accoglimento delle istanze possa conseguire un vantaggio giuridicamente apprezzabile per l’istante.
     Nel caso de quo, Landini Norma Giovanna ha prospettato la nullità del trust perché, secondo le argomentazioni attoree, lo stesso non sarebbe riconducibile alla disciplina dettata dalla Convenzione de L’Aja, non avrebbe elementi di estraneità tali da giustificare la scelta della legge inglese come norma regolatrice del negozio (con conseguente inoperatività della succitata Convenzione) e, inoltre, i suoi effetti sarebbero in contrasto con l’art. 2740 cod. civ., che – si assume – è norma imperativa ed inderogabile dell’ordinamento italiano.
     La Sofir lamenta che la questione di nullità con riferimento all’art. 2740 cod. civ. è richiamata a sproposito in quanto l’attrice non vanta alcun diritto di credito verso il coniuge disponente, né ha rapporti di debito-credito con il trustee (il fenomeno segregativi, difatti, si limita ad impedire che i beni, effettivamente ceduti dal settlor, entrino nel patrimonio personale del trustee e quindi che gli stessi possano mai costituire oggetto di garanzia patrimoniale da parte di terzi creditori personali del trustee stesso); aggiunge che la questione sollevata riguarda l’intero negozio di trust e non si limita ai beni sui quali la Landini accampa pretese.
     A parere di questo Giudice l’attrice ha un interesse tutt’altro che astratto a sostenere la nullità del trust, perché le sue critiche si dirigono nei confronti dell’istituto nel suo complesso e, recependo alcune indicazioni della dottrina (oramai minoritaria), sottolineano profili di presunta incompatibilità del trust (e soprattutto del trust c.d. “interno”) con l’ordinamento nazionale; ciò vale anche con riferimento alla pretesa contrarietà all’art. 2740 cod. civ., la quale diviene rilevante ove si discuta dell’”importazione” o, melius, del riconoscimento del trust assoggettato a legge straniera in relazione alle categorie giuridiche “tradizionali” di un Paese di civil law.
     Se le argomentazione della Landini fossero accoglibili (e, come si vedrà, non è questo il caso; tuttavia, come già detto, si deve prescindere dall’esame della fondatezza della domanda per compiere l’esame ex art. 100 c.p.c.), il negozio sarebbe affetto da radicale e totale nullità (si potrebbe addirittura parlare di una sua estraneità all’ordinamento), e, quindi, all’avvenuto trasferimento degli immobili del trustee non potrebbe riconoscersi alcuna efficacia e tutti i beni (e, in particolare, quegli immobili sui quali l’attrice vanta diritti ex artt. 177 ss. cod. civ.) “rientrerebbero” nel patrimonio del disponente come oggetto – sempre secondo le tesi attoree – della comunione legale (in realtà, il termine “rientrerebbero” è usato in senso atecnico perché la sanzione di nullità priverebbe di effetti il trasferimento ab origine e quindi non potrebbe propriamente parlarsi di beni “usciti” dal patrimonio).
     È dunque innegabile che Norma Giovanna Landini abbia interesse a sollevare la questione di nullità del trust, impregiudicata, però, ogni considerazione (nel merito) sulla bontà delle tesi addotte a sostegno della domanda principale.

     2. Venendo al merito, a più di dieci anni dall’entrata in vigore della Convenzione de L’Aja dell’1.7.1985 (resa esecutiva con la L. 364/1989 e vigente dall’’1/1/1992), può ritenersi ampliamente superata la tesi che prospetta la contrarietà all’ordinamento italiano del trust (come osserva un’autorevole dottrina, sarebbe più opportuno parlare di trusts al plurale, ma — con larga approssimazione giuridica e in ossequio alle regole grammaticali del nostro Paese — è possibile proporre una nozione dell’istituto al singolare, astratta ed onnicomprensiva, facendo riferimento al trust “shapeless” o “amorfo” descritto nell’art. 2 del testo convenzionale) e la sua conseguente irriconoscibilità: ne danno conferma sia il vivace dibattito dottrinale (che, in alcuni casi, ha raggiunto toni polemici e persino rissosi tra i sostenitori e i detrattori di una o dell’altra teoria), nel quale la stragrande maggioranza degli autori si è schierata su posizioni favorevoli all’istituto, sia le numerose pronunce giurisprudenziali, che, quasi unanimamente, hanno risolto in senso positivo la questione della comparibilità col nostro ordinamento (per un panorama delle decisioni che, anche incidentalmente, hanno risolto in senso positivo la questione della compatibilità col nostro ordinamento (per un panorama delle decisioni che, anche incidentalmente, hanno affrontato vicende attinenti all’istituto del trust: Trib. Milano 27/12/1996; Trib. Genova 24/3/1997; Trib. Lucca 23/9/1997; Corte App. Milano 6/2/1998; Pret. Roma 13/4/1999; Trib. Roma 8/7/1999; Trib. Chieti 10/3/2000; Trib. Bologna 18/4/2000; Trib. Perugia 26/6/2001; Corte App. Firenze 9/8/2001; Trib. Pisa 22/12/2001; Trib. Perugia 16/4/2002; Trib. Firenze 23/10/2002; Trib. Milano 29/10/2002; Trib. Verona 6/12/2002; Trib. Roma 4/4/2203; Trib. Bologna 28/5/2003; Trib. Bologna 16/6/2003; in seno sfavorevole all’istituto, Trib. Santa Maria Capua Vetere 14/7/1999 e Trib. Belluno 25/9/2002).
     Conformemente ad altri precedenti giurisprudenziali (Trib. Lucca 23/9/1997; Corte App. Milano 6/2/1998; Trib. Bologna 18/4/2000, che ha ordinato al Conservatore dei R.R.I.I. di trascrivere proprio l’atto di cui si discute in questa sede; Trib. Pisa 2212/2001), questo Giudice ritiene che «definire illecito l’istituto del trust è, in diritto, carente di significato ove solamente si consideri essere il nostro Paese parte della Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985 sulla legge applicabile ai trust e sul loro riconoscimento… Non è revocabile in dubbio, infatti, che gli Stati firmatari della Convenzione, pur considerando il trust come un istituto peculiare creato dai tribunali di equità dei paesi di common law, hanno espressamente convenuto di stabilire “disposizioni comuni relative alla legge applicabile ai trust” e di risolvere in nuce “i problemi più importanti relativi al suo riconoscimento” … dimostrando quindi di considerare l’istituto, sia pure per il tramite delle disposizioni suddette, non incompatibile con gi ordinamenti interni».
     In altri termini, sostenere che il trust è inconciliabile col diritto positivo italiano non ha significato perché, per addivenire a tale conclusione, bisognerebbe affermare che tutta la legge 16 ottobre 1989 n. 364 si ha per non scritta.
     Queste prime considerazioni fanno giustizia anche di alcune delle obiezioni formulate dal Tribunale di Belluno (decreto del 25/9/2002) nel precedente giurisprudenziale citato dalla difesa dell’attrice: non è possibile, infatti, sanzionare con la nullità l’atto di trasferimento dei beni dal settlor al trustee in quanto “negozio astratto di trasferimento” (si legge nel menzionato decreto che «facendo riferimento ai tipi negoziali propri del nostro ordinamento non si vede a quale schema causale le parti abbiano voluto fare riferimento per operare la costituzione dei beni in trust [… mentre] il nostro ordinamento prevede la causa come requisito di validità del contratto […e] non ammette in via di principio negozi astratti»), sia perché, anche secondo la più recente lettura dottrinale degli artt. 1324 e 1322 cod. civ. (che sembra ammettere la costituzione di atti unilaterali atipici), «la configurabilità di negozi traslativi atipici, purché sorretti da causa lecita, trova fondamento nello stesso principio dell’autonomia contrattuale posto dall’art. 1322 comma 2° cod. civ.» (così Cass. 9/10/1991 n. 10612), sia (e soprattutto) perché la causa del trasferimento, che è ben lungi dall’essere “astratto”, si deve rinvenire ne collegato negozio istitutivo di trust (che si concretizza nei suoi scopi attraverso il predetto trasferimento) per il quale la meritevolezza degli interessi realizzati è stata ex lege sancita dalla Convenzione de L’Aja del 1985 e dalla disciplina legislativa che ne ha dato esecuzione.
     L’art. 6 della Convenzione de L’Aja stabilisce: «Il trust è regolato dalla legge scelta dal disponente».
     Nel caso de quo, che riguarderebbe un trust c.d. “interno” (e cioè – secondo la definizione dottrinale – un trust che ha la localizzazione preponderante dei suoi beni, la sede, la sua amministrazione e la residenza dei beneficiari e del settlor in un ordinamento diverso da quello scelto dalle parti per disciplinarlo), l’attrice sostiene che la scelta effettuata dal disponente non può essere libera ed incondizionata, perché, essendo la Convenzione de L’Aja una convenzione di diritto internazionale privato, essa contiene norme la cui operatività richiede, come presupposto necessario, la presenza nella fattispecie concreta di elementi oggettivi i estraneità ulteriori rispetto alla mera volontà del disponente di scegliere la legge straniera (deve trattarsi, quindi, di un trust “straniero”) e, inoltre, perché l’art. 13 della Convenzione costituisce un insormontabile ostacolo al riconoscimento di un trust i cui elementi significativi siano strettamente collegati ad uno Stato non-trust.
     La premessa è corretta: nel caso di specie gli unici elementi di estraneità al nostro ordinamento (oltre alla legge inglese prescelta per la disciplina del negozio) sono dati dal domicilio del disponente e dalla residenza e cittadinanza di uno soltanto dei tre beneficiari, mentre sono legati all’Italia il luogo di amministrazione del trust designato dal disponente (in Bologna), l’ubicazione dei beni trasferiti (in Bologna, Monghidoro e Dimaro, limitando l’analisi agli immobili in controversia), il domicilio del trustee (in Bologna), il luogo dove deve essere realizzato lo scopo del trust (gestione degli stabili trasferiti, divisione degli stessi, esecuzione delle volontà testamentate del settlor relativamente a beni ubic0ati sul territorio italiano, ecc.). Questi ultimi criteri, indicati dall’art. 7 della Convenzione per determinare la legge con cui il trust ha il collegamento più stretto nel caso in cui questa non sia stata individuata dal disponente (e non è questo il caso), possono essere qui impiegati come parametri definiti ex lege (L. 364/1989) per giungere alla conclusione che siano in presenza di un c.d. trust “interno” o “domestico”.
     Sono tuttavia errate le conseguenze che l’attrice (nonché parte della dottrina e la menzionata pronuncia Tribunale di Belluno 25/9/2002) trae dalla precedente considerazione difatti, da qui /e, cioè, dal carattere “interno” del negozio) a sostenere l’automatica impossibilità di riconoscere gli effetti di un trust i cui elementi significativi (salvo la legge di disciplina) non presentano caratteri di estraneità rispetto all’ordinamento italiano, “il passo è troppo lungo”: Al contrario, è elemento sicuro, che emerge dalla Convenzione, l’assoluta libertà di scelta della legge regolatrice del trust da parte del settlor (secondo autorevole dottrina «la libertà incondizionata del disponente … Costituisce il pilastro della Convenzione de L’Aja»); infatti:
     – non ha senso affermare che la convenzione riguarda esclusivamente i trust “stranieri”.
     La Convenzione non indica quale presupposto per la sua applicazione la presenza di elementi di estraneità ulteriori rispetto alla scelta della legge straniera applicabile, purché il diritto applicabile ex art. 6 (o, eventualmente, ex art. 7) della Convenzione conosca il trust o la categoria di trust in questione, secondo l’espressa prescrizione dell’art. 5, proprio quest’ultima disposizione conferma che l’unico presupposto applicativo della disciplina convenzionale (e del consequenziale riconoscimento del trust istituito) è la specificazione di una legge secondo le disposizioni del Capitolo II.
     Ragionano sul significato da attribuire al concetto di trust “straniero”, da una parte, pare scontato che il riconoscimento del trust (artt. 11 ss. Convenzione) postula l’esistenza di un fenomeno giuridico estraneo al diritto interno (quale è, pacificamente, l’istituto del trust); dall’altra, poiché i lavori preparatori della Convenzione — sui quali si dirà in seguito — hanno escluso qualsiasi limitazione legata al sito dei beni in trust o alla nazionalità/residenza del disponente o dei beneficiari, il “riconoscimento” può prospettarsi anche quando il trust è soltanto regolato da una legge tranviera e questo è l’unico elemento di estraneità, necessario e sufficiente, per farsi applicazione della disciplina convenzionale e delle norme di conflitto in essa contenute.
     In definitiva, “non esiste il trust che, retto da una legge straniera, sia «non abbastanza straniero» per alcun effetto previsto dalla convenzione”: questa trova il presupposto della propria applicazione tutte le volte che un trust si trovi a spiegare effetti in un ordinamento diverso da quello dal quale è disciplinato. Del resto, la stessa previsione dell’art. 13, relativo alla facoltà concessa agli Stati di escludere il riconoscimento dei cc.dd. trust “interni, sta proprio a significare che, almeno in linea di principio, detti trust sono compresi nell’ambito di applicazione della disciplina di cui alla Convenzione de L’Aja.
     Altro problema (sul quale si tornerà in seguito), differente e logicamente successivo rispetto a quello della determinazione della legge applicabile, riguarda gli esiti del riconoscimento del trust e le preclusioni al riconoscimento o all’efficacia previste dalla stessa Convenzione qualora la scelta del disponente sia “abusiva” e, cioè, quando i suoi effetti determinino, nel Paese con cui il trust presentai collegamenti più stretti, l’elusione di norme imperative inderogabili con atto negoziale (art. 15) e/o di norme di applicazione necesaria (art. 16) oppure quando gli effetti appaiano in manifesto contrasto con l’ordine pubblico (art. 18) o, infine, in tutti i casi in cui il riconoscimento sia “ripugnante” per l’ordinamento (art. 13).
     – l’art. 6 della Convenzione (la cui operatività discende dall’estraneità della legge regolatrice prescelta) non prevede alcun limite in relazione ai legami oggettivi e soggettivi intercorrenti tra gli elementi del rapporto fiduciario e la legge regolatrice.
     Si è voluto leggere nel testo convenzionale una limitazione, come se l’art. 6 avesse parole che non ha: «Il trust è retto dalla legge scelta dal disponente, purché egli appartenga a uno Stato che conosce il trust».
     In realtà, dall’esame dei lavori preparatori si può ricavare l’esatto contrario: il problema di stabilire se la legge applicabile al trust potesse essere scelta dal disponente prescindendo da qualsiasi elemento di internazionalità fu espressamente affrontato dai redattori del testo convenzionale. Furono respinte sia la proposta di imporre un legame tra la scelta della legge regolatrice e il disponente o l’oggetto del trust, sia quella di introdurre la possibilità per gli Stati di apporre una specifica riserva sui trust “interni” in sede di ratifica (secondo alcuni, tale soluzione è stata poi trasferita nell’art. 13), sia quella di richiedere un vincolo tra la disciplina eletta e specifici elementi della fattispecie (cittadinanza o domicilio o residenza del settlor, luogo dove il trust deve essere amministrato o dove sono ubicati i beni o dove si realizza lo scopo principale), sia quella “minor” di limitare la libertà di scelta ai soli trust aventi caratteri di “internazionalità” (intendendo così escludere l’operatività della scelta nel solo caso in cui l’unico elemento di estraneità fosse costituito dalla designazione della legge straniera).
     La voluntas politica dei redattori, obiettivata nel testo convenzionale, è invece univocamente percepibile nel senso di consentire la piena utilizzazione dell’istituto, allorché esso sia assoggettato — anche ad opera della sola scelta al costituente — alla legge di uno stato che la disciplina, e di precluderne, di contro, l’impiego abusivo ed elusivo.
     – la Convenzione prevede espressamente (artt. 6 comma 2° e 7°) dei criteri di collegamento “subordinati”, nel caso in cui non sia stata effettuata la scelta della legge regolatrice o questa sia caduta su un ordinamento che non conosce il trust o quel tipo di trust.
     Secondo il dettato legislativo la scelta del settlor può essere talmente discrezionale da riguardare persino un ordinamento non-trust: tuttavia, in tale caso (e solo in tale caso!) è possibile prescindere dalla volontà del disponente, privarla di effetti e ricorrere ai criteri di collegamento elencati nell’art. 7 comma 2°.
     La stessa Convenzione, dunque, ammette che la scelta della disciplina regolatrice possa cadere su una qualsiasi normativa che conosce il trust e solo gradatamente, ed esclusivamente nelle ipotesi previste dagli artt. 6 comma 2° e 7° comma 1°, prevede che la legge sia quella con cui il negozio presenta collegamenti più stretti: ciò dimostra inequivocabilmente che la designazione operata dal settlor è, in linea di principio, assolutamente libera e che solo in casi “patologici” (e al fine di “salvare” l’atto) la legge applicabile è vincolata a criteri di connessione diversi dalla mera voluntas del disponente (e cioè, da luogo di amministrazione del trust designato dal disponente, ubicazione dei beni in trust, domicilio/residenza del trustee, luogo dove deve essere realizzato lo scopo del trust).
     In definitiva, pare chiaro che se il testo della Convenzione avesse voluto vincolare la discrezionalità del settlor sulla legge regolatrice ad elementi di collegamento con i soggetti o l’oggetto del trust, non avrebbe attribuito a tali elementi una funzione meramente sussidiaria relegandoli al ruolo di “surrogati” della volontà inespressa o male espressa (proprio queste sono le ipotesi degli artt. 6 comma 2° e 7 comma 1°);
     – non può, nel contempo, negarsi validità a trust interni regolati da legge straniera e riconoscere in Italia gli effetti di trust che presentino altri elementi di estraneità.
     Sarebbe paradossale che l’ordinamento italiano volesse pervenire al riconoscimento in Italia di trust istituiti da stranieri con legge straniera aventi ad oggetto beni siti in Italia e, al contrario, intendesse disconoscere trust aventi le medesime caratteristiche costituiti di propri cittadini.
     Se questa fosse la soluzione voluta dal legislatore, essa presterebbe il fianco a rilievi di incostituzionalità sia per la propria irragionevolezza, sia per l’ingiustificata disparità di trattamento generata: spetta alla giurisprudenza, quindi, fornire un’interpretazione della normativa che sia in linea coi citati parametri costituzionali.
     A ciò si aggiunge che l’analisi compiuta sulle disposizioni non può prescindere dalla comprensione delle finalità che si è proposto il nostro Paese ratificando la Convenzione de L’Aja (sostiene giustamente uno dei redattori del testo convenzionale che “capire la ratio politica delle norme è il primo compito di ogni interpretazione che non sia asfittica e deviante”): se l’Italia ha sottoscritto (come primo Paese di civi law) la Convenzione sul trust è, nella sostanza, per accrescere la propria capacità di attrarre investimenti dall’estero; tale scopo sarebbe evidentemente frustato se proprio i cittadini italiani, per poter godere dei benefici tipici dell’istituto (solo sommariamente indicati nell’art. 11), dovessero istituire i propri trust in paesi stranieri (utilizzando, quale elemento di estraneità, la residenza del trustee) così trasferendo all’estero la gestione ed amministrazione di capitali e immobili.
     – la libertà di scelta della legge applicabile al rapporto negoziale, indipendentemente dalla presenza di elementi di più stretto collegamento con un certo ordinamento, è un principio non estraneo al sistema di diritto internazionale privato (interno o convenzionale)
     L’art. 3 della Convenzione di Roma del 19/6/1980 (resa esecutiva con la L. 975/1984), in materia di legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, prevede espressamente per le parti la “libertà di scelta” (secondo la locuzione impiegata nella rubrica della norma) della legge regolatrice del contratto; inoltre, l’art. 57 della legge 31 maggio 1995 n. 218 compie un rinvio recettizio al suddetto testo convenzionale introducendo il suo contenuto tra le norme di conflitto interne.
     Qualche autore ha voluto scorgere nel combinato disposto degli artt. 57 L. 218/1995 e 3 Convenzione di Roma la disciplina che sancisce anche per il trust la libertà di scelta della legge regolatrice; la tesi non pare condivisibile perché l’istituto de quo non sembra agilmente riconducibile alla categoria dei contratti trattandosi pur sempre di un negozio unilaterale.
     Tuttavia può trarsi dalle disposizioni menzionate una conferma di quanto sinora sostenuto a proposito dell’assoluta libertà di scelta sancita dalla Convenzione de L’Aja: può tranquillamente ritenersi principio acquisito dall’ordinamento internazionale ed interno (in virtù del richiamo effettuato dalle vigenti norme di diritto internazionale privato e della prevalente interpretazione data all’ormai abrogato art. 25 comma 1°, ultima parte, delle preleggi) quello che garantisce la libera volontà delle parti del negozio in ordine alla normativa da applicare allo stesso.
     Non solo: il comma 3° della citata disposizione fa esplicitamente salva la possibilità di designare liberamente una disciplina legislativa anche quando «tutti gli altri dati di fatto si riferiscano a un unico Paese» (in tal caso, si potrebbe parlare di un contratto “interno” o “domestico”), purché ciò non pregiudichi l’applicazione delle norme imperative (nel significato spiegato dal testo convenzionale) del “Paese di più stretto collegamento”.

     L’art. 13 della Convenzione sul trust recita: «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione».
     Sostiene la difesa dell’attrice (con il Tribunale di Belluno e alcuni autori) che la menzionata disposizione precluda in maniera assoluta il riconoscimento dei trust “interni”.
     L’interpretazione radicale fornita dalla Landini non è accoglibile: essa si porrebbe in contrasto con le considerazioni sinora svolte sulla libertà di scelta della legge regolatrice evidenziando un’insanabile contraddizione tra l’art. 6 e l’art. 13, perché la presenza di elementi di stretto collegamento con l’ordinamento non-trust dovrebbe condurre ineluttabilmente – secondo la tesi attorea – al mancato riconoscimento di un negozio la cui legge regolatrice, straniera, è stata correttamente determinata dal costituente in base alla Convenzione. Inoltre, e soprattutto, la spiegazione fornita contrasterebbe con il dato letterale del testo convenzionale, il quale è formulato in chiave “permissiva” (come “possibilità” di non riconoscere) e non come “obbligo di disconoscimento” dei trust “domestici” (il testo originale della disposizione recita: «Aucun Etat n’est tenu de reconnaitre …» e «No State shall be bound to recognize …»).
     Diverse interpretazioni sono state date all’art. 13.
     Secondo alcuni autori la disposizione è rivolta esclusivamente ai legislatori degli Stati aderenti e costituisce una clausola di salvaguardia, normalmente inserita nelle convenzioni internazionali, che consente a chi lo desideri di paralizzare, in sede di ratifica, alcuni effetti del testo che ci si appresta a rendere operativo nel proprio ordinamento. Difettando nella legge di ratifica italiana (L. 364/1989) una specifica disposizione che precluda, per volontà del legislatore, il riconoscimento dei trust “interni” ed essendo questi ultimi ricompresi nell’ambito di applicazione della Convenzione de L’Aja, la scelta della legge applicabile operata in tali casi dal settlor potrà essere disattesa esclusivamente per le ragioni espressamente previste dalla normativa uniforme (artt. 15, 16 e 18).
Secondo un’altra opinione — che questo Giudice ritiene preferibile e da condividere — la disposizione, come ogni norma i diritto internazionale privato, non può che riguardare lo stato come soggetto internazionale, il quale, legittimato dalla norma, potrà intervenire (o non farlo) o con un proprio strumento normativo o con le applicazioni concrete della disciplina da parte dei giudici e delle autorità amministrative.
     Rientra anche nei poteri del giudice, dunque, fare applicazione dell’art. 13: tuttavia, l’utilizzo di detta norma, lungi dall’essere obbligatorio o — al contrario — “capriccioso”, potrà avvenire soltanto in maniera conforme alla ratio del legislatore della ratifica e, quindi, anche in ossequio al principio di salvaguardia dell’autonomia privata, al solo fine di evitare il riconoscimento di trust “interni” che siano disciplinati da legge straniera con intenti abusivi e/o fraudolenti. In altri termini, non sarà sufficiente rilevare la presenza di un trust i cui elementi significativi siano più intensamente collegati con lo Stato italiano per disapplicare la legge scelta per la sua disciplina e per la sua costituzione evitando di riconoscerne gli effetti, ma sarà, invece, necessario desumere un intento in frode alla legge, volto, cioè a creare situazioni in contrasto con l’ordinamento in cui il negozio deve operare.
     Proprio questa, in definitiva, pare essere l’interpretazione più corretta da dare all’art. 13 della Convenzione: quella di “norma di chiusura” (sul punto, oltre al prevalente orientamento dottrinale, Tribunale di Bologna, decreto 16/6/2003§).
     Difatti, mentre il Capitolo IV della Convenzione de L’Aja introduce un meccanismo (parallelo a quello previsto dall’art. 3 comma 3° della Convenzione di Roma del 1980) di salvaguardia delle norme inderogabili, di applicazione necessaria o di ordine pubblico della lex fori (artt. 15, 16 e 18) e si muove nel campo degli effetti conseguenti al riconoscimento, l’art. 13 si pone sul diverso piano del riconoscimento stesso del trust (Capitolo II della Convenzione) quale fenomeno di applicazione di una legge straniera. In sostanza, mentre gli artt. 15, 16 e 18 non frappongono in linea di principio alcun ostacolo al riconoscimento del trust e si limitano ad escludere la produzione di certi specifici effetti contrastanti on particolari norme interne, l’art. 13 non può essere considerato come strumento volto a garantire l’applicazione della lex fori perché a ciò provvedono già le succitate disposizioni.
     La disposizione in esame, piuttosto, concerne il riconoscimento stesso dell’istituto e, quindi, il principale fenomeno disciplinato dalla Convenzione; ciò vale soprattutto per i c.d. trust “interni”, la cui esistenza e validità dipendono dalla scelta della legge straniera e dal suo riconoscimento.
     Poiché il trust “interno” non può essere ritenuto invalido ex se per la carenza di elementi di estraneità (si rinvia alle considerazioni sopra svolte a proposito della libertà di scelta della legge regolatrice ex art. 6), né per il contrasto con norme inderogabili o di applicazione necessaria o di ordine pubblico (a garanzia delle quali presiedono gli artt. 15, 16 e 18, che, però, incidono sugli effetti di un trust già riconosciuto), l’unica possibile e ragionevole soluzione ermeneutica (a meno di non voler dare all’art. 13 un’interpretatio abrogans degli artt. 6 e11) è quella, appunto, di considerare la disposizione come una “norma di chiusura della Convenzione”( paragonabile all’art. 1344 cod. civ.), che mira a cogliere le fattispecie che sfuggono alle norme di natura specifica: in altri termini, l’art. 13 costituisce l’estremo ed eccezionale rimedio apprestato per i casi in cui le modalità e gli scopi di un trust, i cui effetti sfuggono alle previsioni degli artt. 15, 16 e 18, siano comunque valutati dal giudice come ripugnanti ad un ordinamento che non conosca quella particolare figura di trust, ma nel quale tuttavia il negozio esplichi in concreto i suoi effetti.
     Il percorso logico da seguire è, dunque, il seguente: i trust “interni” sorgono in conseguenza della scelta, da parte del settlor, di una legge regolatrice idonea; la scelta è da ritenersi libera e legittima ex art. 6 della Convenzione; secondo la regola generale di cui all’art. 11, i trust istituiti in conformità alla legge determinata in base al Capitolo II (e, quindi, anche i trust “domestici”) devono essere riconosciuti come tali; in forza degli artt. 15, 16 e 18, qualora i trust riconosciuti producano effetti contrastanti con norme inderogabili o di applicazione necessaria della lex fori o con principi di ordine pubblico del foro, l’applicazione della legge straniera dovrà cedere il passo a quella della legge interna; infine, ex art. 13, qualora un trust “interno”, regolato dalla legge strania, produca effetti ripugnanti per l’ordinamento che non siano colpiti dagli artt. 15, 16 e 18, è possibile negare tout court il riconoscimento (il quale sarebbe, a tali condizioni, inesigibile).
     Dal momento che la questione sollevata dall’attrice non riguarda celati intenti frodatori del disponente (mai allegati né dimostrati), ma si limita a sostenere che il trust “interno” non può trovare riconoscimento nell’ordinamento italiano in forza dell’art. 13 della Convenzione, per le considerazioni sopra svolte l’eccezione di invalidità deve essere, anche sotto questo profilo, respinta.

     L’ulteriore argomentazione invocata dalla Landini per sostenere l’invalidità ed in operatività del trust in questione concerne il presunto contrasto dell’istituto con l’art. 2740 cod. civ., assunto come norma dell’ordinamento di applicazione necessaria o inderogabile per volontà negoziale o, addirittura, come principio di ordine pubblico economico (per il quale eventuali limitazioni di responsabilità ed effetti segregativi dell’unitarietà patrimoniale del debitore sono ammessi soltanto in via eccezionale e nei soli casi previsti dalla legge).
     La tesi dell’attrice è infondata; infatti:
     – l’effetto segregativo prodotto dal trust nel patrimonio del trustee trova una sua legittimazione in virtù di specifiche disposizioni previste nella Convenzione de L’Aja ed introdotte nell’ordinamento italiano con la legge di esecuzione.
     L’effetto segregativo, tipico ed essenziale nella struttura del trust, non è conseguenza della mera volontà delle parti, bensì discende da specifiche disposizioni normative: l’art. 11 della Convenzione de L’Aja (come il suo omologo della legge 364/1989) afferma inequivocabilmente che “Tale riconoscimento implica, quantomeno, che i beni in trust rimangano distinti dal patrimonio personale del trustee”.
     Secondo un’accreditata dottrina, l’art. 11 (come pure l’art. 12) si inserisce in una convenzione di diritto internazionale privato come norma di diritto materiale uniforme: la disposizione in esame, a differenza di tutte le altre del testo convenzionale (che sono norme uniformi di diritto internazionale privato), è regola di diritto sostanziale che non si limita a dettare le condizioni per il riconoscimento di un “straniero” (nel significato sopra illustrato), ma disciplina, direttamente ed immediatamente, gli effetti minimi che il riconoscimento deve produrre, in modo omogeneo, in ogni ordinamento degli Stati contraenti.
     Sulla scorta di questa osservazione non si può ritenere che le ipotesi, eccezionale ed eventuali, dettate dagli artt. 15, 16 e 18 per sostituire con la lex fori alcuni effetti “aberranti” del trust riconosciuto, possano estendersi sino a paralizzare l’effetto segregativi, espressamente sancito come “effetto necessario minimo” dall’art. 11.
     A ciò si aggiunge che, secondo la gran parte degli autori, la stessa legge di ratifica ha introdotto nell’ordinamento una deroga all’art. 2740 cod. civ. (il quale – giova ricordarlo – consente limitazioni di responsabilità “nei casi stabiliti dalla legge”).
     L’art. 11 della L. 364/1989, successivo e speciale rispetto alla disposizione codicistica, ben può costituire, dunque, l’eccezione (di fonte legislativa) al principio della responsabilità illimitata (sul punto, Trib. Verona 8/1/2003).
     Infine, merita rilievo l’interpretazione logico-teleologica del testo convenzionale: darebbe luogo ad un’assurda contraddizione pensare che lo Stato italiano (o qualsiasi altro Paese contraente) si sia obbligato, con la ratifica, a riconoscere l’effetto segregativi del trust (art. 1) e, nel contempo, abbia voluto paralizzarlo con norme di diritto interno (come l’art. 2740 cod. civ.) astrattamente inquadrabili nelle fattispecie ostative al riconoscimento degli effetti del trust nell’ordinamento interno (artt. 15, 16, 18); se questo fosse stato l’intento del legislatore, sarebbe stato più semplice per l’Italia non aderire per niente alla Convenzione de L’Aja.
     – la separazione dei beni in trust da quelli personali del trustee trova la sua fonte negli artt. 2 e 11 della Convenzione de L’Aja che hanno inserito nell’ordinamento una nuova forma di “proprietà”.
     Con altra argomentazione (più complessa rispetto alle precedenti), un’autorevole dottrina spiega che l’effetto sgregativo si verifica perché i beni conferiti in trust non entrano nel patrimonio del trustee se non per la realizzazione dello scopo indicato dal settlor e col fine specifico di restare separati dai suoi averi (pena la mancanza di causa del trasferimento).
     Pertanto, non può parlarsi di acquisizione al patrimonio del trustee di detti beni (nemmeno come beni futuri): si tratta, insomma, di una proprietà “qualificata” o “finalizzata”, introdotta dagli artt. 2 e 11 della Convenzione de L’Aja in aggiunta a quella conosciuta dal codice civile del 1942 (che, in realtà, già prevede fattispecie analoghe nell’art. 1707, nell’istituto del fondo patrimoniale inserito con la riforma del 1975, e, infine, nel nuovo art. 2447-bis).
     La non applicabilità dell’art. 2740 cod. civ., dunque, emerge direttamente dagli artt. 2 e 11 della Convenzione che identificano in modo esclusivo la fonte della segregazione nella “proprietà qualificata” del trustee e forniscono una nuova lettura del concetto di “patrimonio”.
     – nel nostro ordinamento sono sempre più numerose le disposizioni legislative derogatorie all’art. 2740 cod. civ., il quale, quindi, non può assurgere al rango di supremo (e come tale inderogabile) principio di ordine pubblico economico.
     Come già detto, l’effetto principale ed essenziale del trust è quello di segregare una posizione soggettiva e destinarla ad una specifica finalità, con l’effetto – tutt’altro che secondario – di renderla intangibile ai creditori del trustee.
     La possibilità di costituire patrimoni autonomi (o separati) non costituisce affatto un’assoluta novità per il nostro ordinamento: l’art. 1707 cod. civ. prevede un meccanismo di separazione per i beni mobili o i crediti acquistati in proprio dal mandatario per conto del mandante in forza di atto avente data certa anteriore al pignoramento; gli artt. 167 ss. cod. civ. vincolano alle esigenze della famiglia i beni costituiti in fondo patrimoniale, sui quali possono soddisfarsi solo i creditori indicati all’art. 170 cod. civ.; ex art. 1881 cod. civ. può divenire “patrimonio separato” (e non aggredibile) la rendita vitalizia costituita a titolo gratuito nei limiti del bisogno alimentare del beneficiario; l’art. 1923 cod. civ. sottrae le somme dovute dall’assicuratore (per assicurazione sulla vita) all’azione esecutiva dei creditori del contraente o del beneficiario, frantumando l’unicità del patrimonio; significativamente, l’art. 490 cod. civ. statuisce che “l’effetto del beneficio d’inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede”: l’art. 2117 cod. civ. (richiamato dal D.Lgs. 124/1993) consente la creazione di “patrimoni di destinazione” (così definiti da Cass. 2824/1975) come fondi speciali per la previdenza e l’assistenza.
     Ancor più pregnanti sono gli esempi di “segregazione” offerti dalla legislazione speciale più recente (sul punto, Trib. Bologna, decreto 18/4/2000): l’art. 3 della legge 23/3/1983 n. 77 sui fondi comuni di investimento immobiliare (ora abrogato dal D.Lgs. 58/1998) prevedeva: “ciascun fondo comune costituente patrimonio distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione e da quelli dei partecipanti, nonché da ogni altro fondo gestito dalla medesima società di gestione. Sul fondo non sono ammesse azioni dei creditori della società gerente”; la norma suddetta è stata ripresa ed ampliata dal testo unico in materia di intermediazione finanziaria (D.Lgs. 24/2/1998 n. 58) il quale, all’art. 22 (rubricato “Separazione patrimoniale”), stabilisce che «nella prestazione dei servizi di investimento e accessori gli strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti, a qualunque titolo detenuti dall’impresa di investimento, dalla società di gestione del risparmio o dagli intermediari finanziari iscritti … nonché gli strumenti finanziari dei singoli clienti a qualsiasi titolo detenuti dalla banca, costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario e da quello degli altri clienti. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori dell’intermediario o nell’interesse degli stessi, né quelle dei creditori dell’eventuale depositario o sub-depositario o nell’interesse degli stessi”; l’art. 4 del già menzionato D.Lgs. 21/4/1993 n. 124, riformato dalla legge 335/1995, stabilisce che “fondi pensione possono essere costituiti … attraverso la formazione con apposita deliberazione di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, nell’ambito del patrimonio della medesima società od ente, con gli effetti di cui all’articolo 2117 del codice civile»: la disposizione dell’art. 3 della legge 130/1990 prevede che «i crediti relativi a ciascuna operazione (di cartolarizzazione di crediti) costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società e da quello relativo alle altre operazioni. Su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi»; statuizioni analoghe a quella ora richiamata sono previste dalle leggi sulla cartolarizzazione dei crediti INPS (art. 13 L. 448/1998, come modificato dalla L. 402/1999) e sulla privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (art. 2 L. 410/2001); da ultimo, la recente riforma del diritto societario ha inserito nel codice civile l’art. 2447-bis sui “patrimoni destinati ad uno specifico affare” che, come sostiene un autore, consente alle società di realizzare un trust autodichiarato dato che l’art. 2447-quinquies cod. civ. esclude la possibilità per i creditori societari di far valere diritti su quel fondo così costituito.
     Concludendo questa rassegna normativa, il Giudice rileva che il fenomeno della separazione patrimoniale è ricorrente nella legislazione speciale e anche in quella “tradizionale” e tale circostanza sembra dunque smentire la portata di principio generale di ordine pubblico attribuita all’art. 2740 cod. civ., il quale pone come eccezionali le ipotesi di limitazione della responsabilità patrimoniale (un autore afferma che il rapporto è stato addirittura “capovolto”): proprio per l’univocità dei più recenti interventi del legislatore, la segregazione patrimoniale non può più essere considerata un “tabù” e, di contro, l’unitarietà della garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ. non può valere come un “dogma sacro ed intangibile” del nostro ordinamento.

     Per tutte le considerazioni sin qui svolte, il trust “interno” costituito da Gianfranco Trombetta (settlor) che vede la convenuta Sofir come trustee non può essere tacciato di invalidità: esso soddisfa i requisiti richiesti dalla Convenzione de L’Aja per il suo riconoscimento (con la conseguente realizzazione degli effetti propri del negozio secondo la legge scelta dal disponente oltre che della segregazione rispetto al patrimonio del trustee ex art. 11), non appare contrastante con norme imperative inderogabili o di applicazione necessaria o con principi di ordine pubblico e, anche in assenza di qualsivoglia allegazione dell’attrice, non può dirsi costituito in frode all’ordinamento interno.
(Omissis)
    

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