il diritto commerciale d’oggi
    II.10 – novembre 2003

STUDÎ E COMMENTI

 

ANTONINO LA MALFA

Cancellazione dell’impresa dal registro delle imprese e decorrenza del limite annuale per la dichiarazione di fallimento

 

     Una sentenza del Tribunale di Roma (sent. 1° settembre 2002; est. Baccarini) ha affrontato il tema, piuttosto ricorrente presso le Sezioni fallimentari, della decorrenza degli effetti delle iscrizioni degli atti societari nel registro delle imprese, dopo che l Corte Costituzionale con sentenza n. 319/2000 ha sancito l’estensione del termine di cui all’art. 10 L. Fall. ai casi di cancellazione delle società e di fuoriuscita dei soci dalla compagine sociale. Succede piuttosto spesso, infatti, che il creditore presenti l’istanza di fallimento in tempi prossimi alla scadenza dell’anno, vuoi perché i tempi per il tentativo di recupero in sede esecutiva non sono brevi, vuoi perché spesso pendono trattative per la definizione stragiudiziale della pendenza, vuoi infine perché ancora non si è diffusa nella prassi commerciale la consapevolezza dell’importanza della verifica dei tempi di cancellazione della società dal registro delle imprese. Ulteriori tempi morti si verificano durante la procedura per la dichiarazione del fallimento, sia per instaurare correttamente il contraddittorio, sia per i tempi non sempre brevissimi che nei vari Tribunali sono necessari per pervenire alla decisione.
     Così, nel caso esaminato dal Tribunale di Roma, la sentenza di fallimento è intervenuta in un momento in cui già era trascorso un anno dal momento del deposito presso il Registro delle imprese della domanda di cancellazione, ma ancora non era trascorso l’anno dal momento in cui la cancellazione era stata materialmente iscritta nel registro.
     Lo stesso problema può verificarsi per il socio illimitatamente responsabile, la cui fuoriuscita dalla compagine sociale sia materialmente iscritta nel registro dopo qualche tempo rispetto al momento dell’effettiva perdita della responsabilità illimitata.
     I due casi, come si vedrà, pur se analoghi, non trovano identica disciplina disciplina.
     Precedentemente alla sentenza n. 319, il termine annuale di cui all’art. 10 L. Fall. riguardava solamente gli imprenditori individuali e non invece le società e i soci illimitatamente responsabili. Si riteneva inoltre che tale termine decorresse dal momento in cui l’impresa è effettivamente cessata e cioè da quando è stata compiuta l’ultima operazione intrinsecamente corrispondente a quelle poste normalmente in essere nell'esercizio dell'impresa (Cass. civ., sez. I, 28 marzo 2001, n. 4455).
     La sentenza 319 ha esteso tale disciplina anche alle società e ai soci fallibili ed ha stabilito che il termine decorre, per le prime, dal momento della sua cancellazione dal registro delle imprese e, per i secondi, dal momento della loro perdita della responsabilità illimitata.
     La prima disposizione, dunque, privilegia apertamente il criterio formale dell’iscrizione nel registro delle imprese della cancellazione della società, palesando la funzione di tutela dell’affidamento dei terzi. La seconda invece aggancia la decorrenza al fatto sostanziale della perdita della responsabilità illimitata, senza alcun riferimento al dato formale dell’iscrizione nel registro.
     Non è chiara la ragione per cui la Corte ha voluto introdurre questo trattamento differenziato, ma lo sconcertante risultato è che, in relazione ad uno stesso effetto giuridico, vi sono oggi tre diversi momenti di decorrenza a seconda del soggetto la cui fallibilità è in discussione:
• se si tratta di un’impresa individuale il termine decorre dall’ultima operazione gestoria;
• se si tratta di una società il termine decorre dall’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese;
• infine, per i soci illimitatamente responsabili, il termine decorre dal momento della perdita della responsabilità illimitata.

     Sul piano normativo, il problema della decorrenza del termine deriva dalla mancanza di coordinamento tra queste nuove disposizioni e quelle contenute nel codice civile relativamente all’efficacia dell’iscrizione (o della non iscrizione) dei fatti relativi alle società nel registro delle imprese. Infatti, il rinvio operato dalla sentenza all’iscrizione fa sorgere il dubbio se debba ritenersi richiamata, o meno, anche la disciplina generale dell’efficacia dell’iscrizione, e, in caso di risposta negativa, di quale debba essere il regime della prova dei fatti rilevanti ai fini dell’accertamento del momento della decorrenza.
     Le norme interessate sono quelle degli artt. 2193, 2290 e 2300 cod. civ.
     L’art. 2193 cc stabilisce al primo comma la cosiddetta efficacia negativa, costituita dall’inopponibilità ai terzi dei fatti di cui è prescritta l’iscrizione nel caso in cui questa non sia compiuta (ad es. il socio receduto, che non ha iscritto nel registro il suo recesso, non potrà opporlo ai terzi). Egli può tuttavia provare che il terzo era a conoscenza del fatto non iscritto (ad es. il socio potrebbe in base a tale disposto dimostrare che il creditore istante era a conoscenza della sua fuoriuscita dalla società in epoca antecedente all’anno).
     Al 2° comma, l’art. 2193 cod. civ. prevede l’efficacia positiva dell’inopponibilità da parte dei terzi dell’ignoranza dei fatti iscritti (ad es., il creditore istante non può opporre al socio receduto ed iscritto la sua ignoranza del recesso dal momento in cui questo è stato iscritto). Analogamente l’art. 2300 3° comma cod. civ., che ne costituisce una specificazione, prescrive l’inopponibilità delle modificazioni dell’atto costitutivo della società soggetta a registrazione fino alla sua iscrizione, salvo la prova che il terzo ne fosse a conoscenza. L’art. 2290 cod. civ., infine, stabilisce che lo scioglimento del rapporto relativamente ad un socio deve essere posto a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, altrimenti è in opponibile «ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato».
     Si ritiene in dottrina che l’efficacia negativa dell’iscrizione, al contrario di quella positiva che determina una presunzione assoluta, dia luogo ad una presunzione iuris tantum, idonea quindi a rendere opponibile al terzo la mancata iscrizione di un fatto, ma che ammette la possibilità della prova contraria (Galgano, Trattato di diritto commerciale, vol II).
     Tuttavia, come fatto palese dal costante richiamo normativo alla conoscenza o all’ignoranza dei fatti da parte dei terzi, la presunzione in parola verte non sulla effettiva verificazione del fatto iscritto o non iscritto, ma sulla sua conoscibilità. In altri termini, l’efficacia dell’iscrizione concerne la conoscibilità dell’atto, non la circostanza a monte che lo stesso sia vero.
     È ammessa la prova contraria, consistente nella dimostrazione che il fatto, anche se non iscritto, era in realtà conosciuto dal terzo o la prova da parte del terzo di aver ignorato un fatto che doveva essere conosciuto (art. 2290 cod. civ.). Quindi, mentre l’efficacia presuntiva si fonda sulla conoscibilità astratta del fatto, la prova contraria ammessa dalla norma verte unicamente sull’effettiva conoscenza del fatto da parte del terzo. Le norme in questione non prevendono in alcun modo il caso che il fatto iscritto non sia in realtà accaduto (ad es. socio receduto solo in apparenza; società cancellata ma in realtà ancora operante).
     Si tratta di un meccanismo che, all’evidenza, è tarato sui rapporti individuali e ricerca il punto d’equilibrio tra il principio d’effettività che impronta il campo delle società e la tutela dell’affidamento e della buona fede dei terzi, ma che non è per nulla adatto ad essere esteso al settore concorsuale, in cui oltre ai rapporti individuali assumono rilievo alcune relazioni tra gruppi di soggetti astrattamente considerati (i creditori) e compaiono alcuni soggetti pubblici (il Pubblico Ministero e il Tribunale che d’ufficio richiede o dichiara il fallimento) rispetto ai quali è impossibile provare lo stato della conoscenza o dell’ignoranza di un fatto.

     Venendo quindi alla disamina delle possibili correlazioni tra la disciplina codicistica e le vicende prefallimentari, nessun problema sorge in relazione all’efficacia positiva, non essendo dubitabile l’inopponibilità alla società o ai soci dell’ignoranza da parte dei terzi del recesso o della cessazione, una volta che la cancellazione della società, ovvero il recesso o l’esclusione di un socio, siano iscritti.
     L’ipotesi che qui interessa è invece quella dell’efficacia negativa. I casi più frequenti sono appunto quelli del socio, fuoriuscito dalla compagine sociale prima della data risultante dal certificato camerale, o quello della società, che ha depositato la richiesta di cancellazione precedentemente alla data dell’effettiva registrazione.
     Le due ipotesi, del socio illimitatamente responsabile e della società, devono essere trattati separatamente, poiché la sentenza 319/2000, dotata d’immediata efficacia precettiva, ha essa stessa sancito un trattamento differenziato: nella prima ipotesi la decorrenza è agganciata al dato formale della cancellazione dal registro delle imprese, mentre nella seconda assume rilievo il fatto sostanziale della perdita della responsabilità illimitata.
     Gli interessi in gioco, in entrambi i casi, sono da una parte quello del socio alla certezza della propria situazione giuridica e dalla parte opposta quello dei creditori alla tutela dell’affidamento sulla responsabilità del patrimonio dei soci illimitatamente responsabili risultanti dalle iscrizioni nel registro delle imprese.
     Quanto alla società, il presupposto sostanziale della parificazione, tanto per l’imprenditore individuale, quanto per quello collettivo consiste, secondo la Corte Costituzionale, nelle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche che, dopo la cessazione dell’attività imprenditoriale, impongono di stabilire un termine inderogabile di fallibilità, decorso il quale il soggetto non è più assoggettabile alla procedura fallimentare. Alla base del fenomeno v’è la cessazione dell’attività sostanziale che tuttavia, secondo la precedente tesi della giurisprudenza, non si verificava per la società sin quando in capo alle stessa permaneva anche un solo rapporto di debito o credito.
     Senza contestare tale linea interpretativa, la Corte ha comunque imposto il termine annuale, riferito, quanto alla decorrenza, ad un dato estraneo rispetto a quello della cessazione dell’attività sociale (anche se di solito successivo ad essa), costituito appunto dalla cancellazione dal registro delle imprese.
     Tuttavia occorre tener conto che, prima della cancellazione dal registro delle imprese, non esiste un concreto accertamento che la società abbia effettivamente definito tutti i suoi rapporti e sia estinta, sicché ben può accadere che una società, che in realtà è ancora in vita, sia cancellata dal registro (ad esempio proprio allo scopo di precostituirsi il decorso dell’anno) ed invece una società completamente liquidata, che abbia anche presentato la richiesta di cancellazione dal registro, risulti ancora iscritta.
     Il dubbio è se la società, nel secondo caso, possa dedurre in sede prefallimentare che in realtà l’anno sarebbe compiuto rispetto alla data della richiesta di cancellazione o se, al contrario, i terzi creditori possano, a fronte della cancellazione della società già avvenuta da oltre un anno, dimostrare che in effetti la società era ancora operante anche successivamente alla cancellazione.
     La risposta più corretta è in entrambi i casi quella negativa, poichè la sentenza della Corte è dotata di diretta efficacia precettiva, mentre il termine ha carattere oggettivo e prescinde dalla buona fede o dalla maggiore o minore diligenza degli organi sociali o dai tempi tecnici necessari per l’iscrizione. Il deposito della domanda di cancellazione non è, né equivale, alla formale cancellazione sul registro. Questo secondo è il momento a partire dal quale i terzi possono prendere conoscenza della cancellazione ed è l’unico a partire dal quale, quindi, può decorre l’anno. Accorciare il tempo concesso ai creditori, oltre l’anno, non si giustifica sul piano normativo e sarebbe eccessivamente penalizzante per i terzi.
     Sul piano sostanziale e dell’equità, nello scontro che vede da una parte l’interesse sociale al più breve decorso del termine, con conseguente cristallizzazione della certezza delle situazioni giuridiche e della non fallibilità, e dall’altra l’interesse dei creditori sociali alla tutela concorsuale, si deve tener conto che in realtà già il termine annuale dalla cancellazione recentemente introdotto ha drasticamente ridotto le aspettative di tutela del ceto creditorio e che col nuovo termine incombe sui creditori il non lieve onere di verificare a cadenza ravvicinata che la propria società debitrice non sia cancellata. Il termine annuale è in realtà già molto breve di per sé, e l’ulteriore riduzione dipendente da circostanze che esulano del tutto da ogni controllo del creditore minerebbe fortemente, in fatto, la garanzia generica dei crediti e la tutela dell’affidamento, rimessa al fatto formale della cancellazione.
     Deve ritenersi quindi che la società non possa essere ammessa, per far retroagire la decorrenza, a provare la precedente cessazione, neanche con riferimento alla data di presentazione della domanda al Registro delle imprese.

     Quanto alla decorrenza relativamente al socio che ha perso la responsabilità illimitata, la sentenza della Corte sembra escludere ogni riferimento al regime del registro delle imprese.
     Due pronunce di merito (Trib. Cassino 9 giugno 1999 e Trib. Trani 14 luglio 1999, in Foro it., 2000, c. 1626), risalenti all’interregno in cui era già stata emessa la sentenza n. 66/1999 della Corte Costituzionale, ma ancora non era stata emanata la sentenza 319/2000, hanno ritenuto che la decorrenza è fissata al momento dell’iscrizione sul registro delle imprese della fuoriuscita del socio dalla compagine sociale.
     Sul fronte opposto il Tribunale di Velletri con una sentenza (inedita) emessa in data 6 agosto 2001, quando cioè era già intervenuta la sentenza n. 319/2000, ha riaffermato il principio che la decorrenza inizia non già dall’iscrizione sul registro delle imprese, ma dal momento in cui si verifica il fatto sostanziale della perdita della responsabilità illimitata; l’iscrizione quindi assume un valore meramente presuntivo che può essere superato dalla prova contraria.
     Anche a prescindere dalla specifica indicazione testuale della sentenza n. 319, che già da sola dovrebbe indurre a trascurare il dato formale dell’iscrizione ed a basare la decisione sull’accertamento dell’effettivo momento della fuoriuscita del socio, vi sono altri argomenti da cui desumere che per i soci, al contrario che per la società, la decorrenza dell’anno deve prescindere dall’iscrizione in quanto tale e deve essere direttamente riferita alla perdita della responsabilità illimitata (Di Amato, in Il fallimento, 2002, p. 1043).
     Infatti, il riferimento all’iscrizione, non derivante dall’indicazione della Corte Costituzionale, comporterebbe necessariamente l’applicabilità della specifica disciplina prevista dall’art. 2193 cod. civ. cui in precedenza si è fatto riferimento. Si tratterebbe in particolare dell’efficacia negativa dell’iscrizione e quindi il socio receduto o escluso, che non ha iscritto ancora il recesso, non potrebbe opporre ai creditori tale circostanza. Non potrebbe neanche provare che la mancata iscrizione della fuoriuscita non è dipesa dalla sua negligenza, ma ad esempio, da un ritardo dell’ufficio del registro o da un disguido. Applicando l’art. 2193 cod. civ., potrebbe tuttavia provare che i creditori erano a conoscenza del recesso o dell’esclusione.
     Balza tuttavia all’evidenza, quanto poco compatibile sia il regime dell’efficacia negativa con l’accertamento della fallibilità fondata sull’iniziativa d’ufficio o del PM, nei confronti dei quali non è neanche ipotizzabile una questione di conoscenza o di conoscibilità. Per non dire poi dei problemi che in tal caso potrebbero sorgere sul piano istruttorio, considerato che nell’ambito del giudizio sommario prefallimentare la prova testimoniale è pacificamente inammissibile.
     Le norme relative all’efficacia dell’iscrizione, in realtà, sono state introdotte con specifico riferimento ai rapporti individuali tra creditore e debitore, rispetto ai quali rilevano la buona e la mala fede e la conoscenza o meno di alcuni presupposti di fatto. Non s’adattano invece alle procedure concorsuali, nelle quali tali stati soggettivi già in radice non possono rilevare, attesa la presenza di soggetti impersonali o di entità astratte quale è la generalità dei creditori di un’impresa.
     Ciò è sufficiente, a mio avviso, per escludere che per l’estensione del fallimento si possa far diretto ed immediato riferimento all’iscrizione.
     In realtà l’iscrizione nel registro delle imprese certamente non è irrilevante, in quanto determina la conoscibilità del fatto e conseguentemente la presunzione di conoscenza del fatto, rimanendo tuttavia sempre aperta la strada dell’ammissibilità da parte del socio o del terzo di provare una diversa datazione.
     Pare quindi preferibile la tesi più favorevole al socio, che tra l’altro conduce alla sostanziale parificazione della sua posizione con quella dell’imprenditore individuale.
     A tal proposito è interessante rilevare che la Corte Costituzionale, nell’ordinanza del 7 novembre 2001, n. 361, ha fatto propria la tesi secondo cui anche per l'imprenditore individuale hanno rilievo le risultanze delle iscrizioni nel registro delle imprese, fatta salva prova contraria della prosecuzione dell'attività anche dopo l'iscrizione della cessazione. Anche tale pronuncia, a ben vedere, prescinde del tutto dall’efficacia propria dell’art. 2193 cc, ritenendo opponibile una circostanza diversa da quella considerata dalla norma, e cioè il fatto sostanziale della prosecuzione dell’attività imprenditoriale.

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