il diritto commerciale d’oggi
    II.10 – novembre 2003

STUDÎ E COMMENTI

 

GIOVANNI CABRAS

Il fenomeno “impresa”: down and out?

 

 

    Anche prescindendo dalle concezioni istituzionalistiche dell’impresa in sé (Unternehmen an sich) quale portatrice di propri interessi, appartiene al comune sentire degli operatori economici, prima ancora che dell’ordinamento giuridico, il riconoscimento dell’autonomia dell’impresa, rispetto a colui o coloro che l’hanno posta in essere, con una tendenza dell’impresa a perpetuarsi nel tempo. In effetti, le imprese, nella loro oggettività presentano la singolarità di essere tendenzialmente immortali; per esse si è parlato di “elisir di lunga vita” (1) ed effettivamente ne esistono pluricententenarie (2).
     La tendenza delle imprese alla perpetuazione deve confrontarsi con gli inevitabili rapporti con il titolare o i titolari dell’impresa (3) e soprattutto è posta a repentaglio da un fattore connaturato con la natura stessa di impresa: il rischio, insito nelle attività rivolte a conseguire profitti, il cui rovescio della medaglia è la possibilità di subire perdite.
     La crisi nell’impresa è perciò un dato naturale, nel senso che se i fattori produttivi non trovano adeguata remunerazione nel mercato, si producono perdite, anziché profitti, con la soccombenza dell’impresa nel mercato concorrenziale (4). Secondo gli studi economici, la vita media delle società non supera 18 anni.

     Stando così le cose per le imprese (possibilità di lunghissima vita, ma con il rischio continuo di estinzione), è utile esaminare come il il diritto affronti la questione, che sta alla base del mercato concorrenziale, poiché la competizione implica la possibilità di ingresso e di uscita dal mercato, nonché implica l’evenienza di sconfitti, incapaci a continuare la tenzone.
     Il problema, come accade normalmente nel mondo dell’economia attuale, va visto nella prospettiva del mercato globale e pure della concorrenza tra ordinamenti giuridici (5).
     Si deve osservare preliminarmente che l’inadempimento del debitore alle proprie obbligazioni non è, ovviamente, un fenomeno suscettibile di presentarsi solo per le imprese ed è perciò considerato dal codice civile nella disciplina generale delle obbligazioni (artt. 1218 ss., inadempimento delle obbligazioni; art. 2740, responsabilità patrimoniale). Pertanto, anche il comune debitore (ossia un privato, che non eserciti attività di impresa) può trovarsi in una situazione di forte indebitamento, tale da non consentirgli di soddisfare completamente i creditori con il suo patrimonio. Taluni ordinamenti accomunano la disciplina dell’eccessivo indebitamento di privati (c.d. insolvenza civile) alla disciplina della crisi di imprese (insolvenza commerciale): così negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania le procedure concorsuali si applicano indifferentemente al debitore civile ed all’imprenditore commerciale; altri ordinamenti prevedono per l’uno procedure esecutive collettive analoghe a quelle dell’altro (ad esempio, in Francia).
     In Italia, invece, l’insolvenza è considerata solo per le imprese commerciali, secondo l’impostazione tradizionale: la ragione sta nel fatto che può essere opportuno disciplinare pure l’insolvenza civile (ci sono, infatti, proposte per introdurre procedure concorsuali anche per i privati), ma non può non essere disciplinata quella commerciale, in quanto la crisi di una impresa imprese interessa solitamente un grande numero di soggetti e presenta passività di grande entità, quali difficilmente si riscontrano nell’indebitamento di semplici privati.

     Più in generale, l’attività di impresa coinvolge una pluralità di interessi:
– di vari soggetti: chi esercita l’attività economica; i suoi fornitori; i dipendenti e, in genere, i collaboratori; gli acquirenti, anche potenziali; gli imprenditori concorrenti; e così via (tutti questi soggetti sono definiti nella terminologia anglosassone “stakeholder”).
– di vario genere: la concorrenza tra imprese; la tutela dei consumatori; la tutela dei creditori; la economia nazionale; ecc.
    È perciò giustificato occuparsi esclusivamente della crisi di imprese, perché solo in tal caso si pongono problemi di grande rilievo, come emerge spesso anche sui mezzi di comunicazione di massa. Non mi riferisco tanto alle notizie sui vari crac che hanno toccato imprese nazionali e straniere (6), poiché oggetto della nostra attenzione non è la crisi dell’una o dell’altra impresa, ma la regolamentazione prevista dal diritto per la crisi delle imprese. Mi riferisco piuttosto a notizie più specifiche.
     Di recente sul “Wall Street Journal” (7) è apparso in prima pagina un articolo, che, sotto il titolo “Paris Looks to U.S. – on Bankruptcy”, annunciava che la Francia, spinta dal caso Alstrom (8), intende ispirarsi al diritto fallimentare degli Stati Uniti – e, in particolare, al c.d. "Chapter 11" – per riformare la propria legislazione, in modo da offrire alle proprie imprese possibilità migliori di sopravvivenza (“Firms’ Chances of Survival”). Per meglio chiarire la situazione, il giornale pubblica la seguente tabella:

Down and out
Procedure concorsuali in Germania, Francia ed U.S.A. nel 2002
Stati

Totale procedure

Percentuale
liquidazioni

Germania
37.579
99%
Francia
43.800
90%
U.S.A.
1.577.651
70%
Fonte: Ministero Giustizia francese, Ufficio Federale di statistica tedesco, Creditreform, New Generation Research Inc.

     È una tabella che potrebbe apparire priva di significato rispetto all’esperienza italiana, poiché nella nostra legislazione vi sono procedure concorsuali liquidative (fallimento, concordato preventivo) ed altre non liquidative (amministrazione controllata)i: non c’è perciò da meravigliarsi – si potrebbero osservare – se le procedure concorsuali si chiudano, in percentuale maggiore o minore, con la liquidazione dell’impresa.
     In realtà, quella tabella rivela un aspetto molto importante nella disciplina giuridica delle imprese (non tanto nel diritto scritto, ma in quello “vivente”, effettivamente applicato): negli U.S.A. le imprese hanno almeno una seconda chance di operare, nel caso in cui subiscano un tracollo (il 30% riprendono la loro attività); nell’Europa continentale (Germania, Francia), raramente le imprese hanno possibilità di ripresa: in Italia quasi mai.
    Per questo, possiamo indicare la regola operante per le imprese italiane: “down and out”; ossia, la loro crisi ne determina l’estinzione. Più precisamente, nel nostro Paese alle imprese non sembra che il diritto vigente consenta, a differenza di quanto avviene negli USA, di “giocare un’altra partita” sul tavolo del mercato; forse è tuttora valido il giudizio espresso nel Settecento da Voltaire («la justice qui s’empare des biens des banqueroutiers pour en fruster les créancier») (9).
     Allora dobbiamo domandarci se è tale diritto della crisi d’impresa sia rispettoso dei principi fondamentali della Costituzione e soprattutto del Trattato CE e, comunque, se esso sia rispondente alle esigenze delle imprese ed alla loro competitività nel mercato, sempre più globalizzato. Dichiaro subito che la mia risposta è negativa ad entrambi i quesiti, come cercherò di dimostrare nel corso delle lezioni, dedicate appunto alla disciplina della crisi di impresa.

     * Lo scritto riproduce la lezione introduttiva tenuta il 1° ottobre 2003 nel corso di diritto commerciale all’Università di Roma Tre

 

Note

     (1) R. FRANCESCHELLI, L’apprendista stregone, l’elisir di lunga vita e l’impresa immortale, in Giur. comm., 1982, I, p. 575 ss., il quale, invero, criticava la tendenza a mantenere in vita le imprese.

     (2) Un apposito club, Les Hénokiens (da Enoch, patriarca biblico, padre di Matusalemme), costituito a Parigi nel 1981, riunisce le imprese governate dalla stessa famiglia con oltre 200 anni di vita: esse sono attualmente 32, la più antica è la società giapponese Hoschi (una istituzione con oltre 1.300 anni nel settore alberghiero); tra le 12 imprese italiane, può segnalarsi Beretta del 1526 (è conservata tuttora una ricevuta per la consegna di 185 archibugi a Venezia in tale anno), la Fabbrica di liquirizia Amarelli del 1731 (Pina Amarelli Mengano è ora la presidente del club) e la Nardini (quella della grappa) del 1779.

     (3) Come è noto, tali rapporti si atteggiano in modo diverso, a seconda della forma giuridica con cui viene esercitata l’attività imprenditrice: infatti, nelle società di capitali l’impresa sembra non risentire affatto delle vicende personali dei soci e neppure dei mutamenti nella loro composizione.

     (4) Tuttavia, in caso di monopolio o oligopolio, è possibile che l’impresa scarichi sui consumatori le proprie inefficienze.

     (5) Ciò dà luogo al c.d. forum shopping, ossia alla ricerca della normativa più favorevole: vedi il caso Centros, deciso dalla Corte Giustizia CE, 9 marzo 1999, C-212/97.

     (6) Vedi, da ultimo, rispettivamente il caso Cirio ed i casi Enron e WorldCom (per limitarci ai casi più eclatanti negli USA).

     (7) “Wall Street Journal” (edizione europea) del 25 settembre 2003; tale articolo è stato ripreso poi, ma senza citarne la fonte, da “Il Sole-24 Ore” del 26 settembre 2003.

     (8) Si tratta di un gruppo imprenditoriale leader mondiale nella elettromeccanica, nelle ferrovie e nella cantieristica navale; realizza centrali nucleari ed il Tgv, sta costruendo il più grande transatlantico del mondo. Dalle notizie di stampa si apprende che il salvataggio di tale Gruppo, con forti apporti dello Stato francese, costerà 3,2 miliardi di euro.

     (9) B. LIBONATI, La crisi dell’impresa, in AA.VV., in L’impresa, Giuffrè, 1985, p. 203 ss.

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