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dicembre 2002

Studî e commenti

GIOVANNI CABRAS

L’arbitrato nel progetto di riforma del diritto societario *

 

1. I problemi dell’arbitrato societario e la legge delega per la riforma societaria

     Un settore in cui il deferimento ad arbitri delle controversie è assai diffuso ed in cui, però, si incontrano tanti ostacoli al concreto svolgimento del procedimento arbitrale è quello delle società. Questa apparente contraddizione è legata al fatto che nelle società il deferimento ad arbitri delle controversie tra i soci, nonché tra questi e la società, non deriva normalmente da un compromesso, stipulato singolarmente dalle parti litiganti al momento dell’insorgere della controversia ai sensi dell’art. 806 cod. proc. civ., bensì deriva da una generale previsione – nel corpo dello statuto sociale – di un’apposita clausola compromissoria, inserita al momento della stipulazione dell’atto costitutivo o aggiunta successivamente con una modifica statutaria. Quando insorge, in concreto, una controversia, emergono poi le difficoltà di applicare tale clausola alla questione controversa ed alle parti che vi sono coinvolte, a causa della specificità delle questioni societarie.
     Più precisamente, l’arbitrato in materia societaria solleva vari ordini di problemi, riguardanti, in particolare i seguenti aspetti:
     1) efficacia della clausola, nonché vincolatività della stessa clausola per i nuovi soci e per gli amministratori;
     2) deferibilità della decisione arbitrale ad un organo sociale ovvero ad arbitri da esso designati;
     3) determinazione delle controversie societarie compromettibili per arbitri;
     4) estensione dell’arbitrato alla soluzione di dispute circa la gestione della società.
     A tali problemi, connessi con l’organizzazione ed il funzionamento delle società, se ne aggiunge un altro, che, pur non essendo tipico dell’arbitrato societario, in esso si presenta frequentemente e che riguarda:
     5) la cosiddetta clausola arbitrale binaria.
     In realtà, molte di queste difficoltà risentono di un perdurante sfavore – specie in giurisprudenza e nonostante le contrarie indicazioni contenute nella riforma dell’arbitrato (legge 5 gennaio 1994, n. 25) – per la giustizia arbitrale. Ciò ha indotto il legislatore ad intervenire ora in modo specifico nella materia, nell’ambito della riforma del diritto societario.
     Infatti, l’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366, ha delegato il Governo a prevedere, tra l’altro, «la possibilità che gli statuti delle società commerciali contengano clausole compromissorie, anche in deroga agli articoli 806 e 808 del codice di procedura civile, per tutte o alcune tra le controversie societarie», precisando che, qualora la controversia concerna questioni non transigibili, «la clausola compromissoria dovrà riferirsi ad un arbitrato secondo diritto, restando escluso il giudizio di equità, ed il lodo sarà impugnabile anche per violazione di legge».
     Avvalendosi di tale delega, il Governo ha approvato nella seduta del Consiglio dei Ministri del 30 settembre 2002 uno schema di decreto legislativo recante la “definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia”. Il testo di tale decreto, sul quale il Parlamento è chiamato ad esprimere un parere e che sarà promulgato entro il prossimo dicembre, contiene, nel titolo V “dell’arbitrato”, 4 articoli (artt. 34-37) con disposizioni profondamente innovative per l’arbitrato in materia societaria. È discutibile, tuttavia, che la novella risolva tutte quelle difficoltà; mentre è prevedibile che possano sorgere altri problemi.

 

2. La disciplina proposta dal decreto delegato

     Vediamo di compiere innanzitutto una ricognizione di tali norme, per poi procedere al loro esame, in modo da verificarne l’impatto sulla situazione attuale, nonché per ricercare un coordinamento con la disciplina generale dell’arbitrato. Non mi occuperò, invece, dei dubbi circa l’eccesso di delega, dubbi sollevati da alcuni commentatori e che, seppure fossero in qualche misura fondati, servono soprattutto ad alimentare quel disfavore che – come ho ricordato dianzi – circonda tuttora l’istituto arbitrale, soprattutto nel dibattito giurisprudenziale.
     Semmai, ed è questo il vero appunto che ritengo di muovere al legislatore delegato, il Governo si è avvalso forse troppo timidamente e parzialmente della delega attribuitagli, perdendo così l’occasione di incentivare efficacemente e diffusamente il ricorso alla giustizia arbitrale in materia di società.
     Dei quattro articoli compresi nel titolo V “dell’arbitrato”, secondo lo schema approvato dal Consiglio dei Ministri, tre articoli sono dedicati all’arbitrato in senso proprio. L’art. 34 si occupa dell’oggetto e degli effetti delle clausole compromissorie, disponendo circa le questioni compromettibili, i criteri di nomina degli arbitri e l’efficacia delle clausole compromissorie. L’art. 35 regolamenta il procedimento arbitrale in materia societaria, disciplinando la pubblicità della domanda arbitrale, l’intervento dei terzi, le questioni incidentali ed i provvedimenti cautelari. L’art. 36 prevede i casi in cui la controversia arbitrale deve essere decisa secondo diritto e con un lodo impugnabile.
     L’art. 37, invece, si occupa delle decisioni circa i contrasti sulla gestione di una società, ossia disciplina una figura giuridica che la Relazione di accompagnamento allo schema di decreto delegato definisce come arbitrato c.d. “economico” e che invero arbitrato, in senso proprio, non è, pur avendo attinenza con esso.
     Non si può tacere, infine, che le nuove disposizioni sull’arbitrato in materia societaria fanno da pendent, oltre che ad una riforma del giudizio ordinario in materia societaria (nonché in materia bancaria e di intermediazione finanziaria), ad alcune norme volte a regolamentare la conciliazione giudiziale e stragiudiziale. La novella rappresenta allora un importante momento per il riconoscimento – con pari dignità, rispetto alla giustizia statale – delle forme giurisdizionali c.d. alternative, quali arbitrato e conciliazione, al fine evidente di favorirne la diffusione. Ciò risponde sicuramente all’esigenza di ovviare alle disfunzioni della giurisdizione ordinaria, ma in tal modo si risponde anche alla esigenza sempre più diffusa nelle imprese e, più in generale, nei rapporti economici di avere una giustizia più prossima, meno autoritaria, e più efficace, in quanto maggiormente soddisfacente per i vari interessi coinvolti nelle controversie.
     Con tale notazione anticipo quella che sarà la chiave di lettura della nuove norme, superando gli aspetti restrittivi – a mio parere, solo apparentemente restrittivi – della progettata riforma.

 

3. Clausola statutaria di società non quotate

     La novella introduce una disciplina per le clausole compromissorie contenute negli statuti di società. Non essendo fornita alcuna indicazione circa il tipo di società, le nuove disposizioni valgono chiaramente per qualunque tipo di società (di persone, di capitali e cooperative), restando escluse – per espressa previsione normativa – le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Sorge il dubbio se tale esclusione sia da intendere o no come un divieto di carattere generale, in quanto tale operante anche al di fuori della speciale disciplina dell’arbitrato disciplinato dallo schema di decreto legislativo e che per comodità indicheremo come “arbitrato societario”.
     Inoltre, dalla nuova disciplina restano esclusi – siccome non previsti dalla legge delega – gli arbitrati che scaturiscono da un compromesso, nonché quelli derivanti da una clausola compromissoria contenuta in un contratto diverso da quello di società, quale i patti parasociali o i contratti di trasferimento delle partecipazioni sociali. Invero, nel decreto delegato si parla di compromesso, laddove si dispone che non possono essere oggetto di compromesso (nonché di clausola compromissoria) le controversie in cui sia previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero; si tratta, però, di una precisazione pleonastica, come vedremo tra poco, e perciò non utilizzabile per trarre indicazioni circa l’estensione della novella agli accordi stipulati per deferire ad arbitri liti già insorte.
     Finora, non solo nella normativa, ma anche nel pur ampio dibattito dottrinario e giurisprudenziale sull’arbitrato in materia societaria, non erano emerse differenziazioni, a seconda che la società abbia o no un capitale diffuso nel pubblico e neppure a seconda che l’arbitrato derivi da una clausola compromissoria o da un compromesso stipulato a lite già insorta.
     La novella sembrerebbe allora presentare una duplice restrizione, rispetto all’arbitrato di diritto comune, essendo escluse le società che ricorrono al mercato del capitale di rischio ed essendo considerate solo le clausole compromissorie statutarie. In realtà, il decreto delegato pone sì alcune limitazioni, ma più che altro al fine di delimitare il proprio ambito di applicazione e soprattutto al fine di superare le preclusioni che finora potevano sollevarsi per l’operatività dell’arbitrato in materia societaria.
     Per comprendere la portata della innovazione, dobbiamo allora muovere dalle interpretazioni e dalle discussioni, cui ha dato luogo la disciplina vigente dell’arbitrato nell’applicazione alle clausole compromissorie statutarie, secondo quella serie di problemi prima ricordati, raggruppati in cinque punti.

 

4. Efficacia della clausola per soci, amministratori e sindaci

    Circa il primo dei problemi sopra indicati (efficacia e vincolatività della clausola compromissoria), si deve ricordare che per la clausola compromissoria l’art. 808 cod. proc. civ. richiede la stessa forma del compromesso e, quindi, la forma scritta; e che le clausole compromissorie contenute in condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti richiedono, ai sensi dell’art. 1341 cod. civ., la specifica approvazione per iscritto. In riferimento a tali regole, la previsione della clausola compromissoria al momento della costituzione della società non ha mai sollevato particolari problemi, in quanto l’atto costitutivo è stipulato da tutti i soci e, normalmente, in forma scritta (nelle società commerciali di persone l’atto scritto è richiesto ai fini dell’iscrizione nel registro delle imprese: art. 2296 cod. civ.; nelle società di capitali e nelle cooperative è richiesto l’atto pubblico – artt. 2328 e 2518 cod. civ.).
     Invece, per l’introduzione della clausola statutaria durante societate, nonché per l’adesione dei nuovi soci è discussa l’efficacia della clausola.
     Nelle società di persone, qualora il contratto preveda la modificabilità a maggioranza dei soci, nonché nelle società di capitali e nelle cooperative (ove il principio di maggioranza per le modifiche statutarie è stabilito dalla legge: artt. 2368, 2369 e 2486 cod. civ.) il cambiamento dello statuto, con l’introduzione di una nuova clausola, non richiede un’apposita manifestazione di volontà di ciascun socio, essendo sufficiente l’approvazione della maggioranza, con l’osservanza – nelle società di capitali – delle formalità per l’adozione delle deliberazioni assembleari. Invero, il procedimento formativo delle modificazioni statutarie (e, quindi, anche per l’inserimento della clausola compromissoria) non influisce sulla questione della forma scritta per tale clausola, poiché le decisioni dei soci, ancorché adottate a maggioranza, trovano necessariamente riscontro in un atto scritto, che modifica l’originario atto costitutivo e che viene iscritto nel registro delle imprese; tuttavia, il dubbio circa l’efficacia della nuova clausola statutaria non riguarda l’esistenza della forma scritta, ma l’approvazione per iscritto da parte di tutti i soci, quando non sia richiesta o, comunque, non intervenga l’approvazione unanime.
    A maggior ragione è dubbia la vincolatività della clausola statutaria compromissoria per i nuovi soci, discutendosi se sia necessaria la specifica approvazione per iscritto, come richiesto dall’art. 1341, 2° comma, cod. civ.; ovvero sia sufficiente l’adesione alla società, secondo le regole di ciascun tipo sociale. La questione è stata compiutamente affrontata in giurisprudenza da un’importante sentenza (Cass. 11 ottobre 1960, n. 2640), secondo cui l’art. 1341 non è applicabile all’ipotesi di adesione ad una società già costituita, in quanto nel contratto di società mancano, sia la contrapposizione di interessi caratteristica dei contratti di scambio, sia la posizione di preminenza di un contraente rispetto all’altro, situazioni che costituiscono il presupposto per l’applicabilità dell’art. 1341. Tuttavia, tale orientamento è stato criticato in dottrina, nella considerazione che il carattere associativo del contratto, nel quale è inclusa la clausola compromissoria, non potrebbe influenzare la questione dell’applicabilità dell’art. 1341, in quanto quella clausola costituisce un negozio giuridico del tutto autonomo (rispetto al contratto cui aderisce) e la approvazione specifica per iscritto serve ad assicurare la effettiva conoscenza della deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria.
     Ugualmente è discusso se la clausola compromissoria possa applicarsi agli amministratori e sindaci, i quali non sono parte del contratto di società.
     Quelle discussioni, sono ora superate dalla novella, che con l’art. 34 pone tre regole:
• con il 3° comma, stabilisce la vincolatività della clausola per la società e per tutti i soci, anche quando la controversia riguardi l’accertamento della qualità di socio, salvo per chi contesti di essere socio;
• con il 4° comma, stabilisce la vincolatività della clausola per amministratori e sindaci, quando la clausola riguardi controversie promosse da essi o contro di essi;
• con il 5° comma, stabilisce una maggioranza qualificata (e, precisamente, i 2/3 del capitale sociale) per l’introduzione o la soppressione della clausola compromissoria negli statuti delle società.
     Circa la prima delle tre disposizioni, tuttavia, non si comprende bene che cosa comporti – nei riguardi della società e degli altri soci – la inoperatività della clausola per coloro che contestino la propria qualità di socio; non è chiaro, peraltro, se la contestazione debba riguardare la qualità attuale di socio o possa riguardare tale qualità anche per il passato. Il problema probabilmente interessa solo le società personali (o, al massimo, il socio unico di società di capitali), in cui la qualità di socio può comportare oneri, per i quali abbia senso che qualcuno contesti per sé tale qualità da altri affermata; evenienza, questa, che può presentarsi soprattutto in caso di fallimento della società, quando siffatto accertamento è riservato, però, alla competenza esclusiva del tribunale fallimentare.
     Circa la seconda disposizione, a parte la dimenticanza del legislatore per i nuovi organi amministrativi previsti dalla riforma societaria (consiglio di sorveglianza e consiglio di gestione nel sistema dualistico di amministrazione), sorge il dubbio per l’applicabilità della clausola agli amministratori di fatto. Ritengo che la risposta debba essere negativa, siccome la novella prescinde dalla specifica approvazione per iscritto, considerandosi compresa l’approvazione nella adesione alla società (in sede di costituzione o di aumento del capitale ovvero di subentro nelle azioni o quote di altro socio) nonché, per gli amministratori ed i sindaci, nell’accettazione dell’incarico. In definitiva, l’approvazione della clausola è valutata come compresa iure et de iure in una diversa ed espressa accettazione, che perciò è indispensabile.
     L’ultima delle disposizioni qui considerate solleva qualche dubbio circa la sua applicabilitàalle società di persone, in cui non sia prevista la modificazione a maggioranza. A mio parere, tuttavia, la soluzione deve essere negativa, nel senso che si è voluto rafforzare le maggioranze solitamente necessarie per le modificazioni statutarie, non già consentire l’introduzione della clausola a maggioranza (sia pure qualificata) quando la legge o lo statuto richiedano la unanimità per tali modificazioni.
     Difficoltà si presentano per l’efficacia delle clausole compromissorie statutarie, in caso di fallimento della società, nei confronti della procedura fallimentare. Tuttavia, si tratta di una questione che non riguarda solo le clausole statutarie, ma qualsiasi clausola compromissoria; la soluzione preferibile, ancorché non prevalente, sembra quella di riconoscere l’efficacia di tali clausole, salvo che la controversia appartenga alla competenza esclusiva del foro fallimentare.

 

5. Terzietà degli arbitri nelle clausole compromissorie societarie

     Circa il secondo punto della serie di problemi dianzi indicati, merita considerare che negli arbitrati in materia societaria sovente la clausola compromissoria deferisce la decisione ad un organo sociale, quale il collegio sindacale, ovvero, specie nelle cooperative, ad un apposito organo, il “collegio dei probiviri”, nominato dall’assemblea. Nelle società cooperative talvolta è lo stesso legislatore ad imporre la costituzione del collegio dei probiviri, con lo scopo di risolvere le controversie nell’ambito societario (vedi, ad esempio, l’art. 31 del D.L. 7 maggio 1948, n. 1235, riguardante i consorzi agrari; gli artt. 94 e 131 del R.D. 28 aprile 1938, n. 1165, riguardante le cooperative edilizie a contributo statale; l’art. 17 della legge 25 maggio 1970, n. 364, riguardante le cooperative tra agricoltori destinatarie di provvidenze per calamità naturali; nonché l’art. 1 della legge 17 febbraio 1992, n. 207 e l’art. 30, 5° comma, del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, riguardanti le banche popolari).
     L’attribuzione statutaria di funzioni arbitrali al collegio sindacale o al collegio dei probiviri ha sollevato il problema della loro imparzialità, considerata un principio di ordine pubblico per il procedimento arbitrale. Per quanto riguarda la designazione del collegio sindacale a svolgere le funzioni arbitrali, la giurisprudenza è ora totalmente orientata a negare l’ammissibilità di tale clausola statutaria, nella considerazione che i sindaci assumono un ruolo non secondario nell’amministrazione della società e nel processo di formazione della volontà sociale e difettano perciò di imparzialità nei confronti dei soci, essendo anche legati alla società da un rapporto di prestazione d’opera ed avendo il dovere di perseguire l’interesse della stessa società. Più sfumata è la soluzione seguita per il collegio dei probiviri, che, anche per espressa disposizione di talune norme dianzi ricordate, è l’organo deputato a risolvere le controversie nell’ambito societario e, in particolare, nelle società cooperative. Al riguardo la giurisprudenza prevalente, pur non escludendo in generale l’ammissibilità delle clausole statutarie di deferimento delle controversie sociali al collegio dei probiviri, ne subordina la validità a condizioni tali da renderne difficile l’operatività; in particolare, per le controversie tra società e soci si ritiene non imparziale il collegio dei probiviri nominato dall’assemblea della stessa società, in quanto in tal modo gli arbitri costituiscono espressione di una sola delle parti contendenti. Ciò ha indotto autorevole dottrina ad escludere la natura arbitrale del collegio dei probiviri, riconoscendo a tale organo funzioni conciliative o, comunque, semplicemente procedimentali per l’efficacia delle deliberazioni assembleari riguardanti i soci.
     La novella ha inteso sgombrare il campo anche da tali problemi, con una soluzione, a mio avviso, forse troppo drastica. Infatti, l’art. 34, 2° comma, stabilisce che la clausola compromissoria deve indicare, a pena di nullità, il numero degli arbitri e le modalità di loro nomina; in particolare, prescrive che il potere di nomina possa essere conferito solo «a soggetto estraneo alla società» e che, in difetto della nomina da parte del soggetto designato, la nomina è richiesta al presidente del tribunale, nella cui circoscrizione è posta la sede della società. Non c’è perciò molta autonomia circa le modalità di nomina, siccome può esservi una sola modalità, ossia la attribuzione del potere di nomina a soggetto estraneo alla società. Così non solo viene preclusa la possibilità del collegio arbitrale endosocietario, ma viene precluso alle parti anche di rimettere a se medesime, come avviene normalmente nell’arbitrato cosiddetto “ad hoc”, la nomina degli arbitri.
     In definitiva, il decreto delegato sembra incentivare l’arbitrato amministrato, il solo che sia effettivamente idoneo ad assicurare la nomina, al momento opportuno, degli arbitri, essendo difficile che tale compito possa essere affidato ad una persona fisica. Peraltro, con riferimento alle società cooperative, la novella non sembra tener conto dello “spirito di categoria”, presente in tali società e che giustifica la costituzione di un organo interno per la soluzione di ogni controversie, come è riconosciuto dalle disposizioni legislative che fanno riferimento al collegio dei probiviri (vedi, da ultimo, l’art. 30 del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385).
     La soluzione seguita dal decreto delegato, imponendo di demandare ad un terzo la designazione degli arbitri, ha il pregio di superare anche il quinto della serie di problemi sopra indicati. Finora, a causa della plurateralità generalmente presente nelle controversie societarie, le clausole compromissorie con la previsione di un collegio arbitrale composto di tre arbitri (dei quali due nominati da ciascuna parte ed il terzo nominato dai due arbitri: cosiddetta clausola binaria) erano in pratica inapplicabili, non consentendo tali clausole a tutte le parti di nominare un proprio arbitro.

6. Questioni compromettibili

     L’art. 808 cod. proc. civ. prevede il deferimento ad arbitri delle controversie derivanti da un determinato contratto, «purché si tratti di controversie che possono formare oggetto di compromesso», quindi, con eccezione – oltre alle questioni in materia di lavoro, di stato e di separazione tra i coniugi – delle questioni «che non possono formare oggetto di transazione». Questa regola, pur non incontrando alcuna esplicita modificazione o eccezione normativa per le società, generalmente non è seguita per definire l’ambito della compromettibilità in tale materia.
     Infatti, il criterio di selezione fra le questioni societarie compromettibili e quelle riservate inderogabilmente all’autorità giudiziaria ordinaria, viene solitamente individuato dalla giurisprudenza nella natura dell’interesse coinvolto nella controversia. In generale, si ritiene che siano deferibili ad arbitri le questioni riguardanti interessi individuali dei soci; e che, al contrario, non siano deferibili le questioni concernenti interessi della società, indisponibili da parte del singolo socio e non transigibili. Ugualmente, non compromettibili, secondo tale opinione, sono le questioni che investano interessi di terzi o le controversie nelle quali sia obbligatoria la partecipazione del Pubblico Ministero.
     Questo orientamento – costantemente ribadito dalla giurisprudenza, con motivazioni il più delle volte ripetitive, che possono considerarsi ormai una massima consolidata – trova applicazione nelle varie questioni che si pongono in materia societaria, giudicandosi precluse agli arbitri, tra le altre, le questioni relative a:
     a) accertamento di irregolarità nella convocazione dell’assemblea;
     b) esclusione di un socio dall’esercizio del voto per conflitto di interessi;
     c) nullità di deliberazioni per violazione di norme inderogabili;
     d) deliberazioni di modificazione dello statuto sociale;
     e) controversie in materia di bilancio.
    Al riguardo lo schema di decreto legislativo non fornisce grande aiuto, poiché si limita a ribadire la compromettibilità di tutte le controversie che hanno ad oggetto diritti disponibili. Semmai, qualche incertezza deriva dalla disposizione, secondo cui non sono compromettibili «le controversie nelle quali la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero” (art. 34, 5° comma), non essendo chiaro se con essa si intenda consentire – al di fuori delle clausole statutarie compromissorie – l’operatività dell’arbitrato in tutte le controversie societarie, con la sola eccezione di quelle in cui sia parte necessaria il pubblico ministero; ovvero, molto più probabilmente, precisare l’ambito di applicazione dell’arbitrato societario, ritenendo forse di escludere alcune questioni, quali quelle relative all’art. 2409 cod. civ. (disposizione per la quale, tuttavia, l’intervento del pubblico ministero, a seguito della riforma societaria, è obbligatorio soltanto nelle società che facciano ricorso al mercato del capitale di rischio), tutte concernenti diritti indisponibili e, quindi, già sottratte all’arbitrato.
     Sembrerebbe, quindi, che niente sia innovato circa la compromettibilità per arbitri delle controversie societarie; invece, a mio avviso, le nuove disposizioni danno un fondamentale contributo per superare gli orientamenti eccessivamente restrittivi della giurisprudenza al riguardo. Si è voluto ora ribadire in modo chiaro che sono sottratte alla competenza arbitrale in materia societaria solo le controversie relativi a diritti indisponibili, facendo venir così meno ogni rilevanza agli interessi coinvolti, quali quelli di terzi, cui faceva riferimento la giurisprudenza dianzi ricordata. Più precisamente, pur coinvolgendo le società (specie quelle di capitali) interessi di carattere generale, il criterio per distinguere le questioni compromettibili dalle altre è uno solo: la disponibilità o indisponibilità del diritto controverso.

7. Dispute su questioni gestionali

     Tra i sistemi previsti nella prassi contrattuale per superare situazioni di stallo decisionale (dead-lock nella terminologia internazionale) in ordine alla gestione di imprese societarie vi è anche quello di stabilire con una clausola statutaria che le eventuali divergenze circa scelte operative siano rimesse ad un collegio arbitrale.
     Il problema, ampiamente dibattuto in altri ordinamenti si è presentato recentemente all’esame della nostra giurisprudenza, che ha ritenuto inammissibile simile clausola statutaria nelle società di capitali, in quanto contrastante con il principio della competenza esclusiva degli amministratori per la gestione della società. Invero, il problema sollevato da tali clausole è più complesso, poiché è discutibile che possa essere deferita per arbitri la risoluzione di dispute riguardanti scelte gestionali, senza che vi sia una controversia in senso tecnico-giuridico, ossia pretese esercitabili in sede giudiziaria (la questione si è posta anche all’estero, in ordinamenti, quale quello statunitense, in cui tali clausole sono molto diffuse). Una soluzione a quest’ultima difficoltà potrebbe essere quella di qualificare la clausola come arbitraggio; è una strada, però, non del tutto convincente e che non risolve la questione della vincolatività e della eseguibilità della decisione arbitrale.
     La questione si pone ora in termini nuovi, poiché lo schema di decreto delegato riconosce espressamente l’ammissibilità di clausole statutarie di dead-lock. Si prevede, infatti, che nelle società a responsabilità limitata e nelle società di persone l’atto costitutivo possa contenere «clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi, nominati da soggetto estraneo alla società, i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società» (art. 37, 1° comma), con una decisione vincolante, che è reclamabile davanti ad un collegio, soltanto se ciò sia previsto nello statuto sociale (art. 37, 2° comma).
     Pur rimanendo il dubbio se si tratti di arbitrato o di arbitraggio ovvero di una figura di altra natura, la riforma del diritto societario fornisce un importante contributo per la risoluzione di contrasti, anche al di fuori delle controversie in senso stretto. Tuttavia, non si comprende perché l’arbitrato in materia gestoria sia ammesso soltanto per le società di persone e per le società a responsabilità limitata, e non per le società per azioni, nelle quali l’operatività di simili clausole è assai più importante. Al riguardo la Relazione di accompagnamento allo schema di decreto delegato sembra giustificare la limitazione di tale figura arbitrale alle società di persone ed alle società a responsabilità limitata, in relazione alla forte disarticolazione del potere gestorio in entrambi i tipi societari «con corrispondente incremento delle possibilità di conflitto»; in realtà, le possibilità di conflitto sulle scelte gestorie non sono legate alla disarticolazione del potere tra gli amministratori, ma semplicemente alla presenza di più amministratori e, soprattutto, alla complessità delle scelte operative da compiere ed alla pluralità degli interessi che vi sono coinvolti. Ciò induce a ritenere che il campo elettivo di operatività per le clausole di dead-lock (clausole che non si esauriscono nell’arbitrato, ma comprendono una vasta tipologia, tra cui: il casting vote, con la prevalenza di una delle opinioni in contrasto, e il cooling-off, con la previsione di apposite procedure per il riesame della questione) sia quello delle società per azioni, nelle quali più frequentemente può verificarsi uno stallo decisionale con conseguente devastanti per l’attività di impresa.

 

 

     * Lezione svolta a Roma il 29 novembre 2002 nelle “Giornate di formazione sulla conciliazione e l’arbitrato”, organizzate dall’Ordine dei Dottori commercialisti di Roma. Lo scritto è destinato alla pubblicazione sulla rivista “Vita notarile”

 

 

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