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novembre 2002

Studî e commenti

FRANCESCO PACILEO

Pubblicità delle clausole nei contratti bancari e contratti collettivi di lavoro: analogie tra “remoti” istituti dell’ordinamento giuridico

 

1. Trasparenza delle condizioni contrattuali: disciplina del T.U.B.
     Il D.lgs. n. 385/’93 (T.U.B.) disciplina, nel Capo I del titolo VI, la trasparenza delle condizioni contrattuali relativamente ad operazioni e servizi bancari e finanziari, al fine di fornire una tutela adeguata al cliente (considerato contraente debole) nei confronti delle banche – considerate soggetti economicamente più forti e, perciò, in grado di approfittare di una maggiore competenza tecnica, nonché del ruolo più significativo che rivestono sul mercato.
     Il T.U.B. impone, dunque, alle banche obblighi che dovrebbero – almeno secondo l’intenzione del legislatore – consentire al cliente di valutare al meglio le condizioni predisposte e di disporre di strumenti giuridici idonei a tutelare i propri interessi.
     Al riguardo, la normativa della trasparenza si basa su tre principi fondamentali: 1) la forma scritta ad substantiam dei contratti bancari; 2) la nullità come sanzione; 3) la pubblicità.
     Quanto alla forma scritta (sia per quanto riguarda la redazione del contratto, sia per quanto riguarda le eventuali modifiche), si è ritenuto, infatti, che – in deroga al principio generale della libertà di forma dei contratti, stabilito dall’art.1325, comma 1°, n. 4, cod. civ. – l’imposizione sia in grado di garantire una maggiore chiarezza nei confronti del cliente ed induca l’altra parte contraente ad un maggiore rispetto ed ossequio della relativa normativa pubblicistica.
     Non sono mancate, però, critiche, in dottrina. Si è ritenuto, infatti, che la forma scritta non consenta comunque al cliente, il quale non abbia specifiche conoscenze in materia bancaria, di comprendere maggiormente le clausole predisposte dalla banca nei moduli e nei formulari, e che la previsione di modificazioni contrattuali solo per iscritto finisca con lo snaturare il rapporto essenzialmente dinamico che, invece, dovrebbe costituirsi tra le parti.
     L’ossequio delle norme d’interesse pubblico è ulteriormente incentivato dalla previsione della nullità dei contratti non redatti per iscritto e delle clausole difformi a quanto è stato prescritto dalla legge (v. infra). La tutela a favore del cliente è stata nondimeno rafforzata dalla previsione di una speciale fattispecie di nullità relativa, che può essere fatta valere soltanto da questo (in deroga, dunque, al principio generale, sancito dall’art. 1418 cod. civ., in base al quale la nullità può essere fatta valere da “chiunque vi abbia interesse”, nonché “d’ufficio”, ex art. 1421 cod. civ.).
     Anche questa disposizione suscita perplessità, poiché consente eccezionalmente ad una sola delle parti contrattuali di stabilire se tenere in vita un negozio invalido ab origine (1), e attribuisce, così, uno squilibrio eccessivo in favore del cliente, il quale potrebbe decidere a seconda delle proprie esigenze se far proseguire o estinguere il rapporto contrattuale con la banca. Si potrebbe, allora, sostenere che da una patologia (genetica) del contratto bancario abbia origine un diritto potestativo in capo a chi concluda con la banca un negozio nullo a norma delle leggi sulla trasparenza.
     Quanto alla pubblicità, l’art. 116, comma 1, T.U.B. prevede che “in ciascun locale aperto al pubblico sono pubblicizzati i tassi di interesse, i prezzi, le spese per le comunicazioni alla clientela e ogni altra condizione economica relativa alle operazioni e ai servizi offerti, ivi compresi gli interessi di mora e le valute applicate per l’imputazione degli interessi”.

2. In particolare: disciplina della pubblicità.
     Una disposizione molto significativa della disciplina del T.U.B. relativa alla pubblicità delle clausole dei contratti bancari è quella contemplata dall’art. 117, il quale, dopo aver stabilito – in base al principio generale della redazione per iscritto del contratto – l’ulteriore principio della completezza del testo contrattuale (comma 4), dispone al comma 6 che «sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali (…) che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati».
     È questa una norma piuttosto singolare, la cui ratio non è facile da individuare, posto che non è agevole – ad una prima analisi – ricondurla ad un qualsivoglia istituto generale.
     Per poter dare una risposta a tali interrogativi bisogna, allora, tenere presente che il diritto è un concetto e non può non essere influenzato dal contesto socio-economico del periodo storico in cui ha origine: pertanto, si possono ottenere risultati significativi analizzando situazioni in qualche modo analoghe a quella contemplata dal comma 6 dell’art. 117.

3. Contratti collettivi di lavoro: elementi in comune
     È interessante, allora, esaminare la disciplina generale dei contratti di lavoro.
Come noto, sono sorte numerose controversie circa l’estensibilità o meno dell’efficacia dei contratti collettivi ad un’intera categoria di prestatori o datori di lavoro. È una questione molto delicata che implica interessi di notevole rilevanza sociale, ma che è possibile solo accennare in questa sede.
     a) La dottrina dominante e la giurisprudenza prevalente ritengono che l’efficacia inter partes dei contratti collettivi trovi origine nell’art. 1322 cod. civ., poiché essi sono espressione dell’autonomia negoziale privata, la quale è anche in grado di disporre degli interessi collettivi – gestiti dalle associazioni rappresentative dei datori e dei prestatori di lavoro e sottratti, in questo caso, al potere di regolamentazione dei singoli – laddove questi siano meritevoli di tutela. La tesi sembra essere avvalorata da quanto è previsto dall’ordinamento giuridico: l’art. 39 Cost., infatti, nel sancire la libertà sindacale, afferma implicitamente che le associazioni di categoria sono in grado di regolare convenzionalmente i conflitti d’interessi collettivi tra prestatori e datori di lavoro; inoltre, la norma prefigura un modello di contratto collettivo avente efficacia erga omnes (che, però, non si è mai realizzato), sottolineando, dunque, la sussistenza e la rilevanza dell’autonomia dispositiva delle parti sociali in materia.
     Pertanto, i singoli datori e prestatori di lavoro, nel momento in cui aderiscono ad un’associazione di categoria, subordinano, in parte, i rispettivi interessi individuali del rapporto di lavoro alla realizzazione degli interessi comuni del gruppo di cui fanno parte. Dato che siffatti interessi comuni consistono nella determinazione dei minimi di trattamento economico e normativo dei lavoratori, consegue, quindi, che le clausole del contratto individuale di lavoro le quali modificano in peius le condizioni concordate nel contratto collettivo sono frutto di un comportamento delle singole parti contrattuali che esorbita dalla sfera di competenza a queste riservata, e che va ad invadere la sfera degli interessi di gruppo relativi alla disciplina del rapporto di lavoro.
     b) L’efficacia erga omnes di tali contratti (che è, poi, il nodo centrale della problematica dei contratti collettivi) è stata invece risolta sulla base dell’art. 36, 1° co., Cost., il quale prevede che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (2) . Un consolidato indirizzo giurisprudenziale, seguito anche dalla dottrina, considera, infatti, immediatamente precettiva siffatta norma ed attribuisce, pertanto, al lavoratore il diritto – di rango costituzionale – di percepire un retribuzione equa e sufficiente.
     Da tale assunto i sostenitori di questa tesi concludono che, stante la nullità delle clausole del contratto individuale contrastanti col dettato dell’art. 36, 1° co., si debba applicare il disposto dell’art. 2099, co. 2°, cod. civ., in base al quale si attribuisce al giudice il potere di determinare la retribuzione nel caso in cui non sussista un accordo tra le parti. In questo modo, dunque, l’interprete può e deve considerare le clausole dei contratti collettivi relative alle condizioni minime di trattamento economico e normativo dei lavoratori di categoria come parametro d’interpretazione dei contratti individuali di lavoro che non rientrino in modo diretto nell’ambito della contrattazione collettiva.
     In sintesi, si può allora sostenere – in base a quanto affermato da dottrina e giurisprudenza, nonché da numerose leggi speciali che ne contemplano l’efficacia normativa – che i contratti collettivi di lavoro dispiegano effetti che non si esauriscono nella sfera di autonomia negoziale delle parti contraenti (i.e. dei soli aderenti alle associazioni sindacali stipulanti). Una delle loro principali funzioni è, dunque, quella di vincolare, con efficacia erga omnes, i contratti individuali di lavoro a non prevedere condizioni economiche più svantaggiose di quelle previste dai primi. Pertanto, ben potrà l’interprete far sostituire alle clausole che siano difformi in peius dai contratti collettivi quelle più vantaggiose contemplate da questi, come è espressamente previsto dall’art. 2077, 2° co., cod. civ. (il quale si riferisce ai contratti corporativi di lavoro di natura esclusivamente pubblicistica, non più contemplati dal nostro ordinamento giuridico).
     Pertanto, la contrattazione collettiva, nonostante la matrice fascista, diviene uno dei capisaldi dello Stato repubblicano, alla luce di quanto previsto dagli artt. 2 e 36 Cost., dal momento che è uno dei principali strumenti per realizzare lo Stato sociale auspicato dalla Carta costituzionale, ed è, quindi, tutelata dal principio del favor lavoratoris di cui si permea tutta la normativa giuslavoristica.

4. Conclusioni
     Così è interessante ravvisare un certo parallelismo tra quanto previsto dall’art. 2077, 2° co., cod. civ. e dalla disciplina generale dei contratti collettivi di lavoro (cioè che le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo sono sostituite da quelle del contratto collettivo che contengano condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro) e quanto disposto dall’art. 117, comma 6, T.U.B.
     Infatti, nonostante le significative diversità di presupposti e di parametri normativi di riferimento, residuano importanti analogie tra i contratti di lavoro e i contratti bancari, quanto al rapporto fra le parti contraenti (i.e. un contraente “forte”, che sarebbe – a mente del legislatore – la banca o il datore di lavoro, ed un contraente “debole”, che sarebbe il cliente o il lavoratore) e quanto alla specifica disciplina in materia di modificabilità in peius.
     Si può allora sostenere che, nell’ambito di uno Stato sociale in cui sono contemplati strumenti pubblicistici volti a compensare il diverso peso economico che rivestono determinati soggetti, la tutela del prestatore di lavoro nei confronti del datore di lavoro ben può avere ispirato (e ispirare) la disciplina pubblicistica del rapporto banca-cliente.

NOTE

(1) Anche se l’art. 1421 c.c. contempla implicitamente questa possibilità, mediante l’inciso “Salvo diverse disposizioni di legge”.

(2) Il corsivo è di chi scrive.

 

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