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Studî e commenti |
GIANLUCA BERTOLOTTI
Limputazione allente della responsabilità amministrativa (o penale?) per fatto dei propri prestatori di lavoro *
SOMMARIO: 1.Premessa 2. Contiguità con il sistema penale della responsabilità amministrativa degli enti. 3. Lambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001. 4. Presupposti per limputazione della responsabilità amministrativa . 4.1. Presupposti oggettivi. 4.2. Presupposto soggettivo- 5. Il modello organizzativo. 5.1. Il modello organizzativo nel gruppo di società. 5.2.I modelli organizzativi adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti e il valore giuridico della comunicazione al Ministero. 6. Lorganismo di vigilanza del modello organizzativo. 6. 1. Lorganismo di vigilanza nel gruppo di società. 7. Le sanzioni interdittive. Cenni.
1. Premessa
Il d.lgs. 8 giugno 2001, n.231 recante Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica (1) può ritenersi effetto principalmente di due fattori causali che imponevano nellordinamento giuridico italiano lintroduzione di una responsabilità, espressamente definita amministrativa (2), in capo agli enti per reati imputabili ai propri prestatori di lavoro (3).
Il primo fattore causale si rinviene nellesigenza di rendere omogeneo il sistema sanzionatorio nei diversi Stati membri dellUnione Europea. In molti Stati europei, infatti, è già presente una forma di responsabilità amministrativa in capo agli enti legata alla commissione di reati da parte dei prestatori di lavoro degli enti medesimi; anzi taluni ordinamenti hanno preferito ricorrere ad una impostazione più severa, prevedendo in capo agli enti una vera e propria responsabilità penale. Al riguardo e senza entrare nel merito di una tematica che esulerebbe dai confini della presente indagine, si pensi al nuovo codice penale francese, entrato in vigore con la legge 19 luglio 1993, n. 913 che riconosce la responsabilità penale alle persone giuridiche per i reati commessi, per loro conto, da parte dei loro organi o rappresentanti.
Dallaltro lato, e soprattutto, è constatazione ovvia ma non inutile che i reati finanziari di maggior rilievo vengono perpetrati non già dal singolo individuo, sibbene da collettività organizzate e strutturate, spesso in forma societaria. Insomma, si potrebbe dire, che limpresa illecita , secondo lid quod plerumque accidit, è gestita in forma collettiva.
A questo riguardo occorre però puntualizzare che la novella introdotta dal d.lgs. n. 231 del 2001 si situa su un versante che non è precisamente quello dellimpresa in sé illecita, quale si insegnava essere- e come ipotesi meramente di scuola- ad esempio la società per azioni il cui oggetto sociale ricomprende il traffico di schiavi o la commercializzazione di armi, ma dell impresa sostanzialmente sana la cui fisiologica vocazione al profitto importa quale effetto talune patologie dellagire che si concretano nella consumazione di reati, ad esempio, contro la pubblica amministrazione. Il pensiero corre ovviamente ai fenomeni di corruzione e concussione balzati agli onori della cronaca in questi ultimi dieci anni.
Daltra parte reati non vengono commessi solo per politica aziendale.
È invero innegabile come la complessità dellagire imprenditoriale nelle imprese di notevoli dimensioni si traduca nella consumazione di reati a cagione delladozione di modelli organizzativi e/o di controllo inefficienti e/o inidonei alla natura e alla dimensione dellimpresa.2. Contiguità con il sistema penale della responsabilità amministrativa degli enti
Quanto alla natura giuridica della responsabilità prevista dal d. lgs. n. 231 del 2001, è qui sufficiente osservare, stando alla relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001 (di seguito anche solo la Relazione), che lostacolo che si frapponeva al riconoscimento della responsabilità penale della persona giuridica, e cioè come è noto lart.27 della cost., sembrerebbe sia stato in qualche modo riletto nel senso di abbandonare una concezione psicologica della colpevolezza a favore di una concetto di colpevolezza inteso come rimproverabilità. Come rimproverabilità la colpevolezza diventerebbe allora riferibile anche agli enti (4).
Si tratta di considerazioni che sembrano di una qualche utilità giacchè è sì vero che il legislatore ha optato per una responsabilità definita amministrativa degli enti, ma è altrettanto vero che si tratta, per sua esplicita ammissione, di una responsabilità che diverge in molti punti dallillecito amministrativo di cui alla l.n. 689 del 1981 e vicina alla responsabilità penale, essendo una responsabilità «conseguente da reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale» (così la relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001).
Sulla scorta di tali motivazioni la stessa Relazione conclude, coerentemente, che la responsabilità di cui qui si discorre è insomma un tertium genus tra la responsabilità penale e quella amministrativa.
Ciò nondimeno la ricordata vicinanza con il sistema processuale penale, contiguità che si evince ad esempio dallart. 34 del d.lgs. n. 231 del 2001 il quale stabilisce che «Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato....si osservano ...in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale », comporta lapplicazione delle garanzie tipiche di tale processo e in particolare dell art. 111 della Costituzione.3. Lambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001
Il d. lgs. n. 231 del 2001, dopo aver individuato nella «responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato» il proprio oggetto (art. 1, co.1), individua così i soggetti che soggiacciono a detta responsabilità:«enti forniti di personalità giuridica e società e associazioni anche prive di personalità giuridica» con esclusione dello «Stato enti pubblici territoriali..altri enti pubblici non economici...enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale» (art.1, co. 2 e 3).
Il tenore letterale della norma pocanzi citata pone, fra laltro, il dubbio circa lapplicabilità del d.lgs. n. 231 del 2001 ai consorzi, anche se la soluzione negativa si lascia preferire in considerazione della struttura peculiare dei consorzi medesimi (5).
Si segnala infine che il legislatore delegato ha ritenuto opportuno non conformarsi alla legge n. 300/2000 che delegava il governo a prevedere la responsabilità amministrativa anche di «enti privi di personalità giuridica» (art.11, co. 1) essendosi preferito «indirizzare linterprete verso la considerazione di enti che, seppur sprovvisti di personalità giuridica, possano comunque ottenerla» (6).4. Presupposti per limputazione della responsabilità amministrativa
La responsabilità amministrativa degli enti summenzionati ricorre al verificarsi di tre presupposti: due oggettivi e uno soggettivo alternativo.4.1. Presupposti oggettivi
In primo luogo il reato deve essere commesso nell interesse dell ente o a suo vantaggio(art.5, co.1).
La formulazione del citato art. 5, co. 1, in ragione della preposizione disgiuntiva o, prima facie sembrerebbe consentire di ritenere gli enti responsabili vuoi quando si rechi un beneficio allente, pur non avendo agito a tal fine, vuoi quando, pur avendo agito a tal fine, non si sia recato un beneficio allente;il d.lgs. n. 231 del 2001 aggiunge tuttavia che «lente non risponde se le persone hanno agito nellinteresse esclusivo proprio o di terzi»(art.5,co. 2). Le due disposizioni non sono dunque di facile coordinamento.
Si potrebbe infatti ritenere che vantaggio sia utilizzato come sinonimo dinteresse, secondo linterpretazione privilegiata dalla relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001.Se così fosse, lente che trae un vantaggio da un reato che però non sia stato commesso per perseguire linteresse dellente stesso, non potrebbe essere sanzionato ai sensi e per gli effetti del d.lgs. n. 231 del 2001.
Tale interpretazione tuttavia postula una forzatura del tenore letterale dellart.5 co. 1. Del resto, che una forzatura ricorra appare evidente anche dalla lettura della Relazione: essa in palese contraddizione con la propria interpretazione, successivamente afferma che i due termini, vantaggio e interesse, sono diversi.
Dallaltro lato si potrebbe ritenere che «lente non risponde se le persone hanno agito nellinteresse esclusivo proprio o di terzi» (fin qui la disposizione del co.2 dellart. 5) purchè concorra unulteriore condizione: che dalla commissione del reato lente non abbia ricavato alcun vantaggio, neppure indiretto.
Ma allora, ove si volesse accedere a tale ultima tesi, la disposizione del co.2 dellart. 5 sarebbe sostanzialmente pleonastica perché volgendola in positivo starebbe a dire: la responsabilità degli enti sussiste anche qualora il reato sia stato commesso nel duplice interesse, quello specifico del reo e quello dellente.
Alla luce delle considerazioni svolte sembra più aderente al sistema delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001 la prima delle indicate tesi, seppure con la precisazione che grava sullente stesso lonere di provare che coloro che hanno commesso il reato hanno agito nel proprio esclusivo interesse (o nellinteresse di terzi).
Del resto, opinando diversamente , opinando cioè che lente debba rispondere sempre e comunque del reato commesso dal proprio prestatore di lavoro purchè ne abbia avuto in qualche modo un vantaggio , si corre il rischio di pervenire a discutibili soluzioni concrete.
Valga il seguente esempio.
Limpiegato di una società che fabbrica e vende piastrelle corrompe un pubblico funzionario per ottenere ledificabilità di un terreno al solo fine di costruirvi una villa.
Ottenuta ledificabilità e volendo iniziare i lavori per la pavimentazione della villa, limpiegato acquista un notevole quantitativo di piastrelle dalla società presso la quale lavora.
Orbene, è evidente, da un lato che la società di cui si discorre ha tratta un vantaggio dal reato commesso dal proprio impiegato: se egli non avesse ottenuto ledificabilità non avrebbe acquistato le piastrelle; dallaltro lato limpiegato ha «agito nellinteresse esclusivo proprio ».
Pure è evidente, però, che se dovesse farsi carico agli enti di sopportare le conseguenze palesemente imponderabili di un siffatto rischio reato, si finirebbe per penalizzarne lagire al di là di ogni ragionevole limite.
Daltra parte, per evitare facili elusioni del d.lgs. n. 231 del 2001, si pone in capo agli enti lonere di provare che il prestatore di lavoro-reo ha agito nell interesse esclusivo proprio o di terzi.
Quanto al secondo presupposto oggettivo, occorre che il reato sia stato commesso:
«a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dellente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)» (art. 5, comma 1).
Si distingue dunque fra soggetti in posizione apicale (quelli sub a) e soggetti in posizione subordinata (quelli sub b) e, come si dirà più avanti,la distinzione comporta conseguenze di notevole momento in punto di esonero dellente dalla responsabilità amministrativa.
Quanto ai soggetti in posizione apicale due sembrano i profili di maggior rilievo.
Anzitutto il d.lgs. n. 231 del 2001 si riferisce a soggetti che svolgono di fatto cumulativamente la funzione gestoria e quella di controllo.
Se, come sembra, qui il termine controllo è da intendere con riferimento agli assetti proprietari e non con riferimento alla funzione di vigilanza, allora si deve ritenere che si tratti di soggetti che esercitano un forte dominio sull ente (7). Si pensi ad esempio al cd. socio tiranno.
In secondo luogo la rilevanza dei soggetti che rivestono una posizione apicale in «una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale».
Il legislatore, stando alla relazione illustrativa, aveva in mente il fenomeno dei direttori di stabilimento.
Sul punto la Relazione altro non dice, sicchè i contorni di questa unità restano piuttosto indefiniti.
Problemi maggiori suscitano poi l applicazione della disposizione in commento alle imprese non industriali per le quali la relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001 non è di nessun ausilio.
Peraltro, con riferimento alle banche sembra difficile negare che anche i massimi vertici delle succursali e degli sportelli debbano ritenersi apicali ai sensi e per gli effetti del d.lgs. 231 del 2001.
Quanto ai soggetti in posizione subordinata è a dirsi che essi sono coloro che sono sottoposti «alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lett.a» (art.5, lett.b): subordinati ai sensi e per gli effetti del d.lgs. n. 231 del 2001 sono allora tutti coloro che non sono apicali secondo lo stesso d.lgs. n. 231 del 2001 (8).4.2. Presupposto soggettivo
La ricorrenza dei ricordati presupposti oggettivi non è ancora sufficiente per attribuire allente la responsabilità amministrativa.
Occorre ulteriormente- ed è il presupposto soggettivo alternativo- o che il reato sia espressione della politica aziendale, quando a commetterlo siano soggetti in posizione apicale ed in questo caso sarà lente che dovrà dimostrare, nei modi che ora vedremo, che il reato non è espressione della politica aziendale.
Ovvero occorre che il reato, quando a commetterlo siano soggetti in posizione subordinata, sia leffetto di una negligenza organizzativa, ed in questo caso lonere di provare che il reato è leffetto di una negligenza organizzativa graverà su chi vuole far valere la responsabilità dellente.
È il legislatore a stabilire in che cosa consiste la prova che deve dare lente per esimersi dalla responsabilità amministrativa quando sono commessi reati nel suo interesse o a proprio vantaggio da soggetti in posizione apicale.
Ai sensi dell art.6 infatti l ente non risponde solo se concorrono tutte le seguenti condizioni:
«a)lorgano dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e sull osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dellente dotato di autonomi poteri diniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell organismo di cui alla lettera b».
Occorre in proposito rilevare un difetto logico della formula della norma, che suscita perplessità in punto di applicazione della stessa.
La citata lettera a) dellart. 6 richiede infatti che lorgano dirigente, oltre ad aver adottato il modello organizzativo, lo abbia anche «efficacemente attuato».
Orbene, sembra evidente che se lente viene chiamato a rispondere del reato commesso dal soggetto in posizione apicale, il modello organizzativo non è stato «efficacemente attuato», dovendosi ritenere efficace solo il modello organizzativo che in concreto riesca a prevenire i reati.
Pertanto, a meno di non voler giungere alla paradossale conclusione che la commissione del reato, ponendo in evidenza linefficacia del modello organizzativo, non consentirebbe mai allente di esimersi dalla responsabilità ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, si deve ritenere che la lettera a) della norma in commento vada letta insieme alla lettera c), con la conseguenza che il modello organizzativo sarà efficacemente attuato ogni volta che per la sua elusione occorra un comportamento fraudolento.
È allora necessario che il soggetto apicale non possa addurre a giustificazione della propria condotta, ad esempio, la macchinosità e la conseguente scarsa comprensibilità del modello, o che comunque non sia sufficiente il comportamento colposo (negligenza o imperizia) a determinare lelusione del modello organizzativo ma occorra invece lintenzionalità di aggirare detto modello.In proposito la relazione illustrativa al d.lgs. n. 213 del 2001 fa riferimento allapice c.d. infedele inteso come colui che «agisce contro linteresse dellente al suo corretto funzionamento».5. Il modello organizzativo
Quindi, fra le condizioni necessarie per ritenere lente non responsabile ai sensi e per gli effetti del d.lgs n. 231 del 2001, particolare attenzione merita quella delladozione ed efficace attuazione «prima della commissione del fatto» di un modello organizzativo che sia idoneo a prevenire reati «della specie di quello verificatosi» (9).
A mente dellart. 6, co. 1, il soggetto deputato alladozione di tale modello organizzativo è lorgano dirigente, sicchè il riferimento pare essere al massimo vertice dellente, cioè a quellorgano al quale sono demandate le scelte strategiche dellente.In questo senso lutilizzo del termine dirigente si spiega per la necessità di ricomprendere nellambito di applicazione del citato art. 6, co. 1, i diversi organi preposti alla direzione dei diversi enti.
Con riferimento alle società tale organo pare allora potersi identificare nel consiglio di amministrazione, anche se non sembrano vi siano ostacoli a ritenere che ladozione del modello organizzativo possa essere delegata al comitato esecutivo o anche dei membri del consiglio di amministrazione.In tal caso resta comunque ferma la responsabilità del consiglio di amministrazione come organo collegiale, in ragione dell obbligo di vigilare «sul generale andamento della gestione» (art.2392, co. 2, cod. civ.).5.1. Il modello organizzativo nel gruppo di società
Questioni complesse e di notevole rilievo operativo si pongono per lelaborazione di un modello organizzativo in presenza di un gruppo di società (10).
Per ragioni di coerenza organizzativa è naturale che la società capogruppo tenda a predisporre un modello omogeneo che sia di generale adozione da parte delle società che fanno parte del gruppo.Tuttavia, per fungere da condizione per la non responsabilità dell ente, il modello organizzativo deve essere strutturato con riferimento alle peculiarità della singola società che dovrà applicarlo.
Qualora si opinasse diversamente si andrebbe incontro a due inconvenienti.
Un primo inconveniente è quello che di fronte ad un modello tipo di gruppo potrebbero sollevarsi dubbi circa lidoneità di questo a prevenire reati di tutte le società controllate. È linconveniente cui si è fatto cenno pocanzi: il rischio cioè che il modello organizzativo non funga, perché ritenuto non idoneo dallautorità giudiziaria, da condizione per la non responsabilità dellente.5.2 I modelli organizzativi adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle «associazioni rappresentative degli enti» e il valore giuridico della «comunicazione al Ministero».
I modelli di organizzazione e di gestione di cui si discorre possono essere adottati «sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati» (art.6, co. 3).
La disposizione non è di immediata comprensione.
Non è chiaro che quali siano in concreto le «associazioni rappresentative degli enti». Si tratta solo delle associazioni c.d. di categoria? In caso di risposta affermativa si aprirebbe linterrogativo circa la portata da attribuire al termine categoria riferito alla fattispecie di cui si discorre.
Si può immaginare che possano sorgere associazioni ad hoc alle quali gli associati diano mandato di elaborare codici di comportamento per le finalità di cui al citato art.6, co. 3.
Se, come sembra, la ratio legis dellart. 6. co. 3 è quella di agevolare lelaborazione di un modello organizzativo, elaborazione complessa e onerosa per il singolo ente massime in sede di prima applicazione di un provvedimento in qualche modo rivoluzionario qual è il d. lgs. n. 231 del 2001, se dunque la finalità di orientare gli enti è stata quella che ha ispirato il legislatore , si deve ritenere che qualsivoglia associazione che abbia un congruo grado di rappresentatività (11) sia ricompresa nellambito di applicazione della disposizione in esame.
Ma i dubbi di maggior rilievo sono quelli relativi al valore giuridico da attribuire alla comunicazione al Ministero della giustizia dei codici di comportamento elaborati dalle associazioni rappresentative degli enti.
In particolare qual è il valore giuridico di una risposta senza osservazioni da parte del Ministero della giustizia?
Secondo lopinione comune in sede di procedimento penale il giudice potrebbe sempre e comunque valutare il modello organizzativo come non idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, quand anche il modello organizzativo sia stato redatto con losservanza dei codici di comportamento approvati dal Ministero.Tale soluzione sarebbe infatti diretta conseguenza dellapplicazione del principio secondo il quale il giudice è libero nel fondare il proprio convincimento.
Al riguardo si può notare che se è vero che il giudice è libero nel fondare il proprio convincimento non è men vero, da un lato che la libertà di giudizio non si traduce in arbitrio e, dallaltro, che se dovesse seguirsi la ricordata opinione comune si dovrebbe ritenere giuridicamente inutile la norma che consente alle associazioni di categoria di elaborare codici di comportamento da sottoporre al Ministero della giustizia.
Una soluzione interpretativa potrebbe allora essere quella di ritenere che i modelli approvati dal Ministero siano presuntivamente idonei salvo lonere della prova contraria, onere che però, a questo punto, andrebbe ribaltato sul pubblico ministero.
Unaltra soluzione per dare significato allart. 6, co. 3 potrebbe essere quella di ritenere che la possibilità di inviare al Ministero il modello organizzativo e la possibilità di questo di formulare osservazioni abbiano la funzione di rendere omogenei i modelli organizzativi per tipi di enti.
Per questa via, insomma, si confermerebbe quella finalità di orientare che, come si è detto, sembra essere la ratio legis dellart.6, co.3., restando allora esclusa la possibilità di invertire lonere della prova, possibilità alla quale conduceva la prima delle indicate soluzioni.6. Lorganismo di vigilanza sullosservanza del modello organizzativo
Il funzionamento del modello e la sua osservanza devono essere vigilati da «un organismo dellente» al quale è altresì affidato il compito di aggiornare il modello, aggiornamento che si rende necessario non solo quando mutino le fattispecie criminose rilevanti ai fini del d.lgs. n. 231 del 2001, ma anche ogni volta che, nonostante ladozione e lattuazione del modello, i reati che dovevano prevenirsi sono stati commessi (art.6 lett. b).
Lindividuazione dellorganismo di cui si è detto, le funzioni di tale organismo e la sua disciplina rappresentano senza dubbio problemi interpretativi di notevole difficoltà.
Secondo le indicazioni, piuttosto scarse per la verità, della Relazione, dovrebbe trattarsi di una struttura interna allente «onde evitare facili manovre volte a precostituire una patente di legittimità alloperato della società attraverso il ricorso ad organismi compiacenti» (primo argomento), «e soprattutto di fondare una vera e propria colpa dellente» (secondo argomento).
Il primo argomento non pare del tutto convincente.
Invero manovre volte a precostituire una patente di legittimità alloperato dell ente possono attuarsi anche ricorrendo a strutture interne; anzi, la circostanza che la funzione di vigilanza venga assegnata ad un organismo interno allente, nonostante il legislatore richieda che lorganismo sia dotato di «autonomi poteri diniziativa e di controllo», ne menoma maggiormente lindipendenza. Tale organismo sarà infatti posto alle dipendenze gerarchiche dellimprenditore dandosi così vita ad un legame più intenso rispetto a quanto normalmente si verificherebbe affidando la funzione di vigilanza ad un organismo esterno allente.
Ciò posto sembra possibile delineare la seguente alternativa:
o si ritiene, contrariamente allopinione comune e in dispregio della Relazione, che il menzionato organismo di vigilanza possa essere anche esterno allente, oppure si rinviene altrove la ratio per la quale lorganismo di vigilanza deve essere interno.
In effetti, argomenti a favore della configurazione dellorganismo di vigilanza come organo interno allente del quale deve vigilare il modello (o i modelli) organizzativi, sembrano potersi trarre per un verso dalla necessità, fatta propria anche dalla Relazione illustrativa (il secondo argomento), di fondare una colpa organizzativa dellente, dunque di imputare allente imperizia o negligenza nella vigilanza del modello organizzativo.
Per altro verso, si deve rilevare che un organismo interno meglio si presta ad assolvere con continuità la funzione di vigilanza sul funzionamento e sullosservanza del modello organizzativo.
Inoltre, anche lesigenza di un puntuale aggiornamento del modello sembra poter essere più agevolmente soddisfatta se il soggetto a ciò deputato sia in grado di conoscere dallinterno le diverse problematiche che di volta in volta potrebbero favorire la commissione di reati.
Infine, anche il tenore letterale della lettera b dellart.6, facendo espresso riferimento ad un organismo dellente, porta a concludere che si tratti di un organismo interno.
Se, come si è visto, lindipendenza dellorganismo di vigilanza non verrebbe meno anche se questo fosse esterno allente, ma anzi ne risulterebbe rafforzata, nulla osta a che detto organismo si giovi dellapporto di professionisti esterni allente, siano esse persone fisiche o siano essi persone giuridiche.
Quanto alla composizione di tale organismo non pare proponibile, in considerazione della funzione ad esso assegnata, una sua identificazione con gli organi societari e segnatamente con il collegio sindacale.
In quanto soggetti esterni lorganismo di vigilanza non potrà identificarsi neanche con le società di revisione anche se le società di revisione, come professionisti appunto esterni, potranno comunque farne parte (12).6.1. Lorganismo di vigilanza nel gruppo di società
Anche per quanto inerisce lorganismo di vigilanza, così come visto a proposito del modello organizzativo, la presenza di un gruppo pone questioni complesse e rilevanti.
La società capogruppo, al fine di poter correttamente perseguire linteresse di gruppo, deve poter svolgere la direzione e il coordinamento delle società controllate anche per quanto riguarda il sistema di prevenzione dei reati.Tale finalità potrebbe essere perseguita mercè un flusso informativo dalle società che fanno parte del gruppo alla società capogruppo, flusso informativo che, sotto il profilo operativo, potrebbe avere come destinatario lorganismo di vigilanza della società capogruppo.
Daltra parte, però, se lorganismo di vigilanza della società capogruppo svolgesse una penetrante funzione di indirizzo e di coordinamento tale in sostanza da esautorare gli organismi di vigilanza delle singole società che fanno parte del gruppo, tale comportamento potrebbe essere fonte di responsabilità ai sensi e per gli effetti del d. lgs. n. 231 del 2001 per la società capogruppo stessa.
In ogni caso, in ragione dellautonomia giuridica delle singole società, che pure continua a sussistere nonostante lappartenenza al gruppo, appare preferibile ritenere che un organismo di vigilanza debba essere adottato in ciascuna di esse.7. Le sanzioni interdittive. Cenni
Fra i deterrenti pensati dal legislatore per dissuadere lente dal commettere reati figurano le sanzioni c.d. interdittive e cioè:
«a)linterdizione dallesercizio dellattività;
b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dellillecito;
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) lesclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e leventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi» (art. 9, co. 2).
Come è ovvio si tratta di sanzioni che comportano menomazioni gravi dello svolgimento dellattività dimpresa e che pertanto costituiscono un forte deterrente alla commissioni di reati.
Invero è ben noto che la sanzione pecuniaria è preventivata ed annoverata fra i rischi, quando non fra i costi, dellimpresa ed è altresì ben noto che appunto per questo talvolta la commissione di reati finisce per essere momento della strategia aziendale.
Le sanzioni interdittive vengono comminate nei casi più gravi (art.13) e, ciò che qui assume notevole rilievo, «hanno ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce lillecito dellente» (art. 14).
Le sanzioni interdittive, dunque, colpiscono non la totalità delle attività facenti capo all ente giudicato responsabile, bensì solo quella attività specificamente interessata dalla commissione del reato.
Sicché «solo quando lillecito costituisce espressione di una generale propensione al conseguimento di illeciti profitti, ricavabile da prassi criminose ormai consolidate che coinvolgono i vertici dellente, sarà inevitabile unapplicazione indivisa della sanzione» (così la relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001).
La puntualizzazione è di non poco momento- anche se in sostanza resta da decidere che cosa debba intendersi con il termine attività, e sul punto la relazione non offre alcun ausilio- se si pensa alla attuale realtà degli enti lucrativi ormai tipicamente impegnati su una varietà di attività sovente assai distanti fra loro: È il fenomeno dell articolazione dell iniziativa economica giuridicamente imputata ad un unico soggetto.
Si tratta poi di puntualizzazione importante per la sorte delle sanzioni interdittive che devono applicarsi agli enti soggetti a vicende modificative (13).
* Il presente lavoro è destinato alla pubblicazione su Diritto della banca e del diritto finanziario.
NOTE
(1) Con la legge n. 300 del 2000 lo Stato italiano ha ratificato ed eseguito alcuni Atti internazionali elaborati in base allart. K3 del Trattato dell Unione Europea e relativi alla lotta alla corruzione di membri degli organi e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri.
Nellambito della stessa legge lart.11 ha attribuito delega al governo per lemanazione di un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, di associazioni o enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
In attuazione della menzionata delega, è stato emanato il d.lgs n. 231 del 2001.(2) Così il legislatore qualifica la responsabilità prevista in capo alle persone giuridiche, società e associazioni (di seguito enti) dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e a tale qualifica, per semplicità di esposizione, ci si atterrà nel corso del presente lavoro. Quanto poi il nomen corrisponda alla sostanza del fenomeno giuridico che ci occupa è tema sul quale si dirà più oltre.
(3) Con la locuzione prestatori di lavoro si intende far riferimento, nel corso del presente lavoro, a tutti coloro che a qualunque titolo offrono prestazioni di lavoro allente, compresi coloro che svolgono funzioni di amministrazione, direzione, controllo.
(4) È questa, come ricordato nel testo, linterpretazione privilegiata dalla Relazione illustrativa al d. lgs. n. 231 del 2001 .
Il punto merita qualche chiarimento.
Se la responsabilità prevista dal d. lgs. n. 231 del 2001 fosse una responsabilità pienamente penale allora si dovrebbe concludere che linterpretazione pocanzi ricordata finisce per seppellire il ricordato principio costituzionale della personalità della responsabilità penale.
In tal senso non è allora priva di utilità la qualificazione in termini di tertiun genus operata dalla stessa Relazione con riferimento alla natura giuridica della responsabilità prevista dal d. lgs. n. 231 del 2001, una qualificazione questa, che sembra proprio voler chiarire la vicinanza, ma al tempo stesso la non identificazione della responsabilità di cui si discorre con la responsabilità penale.
Per la necessità di continuare a mantener fermo il principio della personalità della responsabilità penale e per lincompatibilità con tale principio di una «responsabilità penale autentica degli enti» cfr. M. ROMANO, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni, in Riv. soc. 2001, pp. 400-403 e spec. p. 402.(5) Largomento si rinviene in M. BUSSOLETTI, Il procedimento sanzionatorio e le vicende modificative dellente nella legge sulla responsabilità amministrativa degli enti collettivi, di prossima pubblicazione in Riv.dir.comm., I, 2002, ivi ulteriori riflessioni sullambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001. Dello stesso avviso M. ROBERTI, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni prive di personalità giuridica e le vicende modificative, in Le nuove leggi civ. comm., 2001, p. 1133 la quale, seguendo largomento addotto da BUSSOLETTI, op. loc. ult. cit. ritiene che il principio di legalità fissato dallart. 2 del d. lgs. n. 231 del 2001 «esclude che possano ritenersi compresi tra gli enti destinatari della normativa soggetti giuridici ontologicamente diversi (come le fondazioni e i consorzi) da quelli elencati». Contra L. DE ANGELIS, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dellente (trasformazione, fusione, scissione, cessione dazienda), in Società, 2001, p. 1326.
La questione, evidentemente di notevole interesse pratico, potrebbe essere nominalistica.
Il termine associazione, infatti, è talvolta utilizzato anche oltre lambito di cui allart. 36 cod. civ., per indicare in generale i contratti associativi. Se dunque il termine associazione di cui al citato art.1 del d. lgs. n. 231 del 2001 sinterpretasse secondo laccezione lata appena ricordata anche i consorzi rientrerebbero nellambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001.
La ricordata vicinanza al sistema penale induce tuttavia a ritenere di stretta interpretazione il citato art.1 del d. lgs.n. 231 del 2001 con la conseguenza che il riferimento alle associazioni ivi contenuto va inteso come riferimento alle associazioni di cui allart. 36 cod. civ., con esclusione dunque dei consorzi dallambito di applicazione del d. lgs. n. 231 del 2001.
Altra questione è poi quella dellindividuazione effettiva della natura dellente a prescindere cioè dal nomen iuris. In proposito si ricordi che la Suprema Corte ha di recente ritenuto che unassociazione di produttori ortofrutticoli costituita al fine di migliorare le condizioni di esercizio dellattività di vendita sia un consorzio e non ha pertanto applicato le norme dettate per le associazioni (cf. Cass., sez. I, 11 settembre 1997, n. 8963 citata da M.ROBERTI, op.cit., p. 1133, nt. 19).(6) Così la relazione illustrativa al d. lgs. n. 231 del 2001.
(7) In questo senso si esprime pure la relazione illustrativa al d. lgs. n. 231 del 2001.
(8) In questa ottica subordinati ai sensi e per gli effetti del d. lgs n. 231 del 2001 dovrebbero essere anche quei prestatori di lavoro che non sono formalmente dipendenti ma che però siano comunque sottoposti alla vigilanza degli apicali : è il caso ad esempio degli agenti, di coloro che hanno una collaborazione coordinata e continuativa e più in generale dei soggetti cod. civ. parasubordinati.
(9) Nota in proposito G.CABRAS, La responsabilità per lamministrazione delle società di capitali, Torino, 2002, p.153 che con lentrata in vigore del d. lgs. n. 231 del 2001 e segnatamente con ladozione del modello organizzativo quale condizione di esonero dellente per i reati commessi nel suo interesse da soggetti in posizione apicale, «il valore della procedimentalizzazione nella gestione delle imprese deve ritenersi ormai un dato acquisito nel nostro ordinamento giuridico».
(10) Il tema, a quanto consta, non risulta ancora indagato dalla dottrina.
(11) Non è evidentemente possibile individuare puntualmente in base a quale numero o altro parametro concreto, consentire o meno alle associazioni rappresentative di enti di elaborare codici di comportamento da comunicare al Ministero della giustizia ai sensi e per gli effetti dellart.6, co. 3 del d. lgs. n. 231 del 2001.
Senza dubbio si può ritenere che le associazioni in questione debbano avere un congruo grado di rappresentatività con esclusione di quelle associazioni che rappresentino, ad esempio, una decina di enti di scarso impatto economico e sociale.(12) Sul problema della indipendenza del revisore si veda da ultimo M. BUSSOLETTI, Lindipendenza del revisore nella revisione volontaria (e in quella obbligatoria), in Riv.soc., 2002, p. 863 e ss.
(13) Su questi problemi si sofferma diffusamente M.BUSSOLETTI, Il procedimento sanzionatorio etc., passim.
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