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ottobre 2002

Studî e commenti

GIANLUCA BERTOLOTTI

L’imputazione all’ente della responsabilità “amministrativa” (o penale?) per fatto dei propri prestatori di lavoro *


   SOMMARIO: 1.Premessa – 2. Contiguità con il sistema penale della responsabilità “amministrativa” degli enti. – 3. L’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001. – 4. Presupposti per l’imputazione della responsabilità “amministrativa” . – 4.1. Presupposti oggettivi. – 4.2. Presupposto soggettivo- – 5. Il modello organizzativo. – 5.1. Il modello organizzativo nel gruppo di società. – 5.2.I modelli organizzativi adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle “associazioni rappresentative degli enti” e il valore giuridico della “comunicazione al Ministero”. – 6. L’organismo di vigilanza del modello organizzativo. – 6. 1. L’organismo di vigilanza nel gruppo di società. – 7. Le sanzioni interdittive. Cenni.

 

     1. Premessa
     Il d.lgs. 8 giugno 2001, n.231 recante “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica” (1) può ritenersi “effetto” principalmente di due fattori causali che imponevano nell’ordinamento giuridico italiano l’introduzione di una responsabilità, espressamente definita “amministrativa” (2), in capo agli enti per reati imputabili ai propri prestatori di lavoro (3).
     Il primo fattore causale si rinviene nell’esigenza di rendere omogeneo il sistema sanzionatorio nei diversi Stati membri dell’Unione Europea. In molti Stati europei, infatti, è già presente una forma di responsabilità “amministrativa” in capo agli enti legata alla commissione di reati da parte dei prestatori di lavoro degli enti medesimi; anzi taluni ordinamenti hanno preferito ricorrere ad una impostazione più severa, prevedendo in capo agli enti una vera e propria responsabilità penale. Al riguardo e senza entrare nel merito di una tematica che esulerebbe dai confini della presente indagine, si pensi al nuovo codice penale francese, entrato in vigore con la legge 19 luglio 1993, n. 913 che riconosce la responsabilità penale alle persone giuridiche per i reati commessi, per loro conto, da parte dei loro organi o rappresentanti.
     Dall’altro lato, e soprattutto, è constatazione ovvia ma non inutile che i reati finanziari di maggior rilievo vengono perpetrati non già dal singolo individuo, sibbene da collettività organizzate e strutturate, spesso in forma societaria. Insomma, si potrebbe dire, che l’impresa illecita , secondo l’id quod plerumque accidit, è gestita in forma collettiva.
     A questo riguardo occorre però puntualizzare che la novella introdotta dal d.lgs. n. 231 del 2001 si situa su un versante che non è precisamente quello dell’impresa in sé illecita, quale si insegnava essere- e come ipotesi meramente di scuola- ad esempio la società per azioni il cui oggetto sociale ricomprende il traffico di schiavi o la commercializzazione di armi, ma dell’ impresa “sostanzialmente sana” la cui fisiologica vocazione al profitto importa quale effetto talune patologie dell’agire che si concretano nella consumazione di reati, ad esempio, contro la pubblica amministrazione. Il pensiero corre ovviamente ai fenomeni di corruzione e concussione balzati agli onori della cronaca in questi ultimi dieci anni.
     D’altra parte reati non vengono commessi solo per “politica aziendale”.
     È invero innegabile come la complessità dell’agire imprenditoriale nelle imprese di notevoli dimensioni si traduca nella consumazione di reati a cagione dell’adozione di modelli organizzativi e/o di controllo inefficienti e/o inidonei alla natura e alla dimensione dell’impresa.

     2. Contiguità con il sistema penale della responsabilità “amministrativa” degli enti
     Quanto alla natura giuridica della responsabilità prevista dal d. lgs. n. 231 del 2001, è qui sufficiente osservare, stando alla relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001 (di seguito anche solo “la Relazione”), che l’ostacolo che si frapponeva al riconoscimento della responsabilità penale della persona giuridica, e cioè come è noto l’art.27 della cost., sembrerebbe sia stato in qualche modo “riletto” nel senso di abbandonare una concezione “psicologica” della colpevolezza a favore di una concetto di colpevolezza inteso come “rimproverabilità”. Come “rimproverabilità” la colpevolezza diventerebbe allora riferibile anche agli enti (4).
     Si tratta di considerazioni che sembrano di una qualche utilità giacchè è sì vero che il legislatore ha optato per una responsabilità definita “amministrativa” degli enti, ma è altrettanto vero che si tratta, per sua esplicita ammissione, di una responsabilità che diverge in molti punti dall’illecito amministrativo di cui alla l.n. 689 del 1981 e vicina alla responsabilità penale, essendo una responsabilità «conseguente da reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale» (così la relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001).
     Sulla scorta di tali motivazioni la stessa Relazione conclude, coerentemente, che la responsabilità di cui qui si discorre è insomma un “tertium genus” tra la responsabilità penale e quella amministrativa.
     Ciò nondimeno la ricordata vicinanza con il sistema processuale penale, contiguità che si evince ad esempio dall’art. 34 del d.lgs. n. 231 del 2001 il quale stabilisce che «Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato....si osservano ...in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale …», comporta l’applicazione delle garanzie tipiche di tale processo e in particolare dell’ art. 111 della Costituzione.

     3. L’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001
     Il d. lgs. n. 231 del 2001, dopo aver individuato nella «responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato» il proprio oggetto (art. 1, co.1), individua così i soggetti che soggiacciono a detta responsabilità:«enti forniti di personalità giuridica e … società e associazioni anche prive di personalità giuridica» con esclusione dello «Stato … enti pubblici territoriali..altri enti pubblici non economici...enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale» (art.1, co. 2 e 3).
     Il tenore letterale della norma poc’anzi citata pone, fra l’altro, il dubbio circa l’applicabilità del d.lgs. n. 231 del 2001 ai consorzi, anche se la soluzione negativa si lascia preferire in considerazione della struttura peculiare dei consorzi medesimi (5).
     Si segnala infine che il legislatore delegato ha ritenuto opportuno non conformarsi alla legge n. 300/2000 che delegava il governo a prevedere la responsabilità amministrativa anche di «enti privi di personalità giuridica» (art.11, co. 1) essendosi preferito «indirizzare l’interprete verso la considerazione di enti che, seppur sprovvisti di personalità giuridica, possano comunque ottenerla» (6).

     4. Presupposti per l’imputazione della responsabilità “amministrativa”
     La responsabilità amministrativa degli enti summenzionati ricorre al verificarsi di tre presupposti: due oggettivi e uno soggettivo “alternativo”.

     4.1. Presupposti oggettivi
     In primo luogo il reato deve essere commesso nell’ “interesse” dell’ ente o a suo “vantaggio”(art.5, co.1).
     La formulazione del citato art. 5, co. 1, in ragione della preposizione disgiuntiva “o”, prima facie sembrerebbe consentire di ritenere gli enti responsabili vuoi quando si rechi un beneficio all’ente, pur non avendo agito a tal fine, vuoi quando, pur avendo agito a tal fine, non si sia recato un beneficio all’ente;il d.lgs. n. 231 del 2001 aggiunge tuttavia che «l’ente non risponde se le persone … hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi»(art.5,co. 2). Le due disposizioni non sono dunque di facile coordinamento.
     Si potrebbe infatti ritenere che “vantaggio” sia utilizzato come sinonimo d’interesse, secondo l’interpretazione privilegiata dalla relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001.Se così fosse, l’ente che trae un “vantaggio” da un reato che però non sia stato commesso per perseguire l’interesse dell’ente stesso, non potrebbe essere sanzionato ai sensi e per gli effetti del d.lgs. n. 231 del 2001.
     Tale interpretazione tuttavia postula una forzatura del tenore letterale dell’art.5 co. 1. Del resto, che una “forzatura” ricorra appare evidente anche dalla lettura della Relazione: essa in palese contraddizione con la propria interpretazione, successivamente afferma che i due termini, “vantaggio” e “interesse”, sono diversi.
     Dall’altro lato si potrebbe ritenere che «l’ente non risponde se le persone hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi» (fin qui la disposizione del co.2 dell’art. 5) purchè concorra un’ulteriore condizione: che dalla commissione del reato l’ente non abbia ricavato alcun “vantaggio”, neppure indiretto.
     Ma allora, ove si volesse accedere a tale ultima tesi, la disposizione del co.2 dell’art. 5 sarebbe sostanzialmente pleonastica perché volgendola in positivo starebbe a dire: la responsabilità degli enti sussiste anche qualora il reato sia stato commesso nel duplice interesse, quello specifico del reo e quello dell’ente.
     Alla luce delle considerazioni svolte sembra più aderente al sistema delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001 la prima delle indicate tesi, seppure con la precisazione che grava sull’ente stesso l’onere di provare che coloro che hanno commesso il reato hanno agito nel proprio esclusivo interesse (o nell’interesse di terzi).
     Del resto, opinando diversamente , opinando cioè che l’ente debba rispondere sempre e comunque del reato commesso dal proprio prestatore di lavoro purchè ne abbia avuto in qualche modo un vantaggio , si corre il rischio di pervenire a discutibili soluzioni concrete.
     Valga il seguente esempio.
     L’impiegato di una società che fabbrica e vende piastrelle corrompe un pubblico funzionario per ottenere l’edificabilità di un terreno al solo fine di costruirvi una villa.
     Ottenuta l’edificabilità e volendo iniziare i lavori per la pavimentazione della villa, l’impiegato acquista un notevole quantitativo di piastrelle dalla società presso la quale lavora.
     Orbene, è evidente, da un lato che la società di cui si discorre ha tratta un vantaggio dal reato commesso dal proprio impiegato: se egli non avesse ottenuto l’edificabilità non avrebbe acquistato le piastrelle; dall’altro lato l’impiegato ha «agito nell’interesse esclusivo proprio …».
     Pure è evidente, però, che se dovesse farsi carico agli enti di sopportare le conseguenze palesemente imponderabili di un siffatto “rischio reato”, si finirebbe per penalizzarne l’agire al di là di ogni ragionevole limite.
     D’altra parte, per evitare facili elusioni del d.lgs. n. 231 del 2001, si pone in capo agli enti l’onere di provare che il “prestatore di lavoro-reo” ha agito nell ’interesse esclusivo proprio o di terzi.
     Quanto al secondo presupposto oggettivo, occorre che il reato sia stato commesso:
     «a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
      b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)» (art. 5, comma 1).
     Si distingue dunque fra soggetti in posizione “apicale” (quelli sub a) e soggetti in posizione “subordinata” (quelli sub b) e, come si dirà più avanti,la distinzione comporta conseguenze di notevole momento in punto di esonero dell’ente dalla responsabilità amministrativa.
     Quanto ai soggetti in posizione apicale due sembrano i profili di maggior rilievo.
     Anzitutto il d.lgs. n. 231 del 2001 si riferisce a soggetti che svolgono “di fatto” cumulativamente la funzione gestoria e quella di controllo.
     Se, come sembra, qui il termine “controllo” è da intendere con riferimento agli assetti proprietari e non con riferimento alla funzione di vigilanza, allora si deve ritenere che si tratti di soggetti che esercitano un forte dominio sull’ ente (7). Si pensi ad esempio al cd. “socio tiranno”.
     In secondo luogo la rilevanza dei soggetti che rivestono una posizione “apicale” in «una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale».
     Il legislatore, stando alla relazione illustrativa, aveva in mente il fenomeno dei direttori di stabilimento.
     Sul punto la Relazione altro non dice, sicchè i contorni di questa “unità” restano piuttosto indefiniti.
     Problemi maggiori suscitano poi l’ applicazione della disposizione in commento alle imprese non industriali per le quali la relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001 non è di nessun ausilio.
     Peraltro, con riferimento alle banche sembra difficile negare che anche i massimi vertici delle “succursali” e degli “sportelli” debbano ritenersi “apicali” ai sensi e per gli effetti del d.lgs. 231 del 2001.
     Quanto ai soggetti in posizione “subordinata” è a dirsi che essi sono coloro che sono sottoposti «alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lett.a» (art.5, lett.b): “subordinati” ai sensi e per gli effetti del d.lgs. n. 231 del 2001 sono allora tutti coloro che non sono “apicali” secondo lo stesso d.lgs. n. 231 del 2001 (8).

     4.2. Presupposto soggettivo
     La ricorrenza dei ricordati presupposti oggettivi non è ancora sufficiente per attribuire all’ente la responsabilità amministrativa.
     Occorre ulteriormente- ed è il presupposto soggettivo “alternativo”- o che il reato sia espressione della politica aziendale, quando a commetterlo siano soggetti in posizione “apicale” ed in questo caso sarà l’ente che dovrà dimostrare, nei modi che ora vedremo, che il reato non è espressione della politica aziendale.
     Ovvero occorre che il reato, quando a commetterlo siano soggetti in posizione subordinata, sia l’effetto di una negligenza organizzativa, ed in questo caso l’onere di provare che il reato è l’effetto di una negligenza organizzativa graverà su chi vuole far valere la responsabilità dell’ente.
     È il legislatore a stabilire in che cosa consiste la prova che deve dare l’ente per esimersi dalla responsabilità amministrativa quando sono commessi reati nel suo interesse o a proprio vantaggio da soggetti in posizione “apicale”.
     Ai sensi dell’ art.6 infatti l’ ente non risponde solo se concorrono tutte le seguenti condizioni:
     «a)l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
      b) il compito di vigilare sul funzionamento e sull’ osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri d’iniziativa e di controllo;
      c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’ organismo di cui alla lettera b».
     Occorre in proposito rilevare un difetto logico della formula della norma, che suscita perplessità in punto di applicazione della stessa.
     La citata lettera a) dell’art. 6 richiede infatti che l’organo dirigente, oltre ad aver adottato il modello organizzativo, lo abbia anche «efficacemente attuato».
     Orbene, sembra evidente che se l’ente viene chiamato a rispondere del reato commesso dal soggetto in posizione apicale, il modello organizzativo non è stato «efficacemente attuato», dovendosi ritenere “efficace” solo il modello organizzativo che in concreto riesca a prevenire i reati.
     Pertanto, a meno di non voler giungere alla paradossale conclusione che la commissione del reato, ponendo in evidenza l’inefficacia del modello organizzativo, non consentirebbe mai all’ente di esimersi dalla responsabilità ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, si deve ritenere che la lettera a) della norma in commento vada letta insieme alla lettera c), con la conseguenza che il modello organizzativo sarà efficacemente attuato ogni volta che per la sua elusione occorra un comportamento fraudolento.
     È allora necessario che il soggetto apicale non possa addurre a giustificazione della propria condotta, ad esempio, la macchinosità e la conseguente scarsa comprensibilità del modello, o che comunque non sia sufficiente il comportamento colposo (negligenza o imperizia) a determinare l’elusione del modello organizzativo ma occorra invece l’intenzionalità di aggirare detto modello.In proposito la relazione illustrativa al d.lgs. n. 213 del 2001 fa riferimento all’apice c.d. “infedele” inteso come colui che «agisce contro l’interesse dell’ente al suo corretto funzionamento».

     5. Il modello organizzativo
     Quindi, fra le condizioni necessarie per ritenere l’ente “non responsabile” ai sensi e per gli effetti del d.lgs n. 231 del 2001, particolare attenzione merita quella dell’adozione ed efficace attuazione «prima della commissione del fatto» di un modello organizzativo che sia idoneo a prevenire reati «della specie di quello verificatosi» (9).
     A mente dell’art. 6, co. 1, il soggetto deputato all’adozione di tale modello organizzativo è “l’organo dirigente”, sicchè il riferimento pare essere al massimo vertice dell’ente, cioè a quell’organo al quale sono demandate le scelte strategiche dell’ente.In questo senso l’utilizzo del termine “dirigente” si spiega per la necessità di ricomprendere nell’ambito di applicazione del citato art. 6, co. 1, i “diversi” organi preposti alla direzione dei “diversi” enti.
     Con riferimento alle società tale organo pare allora potersi identificare nel consiglio di amministrazione, anche se non sembrano vi siano ostacoli a ritenere che l’adozione del modello organizzativo possa essere delegata al comitato esecutivo o anche dei membri del consiglio di amministrazione.In tal caso resta comunque ferma la responsabilità del consiglio di amministrazione come organo collegiale, in ragione dell’ obbligo di vigilare «sul generale andamento della gestione» (art.2392, co. 2, cod. civ.).

     5.1. Il modello organizzativo nel gruppo di società
     Questioni complesse e di notevole rilievo operativo si pongono per l’elaborazione di un modello organizzativo in presenza di un gruppo di società (10).
     Per ragioni di coerenza organizzativa è naturale che la società capogruppo tenda a predisporre un modello omogeneo che sia di generale adozione da parte delle società che fanno parte del gruppo.Tuttavia, per fungere da condizione per la “non responsabilità” dell’ ente, il modello organizzativo deve essere strutturato con riferimento alle peculiarità della singola società che dovrà applicarlo.
     Qualora si opinasse diversamente si andrebbe incontro a due inconvenienti.
     Un primo inconveniente è quello che di fronte ad un modello “tipo” di gruppo potrebbero sollevarsi dubbi circa l’idoneità di questo a prevenire reati di tutte le società controllate. È l’inconveniente cui si è fatto cenno poc’anzi: il rischio cioè che il modello organizzativo non funga, perché ritenuto “non idoneo” dall’autorità giudiziaria, da condizione per la “non responsabilità” dell’ente.5.2 I modelli organizzativi adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle «associazioni rappresentative degli enti» e il valore giuridico della «comunicazione al Ministero».
     I modelli di organizzazione e di gestione di cui si discorre possono essere adottati «sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati» (art.6, co. 3).
     La disposizione non è di immediata comprensione.
     Non è chiaro che quali siano in concreto le «associazioni rappresentative degli enti». Si tratta solo delle associazioni c.d. “di categoria”? In caso di risposta affermativa si aprirebbe l’interrogativo circa la portata da attribuire al termine “categoria” riferito alla fattispecie di cui si discorre.
     Si può immaginare che possano sorgere associazioni ad hoc alle quali gli associati diano mandato di elaborare codici di comportamento per le finalità di cui al citato art.6, co. 3.
     Se, come sembra, la ratio legis dell’art. 6. co. 3 è quella di agevolare l’elaborazione di un modello organizzativo, elaborazione complessa e onerosa per il singolo ente massime in sede di prima applicazione di un provvedimento in qualche modo “rivoluzionario” qual è il d. lgs. n. 231 del 2001, se dunque la finalità di “orientare” gli enti è stata quella che ha ispirato il legislatore , si deve ritenere che qualsivoglia associazione che abbia un “congruo” grado di rappresentatività (11) sia ricompresa nell’ambito di applicazione della disposizione in esame.
     Ma i dubbi di maggior rilievo sono quelli relativi al valore giuridico da attribuire alla comunicazione al Ministero della giustizia dei codici di comportamento elaborati dalle associazioni rappresentative degli enti.
     In particolare qual è il valore giuridico di una risposta “senza osservazioni” da parte del Ministero della giustizia?
     Secondo l’opinione comune in sede di procedimento penale il giudice potrebbe sempre e comunque valutare il modello organizzativo come “non idoneo” a prevenire reati della specie di quello verificatosi, quand’ anche il modello organizzativo sia stato redatto con l’osservanza dei codici di comportamento “approvati” dal Ministero.Tale soluzione sarebbe infatti diretta conseguenza dell’applicazione del principio secondo il quale il giudice è libero nel fondare il proprio convincimento.
     Al riguardo si può notare che se è vero che il giudice è libero nel fondare il proprio convincimento non è men vero, da un lato che la libertà di giudizio non si traduce in arbitrio e, dall’altro, che se dovesse seguirsi la ricordata opinione comune si dovrebbe ritenere giuridicamente “inutile” la norma che consente alle associazioni di categoria di elaborare codici di comportamento da sottoporre al Ministero della giustizia.
     Una soluzione interpretativa potrebbe allora essere quella di ritenere che i modelli “approvati” dal Ministero siano presuntivamente “idonei” salvo l’onere della prova contraria, onere che però, a questo punto, andrebbe ribaltato sul pubblico ministero.
     Un’altra soluzione per dare significato all’art. 6, co. 3 potrebbe essere quella di ritenere che la possibilità di inviare al Ministero il modello organizzativo e la possibilità di questo di formulare osservazioni abbiano la funzione di rendere omogenei i modelli organizzativi per “tipi” di enti.
     Per questa via, insomma, si confermerebbe quella finalità di “orientare” che, come si è detto, sembra essere la ratio legis dell’art.6, co.3., restando allora esclusa la possibilità di invertire l’onere della prova, possibilità alla quale conduceva la prima delle indicate soluzioni.

     6. L’organismo di vigilanza sull’osservanza del modello organizzativo
     Il funzionamento del modello e la sua osservanza devono essere vigilati da «un organismo dell’ente» al quale è altresì affidato il compito di aggiornare il modello, aggiornamento che si rende necessario non solo quando mutino le fattispecie criminose rilevanti ai fini del d.lgs. n. 231 del 2001, ma anche ogni volta che, nonostante l’adozione e l’attuazione del modello, i reati che dovevano prevenirsi sono stati commessi (art.6 lett. b).
     L’individuazione dell’organismo di cui si è detto, le funzioni di tale organismo e la sua disciplina rappresentano senza dubbio problemi interpretativi di notevole difficoltà.
     Secondo le indicazioni, piuttosto scarse per la verità, della Relazione, dovrebbe trattarsi di una struttura “interna” all’ente «onde evitare facili manovre volte a precostituire una patente di legittimità all’operato della società attraverso il ricorso ad organismi compiacenti» (primo argomento), «e soprattutto di fondare una vera e propria colpa dell’ente» (secondo argomento).
     Il primo argomento non pare del tutto convincente.
     Invero manovre volte a precostituire una patente di legittimità all’operato dell’ ente possono attuarsi anche ricorrendo a strutture interne; anzi, la circostanza che la funzione di vigilanza venga assegnata ad un organismo “interno” all’ente, nonostante il legislatore richieda che l’organismo sia dotato di «autonomi poteri d’iniziativa e di controllo», ne menoma maggiormente l’indipendenza. Tale organismo sarà infatti posto alle dipendenze gerarchiche dell’imprenditore dandosi così vita ad un legame più intenso rispetto a quanto normalmente si verificherebbe affidando la funzione di vigilanza ad un organismo “esterno” all’ente.
     Ciò posto sembra possibile delineare la seguente alternativa:
o si ritiene, contrariamente all’opinione comune e in dispregio della Relazione, che il menzionato organismo di vigilanza possa essere anche “esterno” all’ente, oppure si rinviene altrove la ratio per la quale l’organismo di vigilanza deve essere interno.
     In effetti, argomenti a favore della configurazione dell’organismo di vigilanza come organo “interno” all’ente del quale deve vigilare il modello (o i modelli) organizzativi, sembrano potersi trarre per un verso dalla necessità, fatta propria anche dalla Relazione illustrativa (il secondo argomento), di fondare una colpa organizzativa dell’ente, dunque di imputare all’ente imperizia o negligenza nella vigilanza del modello organizzativo.
     Per altro verso, si deve rilevare che un organismo interno meglio si presta ad assolvere con continuità la funzione di vigilanza sul funzionamento e sull’osservanza del modello organizzativo.
     Inoltre, anche l’esigenza di un puntuale aggiornamento del modello sembra poter essere più agevolmente soddisfatta se il soggetto a ciò deputato sia in grado di conoscere dall’“interno” le diverse problematiche che di volta in volta potrebbero favorire la commissione di reati.
     Infine, anche il tenore letterale della lettera b dell’art.6, facendo espresso riferimento ad un organismo “dell’ente”, porta a concludere che si tratti di un organismo interno.
     Se, come si è visto, l’indipendenza dell’organismo di vigilanza non verrebbe meno anche se questo fosse “esterno” all’ente, ma anzi ne risulterebbe rafforzata, nulla osta a che detto organismo si giovi dell’apporto di professionisti “esterni” all’ente, siano esse persone fisiche o siano essi persone giuridiche.
Quanto alla composizione di tale organismo non pare proponibile, in considerazione della funzione ad esso assegnata, una sua identificazione con gli organi societari e segnatamente con il collegio sindacale.
     In quanto soggetti “esterni” l’organismo di vigilanza non potrà identificarsi neanche con le società di revisione anche se le società di revisione, come professionisti appunto “esterni”, potranno comunque farne parte (12).

     6.1. L’organismo di vigilanza nel gruppo di società
     Anche per quanto inerisce l’organismo di vigilanza, così come visto a proposito del modello organizzativo, la presenza di un gruppo pone questioni complesse e rilevanti.
     La società capogruppo, al fine di poter correttamente perseguire l’interesse di gruppo, deve poter svolgere la direzione e il coordinamento delle società controllate anche per quanto riguarda il sistema di prevenzione dei reati.Tale finalità potrebbe essere perseguita mercè un flusso informativo dalle società che fanno parte del gruppo alla società capogruppo, flusso informativo che, sotto il profilo operativo, potrebbe avere come destinatario l’organismo di vigilanza della società capogruppo.
     D’altra parte, però, se l’organismo di vigilanza della società capogruppo svolgesse una penetrante funzione di indirizzo e di coordinamento tale in sostanza da esautorare gli organismi di vigilanza delle singole società che fanno parte del gruppo, tale comportamento potrebbe essere fonte di responsabilità ai sensi e per gli effetti del d. lgs. n. 231 del 2001 per la società capogruppo stessa.
     In ogni caso, in ragione dell’autonomia giuridica delle singole società, che pure continua a sussistere nonostante l’appartenenza al gruppo, appare preferibile ritenere che un organismo di vigilanza debba essere adottato in ciascuna di esse.

     7. Le sanzioni interdittive. Cenni
     Fra i deterrenti pensati dal legislatore per dissuadere l’ente dal commettere reati figurano le sanzioni c.d. “interdittive” e cioè:
     «a)l’interdizione dall’esercizio dell’attività;
     b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
     c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
     d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
     e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi» (art. 9, co. 2).
     Come è ovvio si tratta di sanzioni che comportano menomazioni gravi dello svolgimento dell’attività d’impresa e che pertanto costituiscono un forte deterrente alla commissioni di reati.
     Invero è ben noto che la sanzione pecuniaria è preventivata ed annoverata fra i rischi, quando non fra i costi, dell’impresa ed è altresì ben noto che appunto per questo talvolta la commissione di reati finisce per essere momento della strategia aziendale.
     Le sanzioni interdittive vengono comminate nei casi più gravi (art.13) e, ciò che qui assume notevole rilievo, «hanno ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce l’illecito dell’ente» (art. 14).
     Le sanzioni interdittive, dunque, colpiscono non la totalità delle attività facenti capo all’ ente giudicato responsabile, bensì solo quella attività specificamente interessata dalla commissione del reato.
     Sicché «solo quando l’illecito costituisce espressione di una generale propensione al conseguimento di illeciti profitti, ricavabile da prassi criminose ormai consolidate che coinvolgono i vertici dell’ente, sarà inevitabile un’applicazione indivisa della sanzione» (così la relazione illustrativa al d.lgs. n. 231 del 2001).
     La puntualizzazione è di non poco momento- anche se in sostanza resta da decidere che cosa debba intendersi con il termine “attività”, e sul punto la relazione non offre alcun ausilio- se si pensa alla attuale realtà degli enti lucrativi ormai tipicamente impegnati su una varietà di attività sovente assai distanti fra loro: È il fenomeno dell’ articolazione dell’ iniziativa economica giuridicamente imputata ad un unico soggetto.
     Si tratta poi di puntualizzazione importante per la sorte delle sanzioni interdittive che devono applicarsi agli enti soggetti a vicende modificative (13).

 

 

       * Il presente lavoro è destinato alla pubblicazione su Diritto della banca e del diritto finanziario.

 

NOTE

     (1) Con la legge n. 300 del 2000 lo Stato italiano ha ratificato ed eseguito alcuni Atti internazionali elaborati in base all’art. K3 del Trattato dell’ Unione Europea e relativi alla lotta alla corruzione di membri degli organi e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri.
     Nell’ambito della stessa legge l’art.11 ha attribuito delega al governo per l’emanazione di un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, di associazioni o enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
     In attuazione della menzionata delega, è stato emanato il d.lgs n. 231 del 2001.

     (2) Così il legislatore qualifica la responsabilità prevista in capo alle persone giuridiche, società e associazioni (di seguito “enti”) dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e a tale qualifica, per semplicità di esposizione, ci si atterrà nel corso del presente lavoro. Quanto poi il nomen corrisponda alla sostanza del fenomeno giuridico che ci occupa è tema sul quale si dirà più oltre.

     (3) Con la locuzione “prestatori di lavoro” si intende far riferimento, nel corso del presente lavoro, a tutti coloro che a qualunque titolo offrono prestazioni di lavoro all’ente, compresi coloro che svolgono funzioni di amministrazione, direzione, controllo.

     (4) È questa, come ricordato nel testo, l’interpretazione privilegiata dalla Relazione illustrativa al d. lgs. n. 231 del 2001 .
     Il punto merita qualche chiarimento.
     Se la responsabilità prevista dal d. lgs. n. 231 del 2001 fosse una responsabilità pienamente “penale” allora si dovrebbe concludere che l’interpretazione poc’anzi ricordata finisce per “seppellire” il ricordato principio costituzionale della “personalità” della responsabilità penale.
     In tal senso non è allora priva di utilità la qualificazione in termini di “tertiun genus” operata dalla stessa Relazione con riferimento alla natura giuridica della responsabilità prevista dal d. lgs. n. 231 del 2001, una qualificazione questa, che sembra proprio voler chiarire la vicinanza, ma al tempo stesso la “non identificazione” della responsabilità di cui si discorre con la responsabilità penale.
     Per la necessità di continuare a mantener fermo il principio della “personalità” della responsabilità penale e per l’incompatibilità con tale principio di una «responsabilità penale autentica degli enti» cfr. M. ROMANO, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni, in Riv. soc. 2001, pp. 400-403 e spec. p. 402.

     (5) L’argomento si rinviene in M. BUSSOLETTI, Il procedimento sanzionatorio e “le vicende modificative dell’ente” nella legge sulla responsabilità amministrativa degli enti collettivi”, di prossima pubblicazione in Riv.dir.comm., I, 2002, ivi ulteriori riflessioni sull’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001. Dello stesso avviso M. ROBERTI, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni prive di personalità giuridica e le vicende modificative, in Le nuove leggi civ. comm., 2001, p. 1133 la quale, seguendo l’argomento addotto da BUSSOLETTI, op. loc. ult. cit. ritiene che il principio di legalità fissato dall’art. 2 del d. lgs. n. 231 del 2001 «esclude che possano ritenersi compresi tra gli enti destinatari della normativa soggetti giuridici ontologicamente diversi (come le fondazioni e i consorzi) da quelli elencati». Contra L. DE ANGELIS, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente (trasformazione, fusione, scissione, cessione d’azienda), in Società, 2001, p. 1326.
     La questione, evidentemente di notevole interesse pratico, potrebbe essere nominalistica.
     Il termine “associazione”, infatti, è talvolta utilizzato anche oltre l’ambito di cui all’art. 36 cod. civ., per indicare in generale i contratti associativi. Se dunque il termine “ associazione” di cui al citato art.1 del d. lgs. n. 231 del 2001 s’interpretasse secondo l’accezione “lata” appena ricordata anche i consorzi rientrerebbero nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001.
     La ricordata vicinanza al sistema penale induce tuttavia a ritenere di stretta interpretazione il citato art.1 del d. lgs.n. 231 del 2001 con la conseguenza che il riferimento alle associazioni ivi contenuto va inteso come riferimento alle associazioni di cui all’art. 36 cod. civ., con esclusione dunque dei consorzi dall’ambito di applicazione del d. lgs. n. 231 del 2001.
     Altra questione è poi quella dell’individuazione “effettiva” della natura dell’ente a prescindere cioè dal nomen iuris. In proposito si ricordi che la Suprema Corte ha di recente ritenuto che un’associazione di produttori ortofrutticoli costituita al fine di migliorare le condizioni di esercizio dell’attività di vendita sia un consorzio e non ha pertanto applicato le norme dettate per le associazioni (cf. Cass., sez. I, 11 settembre 1997, n. 8963 citata da M.ROBERTI, op.cit., p. 1133, nt. 19).

     (6) Così la relazione illustrativa al d. lgs. n. 231 del 2001.

     (7) In questo senso si esprime pure la relazione illustrativa al d. lgs. n. 231 del 2001.

     (8) In questa ottica “subordinati” ai sensi e per gli effetti del d. lgs n. 231 del 2001 dovrebbero essere anche quei prestatori di lavoro che non sono formalmente “dipendenti” ma che però siano comunque sottoposti alla vigilanza degli “apicali” : è il caso ad esempio degli agenti, di coloro che hanno una collaborazione coordinata e continuativa e più in generale dei soggetti cod. civ. “parasubordinati”.

     (9) Nota in proposito G.CABRAS, La responsabilità per l’amministrazione delle società di capitali, Torino, 2002, p.153 che con l’entrata in vigore del d. lgs. n. 231 del 2001 e segnatamente con l’adozione del modello organizzativo quale condizione di esonero dell’ente per i reati commessi nel suo interesse da soggetti in posizione apicale, «il valore della procedimentalizzazione nella gestione delle imprese deve ritenersi ormai un dato acquisito nel nostro ordinamento giuridico».

     (10) Il tema, a quanto consta, non risulta ancora indagato dalla dottrina.

     (11) Non è evidentemente possibile individuare puntualmente in base a quale numero o altro parametro concreto, consentire o meno alle “associazioni rappresentative di enti” di elaborare codici di comportamento da comunicare al Ministero della giustizia ai sensi e per gli effetti dell’art.6, co. 3 del d. lgs. n. 231 del 2001.
     Senza dubbio si può ritenere che le associazioni in questione debbano avere un “congruo” grado di rappresentatività con esclusione di quelle associazioni che rappresentino, ad esempio, una decina di enti di scarso impatto economico e sociale.

     (12) Sul problema della indipendenza del revisore si veda da ultimo M. BUSSOLETTI, L’indipendenza del revisore nella revisione volontaria (e in quella obbligatoria), in Riv.soc., 2002, p. 863 e ss.

     (13) Su questi problemi si sofferma diffusamente M.BUSSOLETTI, Il procedimento sanzionatorio etc., passim.
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