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settembre 2002

Materiali

CONSIGLIO DI STATO – Parere 1° luglio 2002, n. 1354/2002 – De Lise Presidente – Carbone Estensore – Schema di regolamento ai sensi dell’articolo 11, comma 14, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, in materia di disciplina delle fondazioni bancarie


(Omissis)
     PREMESSO:
     L’art. 11 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per l’anno 2002, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 285 del 28 dicembre 2001) ha modificato il decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153, di disciplina delle fondazioni bancarie. Il comma 14 di tale articolo dispone che «l’Autorità di vigilanza detta, con regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, le disposizioni attuative delle norme introdotte dal presente articolo, anche al fine di coordinarle con le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 153 del 1999».
     Con una prima relazione prot. n. ACG/22/DGT/15522, trasmessa con nota del 18 aprile 2002, il Ministero dell’economia e delle finanze ha richiesto il parere del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento ministeriale in questione.
     Prima dello svolgimento dell’adunanza della Sezione per la quale era stato fissato l’esame dell’affare, il Ministero ha inviato una nota (prot. n. 1815/R del 6 maggio 2002) con la quale ha chiesto di «rinviare la deliberazione del parere in quanto questa Amministrazione sta predisponendo un nuovo testo del provvedimento contenente alcune modifiche di natura sostanziale».
     Tale nuovo testo è stato inviato con nota prot. n. ACG/22/DGT/19553 del 14 giugno 2002, pervenuta a questo Consiglio di Stato in data 18 giugno. Il Ministero ha, poi, trasmesso copia della nota del 14 maggio 2002 a firma del Governatore della Banca d’Italia, concernente lo schema in parola.
     Nelle more è entrata in vigore la legge 15 giugno 2002, n. 112, di conversione del decreto legge 15 aprile 2002, n. 63 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 139 del 15 giugno 2002), che ha inserito nel testo dell’art. 5, comma 1, del decreto legge una disposizione di interpretazione autentica della legge n. 448 e del decreto legislativo n. 153.
     L’affare è stato quindi trattato dalla Sezione, esaminando unicamente il nuovo testo inviato, nell’adunanza del 1° luglio 2002 ed in questa medesima adunanza è stato licenziato.

     CONSIDERATO:
     I.1 – Il parere in oggetto va espresso sullo schema di regolamento ministeriale, ex art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con il quale si dà attuazione alle modifiche alla disciplina delle fondazioni bancarie di cui al decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153 apportate dalla recente legge 28 dicembre 2001, n. 448.
     Appare opportuno ricordare, in via preliminare, come il sindacato del Consiglio di Stato, nella sede consultiva su atti normativi del Governo, non può estendersi alle scelte operate dalla normativa di rango legislativo, la quale non può essere qui messa in discussione neppure riguardo alla sua legittimità costituzionale.
     Ciò appare coerente con le nuove funzioni consultive di questo Istituto disegnate dalla legge n. 127 del 15 maggio 1997, che ha profondamente modificato il baricentro dell’attività consultiva non finalizzata all’esame dei ricorsi straordinari al Capo dello Stato. La soppressione (ad opera dell’art. 17, commi 25 e 26, della legge n. 127 del 1997) dell’attività consultiva obbligatoria sui singoli contratti delle pubbliche amministrazioni statali e la contestuale creazione di un’apposita Sezione del Consiglio di Stato esclusivamente dedicata all’attività consultiva sugli atti normativi del Governo (ex art. 17, comma 28, della stessa legge) segnano, difatti, una ridefinizione delle funzioni «di consulenza giuridico-amministrativa» di questo Consiglio previste dall’art. 100, primo comma, della Costituzione, dal sostegno all’attività di mera gestione dell’amministrazione pubblica al ruolo di organo ausiliario nell’attività di regolazione, soprattutto secondaria. Tale nuovo ruolo è confermato, tra l’altro, dalla possibilità (peraltro già presente nel t.u. 26 giugno 1924, n. 1054, all’art. 14, secondo comma) di demandare direttamente al Consiglio di Stato la redazione degli schemi di testi unici di leggi e regolamenti ai sensi dell’art. 7, comma 5, della legge n. 50 dell’8 marzo 1999 e dalla previsione, per legge, del suo parere su decreti legislativi di «codificazione», come disposto, da ultimo, dall’art. 10, comma 3, della legge 6 luglio 2002, n. 137 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 158 dell’8 luglio 2002).
     Più in generale, il suddetto mutamento appare coerente con il nuovo ruolo che i Consigli di Stato dei paesi occidentali stanno assumendo nel processo di miglioramento della «qualità della regolazione», non soltanto sotto i profili di mera legittimità formale ma anche con il ricorso a strumenti moderni e innovativi come l’analisi di impatto della regolamentazione (AIR), processo fortemente incoraggiato anche da autorevoli organizzazioni internazionali come l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE).
     Le funzioni consultive del Consiglio di Stato in materia di regolamentazione acquisiscono, poi, una nuova valenza nel contesto istituzionale conseguente alla riforma del Titolo V della Parte Il della Costituzione della Repubblica, avvenuta con legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, anche in considerazione dell’avvertita esigenza di un sostegno tecnico, in posizione di indipendenza e in grado di favorire la necessaria coerenza del sistema, anche per le nuove funzioni normative delle Regioni in rapporto a quelle dello Stato.

     I.2 – Con riguardo alla materia delle fondazioni bancarie, non possono assumere rilievo in questa sede consultiva sull’attività normativa secondaria né le questioni di legittimità costituzionale che sono state sollevate in relazione al decreto legislativo n. 153 del 1999 né quelle sollevate in relazione alla legge n. 448 del 2001. Le prime riguardano, in particolare, gli artt. 4, comma 1, lett. g), e 10, comma 3, lett. e), del decreto legislativo n. 153 nel testo precedente alle modifiche della legge n. 448 e sono contenute nell’ordinanza del TAR del Lazio n. 1196 del 22 febbraio 2002, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 29 maggio 2002, n. 21. Le seconde rientrano nei ricorsi avverso la legge n. 448 del 2001 presentati alla Corte Costituzionale da alcune Regioni ai sensi dell’art. 127, secondo comma, della Costituzione, come modificato dalla l. cost. n. 3 del 2001.
     L’esame dello schema di regolamento in oggetto va, quindi, condotto sulla base del tessuto legislativo vigente, anche se, in certi casi, esso comporta una indubbia limitazione dell’autonomia statutaria delle fondazioni prevista dal decreto legislativo n. 153, il che ha fatto dubitare della sua compatibilità con il «regime giuridico privatistico», ancorché «speciale», delle fondazioni bancarie e quindi, tra l’altro, con la disciplina costituzionale dell’autonomia privata (art. 41 Cost.), del diritto di associazione dei cittadini (art. 18 Cost.) e degli stessi diritti dell’uomo nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.), oltre che con il principio di ragionevolezza ex art. 3, secondo comma, Cost.

     I.3 – Costituiscono un punto di partenza non discutibile ai fini dell’esame dello schema in oggetto gli elementi della riforma realizzata dall’art. 11 della legge n. 448, di cui il regolamento in esame deve fornire «disposizioni attuative», anche «al fine di coordinarle con le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 153». Appare utile, in questa sede, ricordarne sinteticamente alcune tra le più rilevanti:
     – la limitazione dell’attività delle fondazioni bancarie ai settori «ammessi» (categoria concettuale introdotta dalla legge n. 448) e la trasformazione del ruolo dei settori «rilevanti», in cui le fondazioni «operano in via prevalente», nell’ambito di una programmazione triennale (commi 1, 2 e 3 dell’art. 11 della legge n. 448);
     – la necessità che le fondazioni bancarie operino in «rapporto prevalente con il territorio» (comma 3);
     – la «prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’art. 114 della Costituzione» nell’ambito dell’organo di indirizzo (una disciplina ad hoc è poi dettata per le fondazioni di origine associativa), nel quadro di una «equilibrata, e comunque non maggioritaria, rappresentanza di ciascuno dei singoli soggetti che partecipano alla formazione dell’organo» (comma 4);
     – un nuovo, ampio e incisivo regime di incompatibilità, che si sviluppa in una duplice direzione: il divieto, per i soggetti con il «potere di designare componenti dell’organo di indirizzo» e per «i componenti stessi degli organi delle fondazioni», di «essere portatori di interessi riferibili ai destinatari degli interventi delle fondazioni» (comma 4) e il divieto, per i soggetti che svolgono «funzioni di indirizzo, amministrazione, direzione o controllo presso le fondazioni», di svolgere funzioni analoghe presso la società bancaria conferitaria o «altre società operanti nel settore bancario, finanziario o assicurativo» che non abbiano «limitato rilievo economico o patrimoniale» (comma 7);
     – la espunzione di ogni riferimento legislativo alla nomina per cooptazione (commi 5 e 8);
     – la estensione della definizione di controllo di una società bancaria anche al caso in cui «il controllo è riconducibile, direttamente o indirettamente, a più fondazioni» (comma 10);
     – la previsione che, negli impieghi del patrimonio, si «assicuri il collegamento funzionale … in particolare con lo sviluppo del territorio» (comma 11);
     – la possibilità che la partecipazione nella società bancaria conferitaria sia affidata ad una società di gestione del risparmio (s.g.r.) e la necessità che la scelta delle s.g.r. avvenga «nel rispetto di procedure competitive» (comma 13);
     – l’estensione al Ministro dell’economia e delle finanze e alla Banca d’Italia dei poteri ad essi attribuiti dal t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia (decreto legislativo n. 385 del 1993) e dal t.u. in materia di intermediazione finanziaria (decreto legislativo n. 58 del 1998) (comma 13);
     – l’obbligo per gli statuti delle fondazioni di «adeguare i propri statuti alle disposizioni del presente articolo» (comma 14).

     II.1 – L’assunzione come punto fermo delle innovazioni introdotte, a livello normativo di rango primario, dalla legge n. 448 va accompagnata, ai fini dell’esame del regolamento in oggetto, da altri elementi esegetici esterni a tale legge.
     Alcuni spunti interpretativi di indubbio rilievo ai fini dell’analisi che la Sezione deve condurre possono essere ricavati da elementi del contesto ordinamentale in cui l’art. 11 della l. n. 448 si è calato: difatti, l’articolo in questione non ha integralmente sostituito la normativa precedente con una del tutto nuova e autonoma ma ha apportato modifiche parziali, seppure indubbiamente significative, seguendo la tecnica della novella, al decreto legislativo n. 153. Pertanto, le innovazioni introdotte dalla legge n. 448, anche alla luce dei lavori parlamentari che ne hanno accompagnato l’attuale formulazione, vanno interpretate in una visione «di sistema», in armonia con le parti non modificate del quadro ordinamentale su cui essa è andata ad incidere, tenendo presente, oltre al dettato delle norme del decreto legislativo n. 153 rimaste inalterate, l’intera evoluzione storica della disciplina delle fondazioni bancarie.
Tale quadro ordinamentale è, poi, completato dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione operata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, di cui vanno valutate le conseguenze sulla materia in esame (e, in generale, sul ruolo dell’autonomia privata e delle formazioni sociali nel nostro ordinamento) derivanti, in particolare, dall’introduzione del principio di cd. sussidiarietà orizzontale di cui al nuovo testo dell’art. 118, ultimo comma, Cost.
     Altri elementi esegetici possono trarsi dalla portata del regolamento attuativo in questione, come definita ai sensi del comma 14 dell’art. 11 della legge n. 448 e del comma 3 dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988, a cominciare dalla verifica della stessa esistenza di un fondamento costituzionale dell’esercizio del potere regolamentare dello Stato in questa materia dopo la menzionata riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione.
     Tale lettura sistematica non è fine a sé stessa, ma è funzionale all’emanazione del parere in oggetto. Difatti, essa consente di analizzare compiutamente le parti innovative del regolamento rispetto alla disciplina legislativa, per meglio valutarne la portata effettivamente attuativa o di coordinamento con il tessuto legislativo e, di conseguenza, la coerenza con l’intero impianto della normativa di rango primario.

     II.2.1 – È noto come la vicenda delle fondazioni bancarie abbia origini risalenti, in diretta prosecuzione – con pochissime eccezioni – con quella delle antiche casse di risparmio sorte, in Italia, nei primi decenni del secolo XIX.
Il modello di riferimento, proprio dell’Europa centrale (Germania, Austria, Svizzera) e dell’Inghilterra, era caratterizzato dalla funzione di agevolare e raccogliere il risparmio dei ceti medio-piccoli, inserendoli cosi nell’incipiente processo di sviluppo produttivo, e di sostenere le iniziative locali di questi medesimi ceti, sulla base della concezione del risparmio come «valore-guida». Tale fenomeno, da un lato, comportò effetti fortemente benefici per strati della popolazione venuti a trovarsi in una situazione di degrado dopo le guerre napoleoniche e la conseguente crisi economica, dall’altro dimostrò una capacità di raccogliere flussi di liquidità non posseduta dalle banche commerciali ma indispensabile per la nascente rivoluzione industriale. Di tale duplice ordine di effetti si trova, ancor oggi, traccia nelle finalità di «utilità sociale» e di «promozione dello sviluppo economico» che l’attuale normativa assegna alle fondazioni bancarie.
     In Italia, il fenomeno fu certamente variegato e, in origine, di iniziativa prevalentemente privata. Solo in una minoranza di casi la costituzione delle casse di risparmio è riconducibile ad un iniziativa mista pubblico-privata o all’iniziativa esclusiva di un pubblico potere.
     La dottrina non ha mancato di sottolineare come l’attività delle casse di risparmio fosse diversa sia dall’attività bancaria in senso stretto (la prima fondata su capitali raccolti da iniziali sottoscrittori ma soprattutto accresciuti dal pubblico dei depositanti, attraverso depositi minuti e non certo costituiti per fini speculativi; la seconda con una caratterizzazione marcatamente commerciale, nata su iniziativa di singoli o di gruppi ristretti, appartenenti alle classi più elevate, con impieghi decisamente speculativi) sia dall’attività di assistenza e di beneficenza propriamente detta, consistente nella elargizione di beni indirizzata gratuitamente verso i ceti più umili, mentre nel caso delle casse di risparmio la beneficenza consisteva soprattutto nel fatto di intervenire nel credito, favorendo la formazione e la raccolta del piccolo risparmio popolare e formando una garanzia che altrimenti non sarebbe stata possibile per la conservazione e la remunerazione di quel risparmio.
     In considerazione di tale contesto storico, è stato sottolineato da più parti che il patrimonio accumulato nel corso dei decenni dalle banche pubbliche – e, in occasione della loro trasformazione in società per azioni controllate dalle fondazioni bancarie, attribuito a queste ultime – appartiene, moralmente anche se non giuridicamente, alle collettività dei depositanti-risparmiatori e dei beneficiari del credito, prima ancora e più che agli enti esponenziali delle collettività locali; in altri termini, esso appartiene al «pubblico», intesa l’espressione non in senso strettamente giuridico, ma in senso prevalentemente socio-economico, come patrimonio della collettività nel suo insieme.

     II.2.2 – La successiva trasformazione in senso pubblicistico delle casse di risparmio, a partire dalla legislazione dello stato unitario, è stata efficacemente ricostruita dalla dottrina. Basti qui ricordare che – in un contesto di tradizionale diffidenza della cultura istituzionale dominante verso le istituzioni non lucrative sorte in modo spontaneo dalla società o promosse direttamente o indirettamente dagli ambienti ecclesiastici, contesto cui apparteneva anche la riforma crispina delle Istituzioni di assistenza e beneficenza (IPAB), che aveva assoggettato le cd. opere pie al regime degli enti pubblici – la prima disciplina unitaria del fenomeno (legge 15 luglio 1888, n. 5546) optava per la qualificazione come «enti morali» delle istituzioni in esame.
     Se si confronta la legislazione speciale con il sistema generale disegnato dal codice civile del 1865, tale qualificazione accostava inevitabilmente tali istituzioni (senza, però, necessariamente identificarle) agli enti pubblici. Ciò era confermato dal forte radicamento delle casse di risparmio nella funzione creditizia, funzione sempre più attratta, dopo la crisi di fine ottocento, verso una disciplina di stampo pubblicistico.
     Tale tendenza si accrebbe e si confermò nella legislazione degli anni ’20-’40 del secolo scorso: la legislazione del 1929 per le casse (t.u. 25 aprile 1929, n. 967) e quella degli anni 1936-1938 per le banche realizzarono anche in questo settore una piena presenza pubblica nell’economia, omogeneizzando le diverse e varie realtà che avevano fino ad allora operato nel settore.

     II.2.3 – Accanto a questa tendenza verso una pubblicizzazione per motivi «storico-politici», non si è mancato di individuare elementi più sostanziali di «valenza pubblicistica», che rendono in ogni caso (e in ogni tempo) necessaria una particolare attenzione del legislatore per la materia.
     Tra questi elementi, vi è in primo luogo quello secondo cui il patrimonio delle fondazioni costituisce in qualche modo, come si è detto, «un bene comune che nasce dall’apporto di una moltitudine di persone che, nel tempo, con i loro risparmi e/o con la loro attività finanziata dalle casse hanno consentito agli accorti amministratori di accrescerne la consistenza».
     Sotto un secondo profilo, è stato affermato che un dato non trascurabile per le scelte legislative è la imponente massa finanziaria che tali fondazioni si trovano a gestire: ciò fa sì che «ogni intervento economico sia per sé stesso un fatto sociale, e ogni intervento sociale possa essere un fenomeno economico».
     Inoltre, la valenza pubblicistica di tali attività nasce anche dalla necessità di assicurare adeguata protezione agli interessi antagonistici degli utenti e dei consumatori che, pur avendo portata diffusa, si presentano di intensità notevolmente ridotta se confrontati con il potere economico del titolare dell’iniziativa e richiedono una particolare protezione da parte del legislatore.
     Quello che è stato definito uno «sdoppiamento tra la valenza pubblicistica e quella privatistica della medesima attività» – e che in tempi passati ha accelerato, se non determinato, l’attrazione della raccolta del risparmio e dell’esercizio del credito in un apposito ordinamento pubblicistico di settore – ha fatto anche sì che il processo di privatizzazione avviato verso la fine del XX secolo abbia seguito in senso inverso lo stesso percorso, nel senso che non si è avuto un ritorno alla disciplina civilistica tout court: il legislatore continua ad assegnare il dovuto rilievo agli aspetti che sono propri delle attività destinate a soddisfare peculiari interessi collettivi, pur ritenendoli compatibili con l’abbandono del regime pubblicistico in favore di una disciplina di diritto privato.

     II.2.4 – Il processo ora menzionato è stato avviato sotto la spinta decisiva della Comunità Europea negli anni ’80, al fine di attuare una forte liberalizzazione e privatizzazione dell’economia, contraria ad ogni forma di aiuti di Stato e volta a privilegiare un regime di piena concorrenza tra le imprese.
     Esso è sfociato, con una progressiva evoluzione del modello iniziale, prima nella cd. «legge Amato-Carli» del 30 luglio 1990, n. 218 e nel decreto legislativo n. 356 del 20 novembre 1990 e, successivamente, nella cd. «legge Ciampi» n. 461 del 23 novembre 1998 e nel decreto legislativo n. 153 del 17 maggio 1999. Su tale impianto legislativo, relativamente recente se si considerano le origini storiche delle fondazioni, si inserisce l’art. 11 della legge n. 448 del 2001 e si posa, per ora, il suggello della norma interpretativa di cui all’art. 5 della legge n. 112 del 2002.
Non è questa la sede per un’analisi dettagliata di tale complesso intervento, anche perché delle specifiche norme di cui lo schema di regolamento in esame costituisce attuazione si dirà nel corso dell’esame dell’articolato, alla parte III del parere.
     Occorre, invece, tener conto delle caratteristiche di fondo della legislazione, delegante e delegata, degli anni ’90, in cui si è inserita la legge n. 448 del 2001, per individuare alcuni punti fermi da cui trarre sostegno per l’interpretazione del sistema legislativo vigente cui il regolamento in esame deve dare attuazione.

     II.2.4.1 – Tale legislazione ha, innanzitutto, avuto il ruolo, pur non privo di incertezze e contraddizioni, di scindere le fondazioni dalle banche ex pubbliche conferitarie, operando una netta inversione di tendenza rispetto ai decenni precedenti, coerente con la «privatizzazione» dell’intero settore creditizio italiano e di altri ampi settori delle cd. partecipazioni statali.
     Di tale tendenza – che, come si è detto, si inserisce in un più vasto processo di privatizzazione e che non è modificata dalla legge n. 448 – ha dato atto, tra gli altri, l’OCSE, nel Report on Regulatory Reform in Jtaly del 2001, raccomandando all’Italia di proseguire nella direzione intrapresa e di incrementare gli sforzi in alcuni settori, fra cui anche quello creditizio, ancora in fase di transizione.

     II.2.4.2 – Altro dato di fondo è l’evoluzione, nel corso del decennio, del rapporto tra le fondazioni conferenti e le banche conferitarie: nella prima riforma del 1990 il quadro normativo rimaneva legato all’idea che la funzione principale degli enti conferenti fosse quella di amministrare la partecipazione azionaria nella banca conferitaria più che di agire nel campo dell’utilità sociale. Il rapporto è stato capovolto con la riforma del 1998-1999: con la legge n. 461 del 1998 l’idea portante era che le fondazioni bancarie dovessero trasformarsi in soggetti operanti nel mondo del non profit.
     Ciò non ha implicato una scelta verso una tipologia uniforme di fondazione ed è stata, inoltre, consentita una certa vocazione economica (purché nell’ambito degli scopi non di lucro): l’art. 2, comma 1, del decreto n. 153 – comma non modificato dalla legge n. 448 – afferma che le fondazioni possono perseguire anche scopi «di promozione dello sviluppo economico» secondo quanto previsto dai rispettivi statuti, in coerenza con l’originaria natura delle casse di risparmio; inoltre, esse possono realizzare i propri scopi anche in modo imprenditoriale (attraverso imprese «direttamente strumentali ai fini statutari» ex art. 3, comma 1, del decreto n. 153, anche in questa parte non modificato dalla legge n. 448).

     II.2.4.3 – L’assetto legislativo alla fine del XX secolo non era, tuttavia, del tutto privo di incertezze e lasciava spazio a talune ambiguità, quali il mantenimento di un legame istituzionale ancora saldo con le società bancarie conferitarie (ancorché progressivamente allentatosi); il mantenimento, attraverso accordi strategici tra fondazioni, di un controllo di fatto su alcuni grandi gruppi creditizi; l’impiego dei proventi patrimoniali a scopi di pubblica utilità, che dava luogo, da una parte, a fenomeni di dispersione, con erogazioni «a pioggia» di importi modesti e, dall’altra, alla concentrazione delle erogazioni e degli interventi in alcune aree del Paese.

     II.2.5 – A correggere alcuni di questi inconvenienti mira, come si è visto, l’art. 11 della legge n. 448, ad esempio, introducendo un sistema di programmazione triennale dell’attività, disciplinando espressamente il controllo da parte di più fondazioni, favorendo la concentrazione degli interventi nei settori ammessi, allentando il legame fondazioni-banche con un più rigoroso regime di incompatibilità e tramite l’affidamento delle partecipazioni a società di gestione del risparmio scelte con procedura competitiva.
     Fatte salve le osservazioni su talune scelte operate, in sede di attuazione della nuova legge, dallo schema di regolamento in esame, è però sin d’ora possibile una constatazione di fondo; di cui si deve tener conto nell’analisi della normativa di attuazione.
     La legge n. 448 ha senz’altro inciso, a volte profondamente, sul regime delle fondazioni e forse anche su alcuni aspetti della loro natura; essa, però, non ha abrogato il regime preesistente, sostituendolo con uno del tutto nuovo e diverso, come pure sarebbe stato possibile. Come si è già osservato, l’art. 11 della legge n. 448 ha operato con la tecnica della novella, incidendo direttamente sul decreto legislativo n. 153, apportandovi modifiche parziali, seppure significative.
     Quanto ai contenuti dell’intervento, appare in particolare mantenuta l’opzione legislativa generale della appartenenza della materia al diritto privato, ancorché «speciale», e non al diritto pubblico. Tale opzione si rinviene espressamente, innanzitutto, nella rubrica dell’art. 2 della legge di delega n. 461 del 1998, che recita: «regime civilistico degli enti», e poi nello stesso art. 2, comma 1, lett. l), della legge n. 461 e nell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 153 del 1999, ove si afferma il principio secondo cui le fondazioni sono «persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale», e si rinviene in varie altre norme del decreto legislativo n. 153 lasciate immutate dalla legge n. 448 (ad esempio, l’art. 3, comma 4 e l’art. 4, comma 1, lett. d) ). La scelta del legislatore del 2001, che costituisce un importante punto di riferimento interpretativo per tutta la disciplina della materia, a livello non solo legislativo ma anche regolamentare, trova conferma anche nei lavori preparatori dell’art. 11, dove è emersa espressamente la volontà di non intervenire su tale principio.
     La «piena autonomia statutaria» delle fondazioni è stata, infine, ribadita anche dalla recente legge n. 112 del 15 giugno 2002, di conversione del decreto legge n. 63 del 2002, che all’art. 5 ha affermato trattarsi di un «regime giuridico privatistico», «speciale rispetto a quello delle altre fondazioni, in quanto ordinato per legge» in funzione di una serie di profili specificati dalla stessa legge (tra cui la particolare operatività, la struttura organizzativa, lo specifico regime di professionalità e di incompatibilità, i criteri obbligatori di gestione del patrimonio, etc.).
     È stata, quindi, confermata anche dal legislatore più recente quella «scelta di campo» nei confronti del diritto privato, pur senza trascurare gli elementi di interesse pubblico e sociale prima descritti.

     II.2.6 – In sintesi, gli elementi interpretativi ricavabili dalla rassegna sin qui compiuta possono essere così tratteggiati:
     – nascita ad iniziativa prevalentemente privata delle casse di risparmio e loro importante ruolo sociale nella prima metà del XIX secolo;
     – progressiva pubblicizzazione di tali soggetti, sia per motivi storico-politici che per motivi sostanziali, in presenza di rilevanti profili di interesse pubblico (questi ultimi non tralasciati neppure durante il successivo processo di privatizzazione);
     – ruolo propulsivo della Comunità Europea che, negli anni ’80, ha spinto verso politiche sia di privatizzazione che di liberalizzazione;
     – articolato processo di «ritorno al privato» negli anni ’90, con la trasformazione di casse di risparmio e istituti di credito in fondazioni bancarie di diritto privato e l’introduzione del principio del distacco tra banche e fondazioni, anche se con un sistema non esente da limiti e incertezze;
     – conferma del regime giuridico privatistico con le ulteriori riforme dei primi anni del XXI secolo, pur senza trascurare gli indubbi profili di rilievo generale della materia.

     II.3 – Sul descritto impianto legislativo di stampo privatistico si inserisce; fornendo rilevanti elementi interpretativi, l’art. 118, ultimo comma, della Costituzione, nel testo novellato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha introdotto nel nostro ordinamento il cd. principio di «sussidiarietà orizzontale» affermando che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

     II.3.1 – Come è stato affermato da autorevole dottrina pubblicistica, tale principio costituisce «il criterio propulsivo in coerenza al quale deve da ora svilupparsi, nell’ambito della società civile, il rapporto tra pubblico e privato anche nella realizzazione delle finalità di carattere collettivo».
     Ciò trova riscontro in una visione – già delineata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale a partire dalla nota sentenza del 7 aprile 1988, n.396, sulle IPAB – secondo cui lo Stato e ogni altra Autorità pubblica proteggono e realizzano lo sviluppo della società civile partendo dal basso, dal rispetto e dalla valorizzazione delle energie individuali, dal modo in cui coloro che ne fanno parte liberamente interpretano i bisogni collettivi emergenti dal «sociale» e si impegnano direttamente per la realizzazione di quelle che sulla base di tale parametro sono avvertite come utilità collettive, come esigenze proprie della comunità di cui fanno parte.
     Sotto un altro profilo, si dà attuazione ad un principio economico anch’esso strettamente legato a tali premesse ideologiche, nel senso che appare meno necessario impiegare risorse pubbliche là dove operano, o sono in grado di operare, i privati, mediante il ricorso a forme di autofinanziamento e/o incremento delle risorse che provengono dall’apporto disinteressato dei singoli.

     II.3.2 – Il riconoscimento della portata innovativa della nuova norma costituzionale dispiega significative conseguenze anche con riferimento al Titolo I della Costituzione e, in particolare, alle norme di ordine sostanziale che disciplinano le guarentigie dei cittadini – singoli e associati – nei confronti dei pubblici poteri.
     Ciò muta la stessa nozione di autonomia privata, nel senso che il suo riconoscimento assume portata prioritaria non solo quando essa è orientata alla realizzazione dei bisogni individuali (art. 41 Cost.), ma anche quando persegue utilità generali, configurando spazi autonomi di tutela per «attività strumentali» mediante le quali si persegue la realizzazione delle «utilità generali», così da far assumere una posizione prioritaria al privato rispetto al pubblico anche in settori sinora riservati alla competenza esclusiva degli apparati amministrativi.
     Il principio della sussidiarietà orizzontale introdotto dall’ultimo comma dell’art. 118 Cost. produce implicazioni non meno rilevanti in tema di formazioni sociali, consentendo una lettura evolutiva dell’art. 18 Cost. che vada oltre la letterale protezione, nei limiti del lecito, dei «fini» perseguiti dalle formazioni sociali e che consenta di sottolineare quel «valore aggiunto» che, rispetto ai singoli, esse sono in grado di produrre mediante il potenziamento e la previsione di organizzazioni articolate e complesse, capaci di avvalersi dell’apporto diretto e/o indiretto degli associati o di terzi, per l’affermazione dei valori collettivi di cui si fanno portatrici.

     II.3.3 – Naturalmente, resta pur sempre nell’autonomia del legislatore accompagnare l’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale con l’individuazione di strumenti di vigilanza e di controllo. Tale prospettiva appare confermata, nella materia in esame, dalla recente legge n. 112 del 2002, che rende esplicita l’esistenza di un «regime giuridico privatistico speciale».
     La questione di fondo nella materia delle fondazioni bancarie sembra, quindi, spostarsi dalla identificazione della loro natura giuridica (espressamente riconosciuta come privata) alla individuazione del «grado di compressione» che è possibile imprimere all’autonomia privata per la protezione di esigenze collettive che tali soggetti perseguono, senza che ciò si traduca in uno stravolgimento della sua stessa nozione e del suo nucleo essenziale, che la Carta Costituzionale ha inteso preservare soprattutto con le modifiche introdotte agli artt. 117 e 118 Cost.
     Pertanto, avendo riguardo alla «misura» dell’intervento pubblico, è stato fondatamente sostenuto che essa deve rispondere a criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, raffrontando i benefici dell’attività di vigilanza e controllo con i possibili costi economico-sociali che possono derivare, ad esempio, dal ritardo o dal rallentamento che tali funzioni di vigilanza possono provocare sulle attività operative degli organismi privati vigilati. In futuro, sarà possibile valutare l’impatto di tale tipo di intervento nel momento più efficace: quello della previsione dell’intervento stesso a livello normativo. Ciò potrà avvenire con la piena messa a regime dell’Analisi dell’impatto della regolamentazione (AIR), già molto diffusa nei paesi anglosassoni con il nome di Regulatory impact analysis (RIA), fortemente raccomandata anche dall’OCSE e introdotta in Italia dall’art. 5 della legge n. 50 dell’8 marzo 1999.

     II.3.4 – Attualmente, a questo Consiglio di Stato non resta che assumere come proporzionale e ragionevole l’intervento legislativo operato dalla legge n. 448 (salve, ovviamente, le pronunce della Corte Costituzionale che non potrebbero comunque essere richieste in questa sede, come si è già detto).
     I suddetti principi generali di proporzionalità e di ragionevolezza costituiscono, invece, canone di valutazione, insieme con il rispetto della medesima legge e degli esposti principi costituzionali, dello schema di regolamento attuativo in esame da parte della Sezione. Difatti, tali principi – che conferiscono una nuova valenza al regime di diritto privato delle fondazioni bancarie nel «perseguimento di utilità generali» – impongono di ponderare con attenzione ancora maggiore le possibili limitazioni agli spazi dell’autonomia privata operati in nome di finalità «di interesse pubblico», potendo quelle stesse finalità essere perseguite già all’interno del medesimo regime privatistico.
     Di conseguenza, ove ciò sia maggiormente rispondente a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, la specialità del regime delle fondazioni può essere rinvenuta e salvaguardata considerando direttamente la nuova valenza e le nuove potenzialità della loro autonomia privata, piuttosto che ricorrendo alla introduzione, non sempre necessaria, di strumenti pubblicistici in un settore regolato dal diritto privato.

     II.4 – Una conferma della natura privatistica del regime delle fondazioni deriva, sotto un profilo del tutto diverso, dall’esito positivo della verifica di legittimità della emanazione di un regolamento statale in materia di fondazioni bancarie anche dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001.
     Come espressamente afferma il riferente Ministero dell’economia e delle finanze, il fondamento del potere regolamentare dello Stato si rinviene nella circostanza che «la materia delle fondazioni bancarie» è «relativa all’ordinamento civile» e quindi «rientra in quelle attribuite alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo art. 117 della Costituzione». Il riferimento operato dal Ministero va quindi inteso alla lettera l) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione.
     Questa considerazione del riferente Ministero – che va condivisa e che è del tutto coerente con il descritto sistema in cui la legge n. 448 si inserisce – appare un corretto riconoscimento anche dei contenuti di merito della disciplina: anche in sede interpretativa dovranno, quindi, risultare prevalenti i profili civilistici e privatistici rispetto a quelli, per i quali pure sarebbe stato possibile optare, modificando legislativamente la natura delle fondazioni bancarie, tipici delle «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale» che l’art. 117 Cost., terzo comma, riconduce alle materie di legislazione concorrente, per le quali quindi non sarebbe consentito prevedere un potere regolamentare da parte dello Stato.

     II.5 – Ulteriori elementi interpretativi di merito emergono, infine, dall’esame della portata e dell’oggetto del regolamento il cui schema è sottoposto all’esame del Consiglio di Stato. Come si è detto in precedenza, l’art. 11, comma 14, della legge n. 448 dispone che «L’Autorità di vigilanza detta, con regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, n. 400, le disposizioni attuative delle norme introdotte dal presente articolo, anche al fine di coordinarle con le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 153 del 1999».
     Al riguardo, va rilevato come la menzione dell’Autorità di vigilanza come autorità emanante nonché il riferimento al comma 3, e non ai commi 1 o 2, dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988 comportano che si tratti di un regolamento ministeriale e non governativo, né di delegificazione. Tale scelta del legislatore implica che lo strumento regolamentare prescelto è di tipo squisitamente attuativo e non integrativo o innovativo.
     La scelta appare coerente con l’intervento legislativo operato dall’art. 11 della legge n. 448: in effetti, innestandosi tale articolo su un corpus legislativo preesistente e già funzionante «a regime», la legge non richiede ulteriori passaggi integrativi e additivi della disciplina per la sua operatività, ma soltanto una normativa di carattere attuativo, che operi, inoltre, il necessario coordinamento con le disposizioni del decreto n. 153 su cui la legge n. 448 è andata ad incidere.
     Va, allora, verificato entro quali limiti la disciplina civilistica concernente le fondazioni bancarie possa essere posta non da una fonte di rango primario ma dal tipo di fonte secondaria prescelto. Una questione simile a quella in esame pur se relativa a un diverso tipo di strumento regolamentare – è stata già affrontata da questo Consiglio di Stato con il parere n. 90 reso dall’Adunanza Generale del 16 maggio 1996, a proposito delle cd. società miste per la gestione dei servizi pubblici territoriali. In quella sede, l’intervento regolamentare sull’autonomia privata fu ritenuto ammissibile soltanto perché, a differenza che nella fattispecie, si trattava di un regolamento di delegificazione ai sensi del comma 2 dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988 e la legge primaria aveva curato «di delineare criteri e limiti per l’esercizio del potere di normazione secondaria, fissando in modo sufficientemente definito l’ambito demandato a tale potere».
     La Sezione, anche sulla scorta dell’impostazione sistematica del citato precedente, ritiene che lo strumento regolamentare qui in esame – regolamento ministeriale di attuazione e non regolamento di delegificazione – non può avere portata espansiva, rispetto al dettato legislativo di cui costituisce l’esecuzione, tale da potere autonomamente incidere su una disciplina di natura civilistica e quindi, in ultima analisi, sul regime di «piena autonomia statutaria» delle fondazioni bancarie.
     Pertanto, i limiti alla potestà della normativa secondaria di incidere sulla disciplina civilistica – che, nel caso delle società miste, la legge aveva posto «al di là» delle previsioni da essa introdotte in quanto consentito dallo strumento della delegificazione, definendoli comunque con sufficiente precisione – nel caso delle fondazioni bancarie vanno fatti tassativamente ricadere «all’interno» della disciplina posta dalla legge stessa.
     In altri termini, dalla combinazione della scelta del legislatore di muoversi nell’ambito dell’autonomia privata delle fondazioni con quella di operare con lo strumento del regolamento ministeriale attuativo, consegue che tale regolamento non possa prevedere limiti ulteriori alla suddetta autonomia privata che non trovino espresso fondamento (e conseguente limitazione) nella legge medesima. Per contro, l’autonomia di stampo privatistico delle fondazioni bancarie riacquisterà naturalmente la sua pienezza laddove cessino i vincoli della eteroregolamentazione derivante direttamente dalla legge.

     II.6 – Alla stregua delle esposte considerazioni, appare possibile affermare il generale principio esegetico della piena attuazione dell’autonomia privata delle fondazioni bancarie nella parte in cui essa non è espressamente limitata dalla legge.
     In tale quadro, non sembra possibile che il regolamento ministeriale in oggetto – valutabile alla luce del criterio di sussidiarietà orizzontale e dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità sopra richiamati; ricadente nella materia del’«ordinamento civile»; di natura squisitamente attuativa della legge – possa apportare limitazioni ulteriori all’autonomia privata delle fondazioni al di là di quelle necessarie ad eseguire il dettato legislativo e a coordinarlo con il tessuto legislativo preesistente.

     III.1 – Passando all’esame dell’articolato del provvedimento in oggetto, lo schema consta di nove articoli, sui quali la Sezione ritiene di formulare le osservazioni che seguono, ricordando che per quelle da cui l’amministrazione riterrà di discostarsi si dovrà, comunque, fornire espressa motivazione nelle premesse del provvedimento, ai sensi della circolare della Presidenza del consiglio dei ministri 2 maggio 2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92., pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105 del 3 maggio 2001, recante guida alla redazione dei testi normativi (cfr., in particolare, il punto 2.2.4 a pag. 22).

     III.2 – ARTICOLO 2

     III.2.1 – All’art. 2, comma 1, secondo periodo, dello schema si dispone che «L’attività istituzionale delle fondazioni si svolge in prevalenza in rapporto al territorio di riferimento, indicato nello statuto in ragione del luogo di insediamento, delle tradizioni storiche e delle dimensioni della fondazione».
     Il concetto di territorio «di riferimento» (poi ripreso ai commi 2 e 6 dello stesso art. 2, nonché all’art. 3, commi 1 e 2, e all’art. 6, comma 2) non trova riscontro testuale nella legge n. 448 che prevede, al comma 3 dell’art. 11, un «rapporto prevalente con il territorio» e, al comma 11 dello stesso articolo, che l’impiego del patrimonio sia in collegamento funzionale «in particolare con lo sviluppo del territorio».
     Dal dettato legislativo si ricava che la riforma del dicembre 2001 ha voluto indirizzare l’attività delle fondazioni bancarie verso attività «connesse con il territorio», con destinazioni concrete ed operative. Da un punto di vista logico e letterale ciò non implica la necessità di circoscrivere le attività connesse con il territorio entro un determinato ambito spaziale delimitando in ogni caso un territorio «di riferimento».
     Peraltro, la Sezione osserva che, anche in assenza della delimitazione del territorio di riferimento, l’indicazione di specifici settori di attività ora imposta dalla legge contribuisca incisivamente a definire l’ambito – anche territoriale – dell’attività delle fondazioni, e conseguentemente a definire quel «rapporto prevalente con il territorio» voluto dal comma 3 dell’art. 11 della legge n. 448. La possibilità, per la fondazione, di instaurare il rapporto «prevalente» con il territorio anche attraverso la definizione dei settori e non necessariamente attraverso un unico ambito territoriale «di riferimento» consente, inoltre, alle singole fondazioni di scegliere di indirizzare la loro attività verso ambiti territoriali differenziati, ancorché definiti (si pensi, ad esempio, alle fondazioni con partecipazioni in banche collocate in aree territoriali diverse: esse possono, nella loro autonomia, decidere di indirizzare una parte delle loro attività «territoriali» anche verso zone diverse da quella di interesse prevalente; in tal modo, l’obbligo sancito dalla legge di operare in rapporto prevalente con il territorio risulta pienamente rispettato anche senza bisogno di agire nell’ambito di un territorio «di riferimento»). Ciò appare, infine, coerente con l’esigenza, da più parti avvertita, di ridistribuire meglio gli interventi sul territorio.
     Un ulteriore argomento a favore di tale ricostruzione deriva dall’esame della parte del decreto legislativo n. 153 su cui non ha inciso la legge n. 448. In quella sede (art. 4, comma 1, lett. f) ), a differenza che nel testo della legge 448, si rinviene un riferimento specifico, anche se ad altri fini, alla «delimitazione» del territorio, ma come facoltà e non come obbligo delle fondazioni. Tale norma – rimasta invariata – impone infatti agli statuti, «negli organi collegiali delle fondazioni la cui attività è indirizzata dai rispettivi statuti a specifici ambiti territoriali», di prevedere la «presenza di una rappresentanza non inferiore al cinquanta per cento di persone residenti da almeno tre anni nei territori stessi».
     Pertanto, la disciplina di livello legislativo non solo non impone espressamente agli statuti delle fondazioni di delimitare un ambito territoriale specifico di attività, ma anzi prevede esplicitamente tale ipotesi come eventuale alla citata lettera f).
     Alla stregua di quanto esposto, la Sezione ritiene che lo schema di regolamento in oggetto non possa modificare il descritto assetto della disciplina primaria senza incidere sulla «piena autonomia statutaria e gestionale» delle fondazioni di cui al comma 1 dell’art. 2 del decreto legislativo n. 153, introducendo una limitazione non consentita dalla legge. Difatti, secondo lo schema in oggetto, la scelta di identificare o meno uno specifico ambito territoriale di attività non sarebbe più rimessa agli statuti, ma sarebbe operata direttamente dal regolamento ministeriale in esame: ciò non rientra nella funzione di attuazione della legge n. 448 e neppure in quella di coordinamento di tale legge con il testo del decreto legislativo n. 153 (con il quale, anzi, si introdurrebbe un elemento di contrasto).
     Conseguentemente, la Sezione ritiene che il testo del comma 1 dell’art. 2 debba essere più esplicitamente ricondotto al «coordinamento» delle disposizioni dei commi 3 e 11 dell’art. 11 della legge n. 448 e del comma 1, lettera f), dell’art. 4 del decreto legislativo n. 153, prevedendo sia l’obbligo di un rapporto prevalente con il territorio (ex legge 448) sia la facoltà per gli statuti di definire uno specifico ambito territoriale di attività (ex decreto legislativo 153).
     A tal fine, l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 2 dello schema andrebbe sostituito con una formulazione del seguente tipo, che riprenda entrambi gli spunti della normativa primaria: «L’attività istituzionale delle fondazioni si svolge in rapporto prevalente con il territorio. Lo statuto, in ragione del luogo di insediamento, delle tradizioni storiche e delle dimensioni della fondazione, può definire uno specifico ambito territoriale cui si indirizza l’attività della fondazione».
     Inoltre, l’espressione «di riferimento» accanto al termine «territorio» va espunta da tutte le parti dello schema in cui è contenuta (art. 2, commi 1, 2 e 6; art. 3, commi 1 e 2; art. 6, comma 2).

     III.2.2 – All’art. 2, comma 2, primo periodo, dello schema si prevede, tra l’altro, che «Le fondazioni scelgono, nell’ambito dei settori ammessi, un massimo di tre settori (i c.d. «settori rilevanti»), anche appartenenti a più di una delle quattro categorie di settori ammessi».
     La legge n. 448 (art. 11, comma 1) si limita ad includere, tra le definizioni di cui al comma 1 dell’art. 1 del decreto legislativo n. 153, una nuova lettera c-bis) la quale, nell’elencare i settori ammessi, inserisce in tale elenco anche i numeri cardinali da 1) a 4), senza chiarire se tali numeri servano a raggruppare più settori in una grande categoria ovvero ad individuare singoli settori.
     Il chiarimento, introdotto dallo schema in esame, che la legge n. 448 abbia voluto individuare una ventina di settori ammessi, raggruppati nelle «categorie» da 1) a 4), appare alla Sezione ragionevole e preferibile alla possibile ipotesi alternativa, di considerare i numeri da 1) a 4) del citato comma 1 dell’art. 11 come quattro settori e non come categorie di settori.
     Tale opzione interpretativa riposa, innanzitutto, sulla considerazione dell’estrema ampiezza di ciascuna delle singole materie inserite nei quattro raggruppamenti e della conseguente difficoltà logica di considerare come un unico «settore» organico, piuttosto che come «categoria di settori», ciascuno dei quattro numeri del comma 1 (ad esempio, nell’ambito del numero 1), rientrano, tra i tanti settori, sia «religione e sviluppo spirituale» che «diritti civili»; nell’ambito del numero 2) sia «prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica» che «salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa» che «attività sportiva»; il numero 4), poi, consta comunque di un solo settore: «arte, attività e beni culturali», in quanto non vi appare il segno del punto e virgola a distinguere un ambito dall’altro).
     In secondo luogo, considerare i settori ammessi dalla legge come limitati a quattro risulterebbe poco compatibile con il dettato della stessa legge n. 448, che ai commi 2 e 3 dell’art. 11 impone che le fondazioni operino in via prevalente nei settori rilevanti, che vanno scelti tra i settori ammessi «in numero non superiore a tre». Difatti, considerando i settori ammessi solo quattro, e non una ventina, residuerebbe automaticamente un unico settore ammesso e non rilevante: siffatto sistema renderebbe, fisiologicamente, molto probabile che a questo ipotetico quarto settore (su cui confluiranno tutte le risorse non devolute agli altri tre) siano destinate, alla fine, risorse più consistenti di almeno uno degli altri tre, rendendo inoperante la «prevalenza» imposta dalla legge a favore dei tre settori rilevanti. Tale antinomia non sussiste, invece, considerando i settori elencati dalla legge come una ventina, raggruppati in quattro grandi categorie.
     Infine, un ulteriore elemento a favore della scelta operata dallo schema in esame si trae dal precedente testo della lettera d) dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 153, poi integralmente sostituito dal comma 2 dell’art. 11 della legge n. 448. Difatti, tale lettera individuava come «settori rilevanti» ambiti di intervento (quali la ricerca scientifica, l’istruzione, l’arte, la sanità) che corrispondono, in sostanza, a singoli settori interni alle quattro categorie di cui al comma 1 dell’art. 11.

     III.2.3 – Il medesimo comma 2 dell’art. 2, al secondo e al terzo periodo, prosegue affermando che: «Nella scelta dei settori rilevanti la fondazione privilegia i settori a maggiore rilevanza sociale nel territorio di riferimento. La scelta dei settori rilevanti, motivata in base alla loro rilevanza sociale, può essere effettuata nello statuto o in altro atto interno della fondazione deliberato dall’organo di indirizzo».
     Della necessità di espungere l’espressione «di riferimento» si è detto in precedenza.
     Quanto, invece, alla adozione della «rilevanza sociale» come canone fondamentale, se non unico, nella scelta dei settori rilevanti e quanto alla circostanza che tale obbligo venga poi ribadito con un onere di motivazione espressa da parte dell’atto di scelta, la Sezione rileva come tali obblighi per le fondazioni non si rinvengano nel testo della legge n. 448.
     Difatti, l’art. 11, comma 2, nel descrivere i settori rilevanti e nel disciplinare le modalità della loro scelta, si limita ad affermare che «i settori rilevanti sono i settori ammessi scelti, ogni tre anni, dalla fondazione, in numero non superiore a tre». La limitazione all’autonomia statutaria delle fondazioni operata dalla legge non incide, quindi, anche sulla libertà di scelta dei settori rilevanti, purché nell’ambito dei settori ammessi, in numero non superiore a tre e per una durata almeno triennale.
     La «rilevanza sociale» dei settori compare nel successivo comma 3 dell’art. 11 della legge, insieme con il già citato riferimento al territorio. Il testo di tale comma («Le fondazioni … operano in via prevalente nei settori rilevanti, assicurando, singolarmente e nel loro insieme, l’equilibrata destinazione delle risorse e dando preferenza ai settori a maggiore rilevanza sociale») configura, però, il canone della rilevanza sociale come criterio preferenziale nella gradazione della destinazione delle risorse (che deve essere anche «equilibrata») tra i settori rilevanti, assumendo cioè come già effettuata la individuazione dei settori rilevanti ai sensi del precedente comma 2 dell’art. 11 della legge e con i limiti all’autonomia statutaria ivi previsti.
     La scelta operata dallo schema di regolamento – che riconduce la rilevanza sociale anche alla scelta dei settori e non alla gradazione delle risorse tra essi – oltre a non trovare riscontro testuale nella legge n. 448, appare poco ragionevole se si considera la tipologia estremamente varia dei settori ammessi dalla legge medesima. Se la rilevanza sociale costituisse davvero l’unico criterio da seguire per la scelta, tanto da essere il solo elemento della motivazione sottoposta al controllo dell’Autorità di vigilanza, sarebbe estremamente difficile che alcuni dei settori ammessi elencati al comma 1 dell’art. 11 della legge n. 448 (ad esempio, il pur rilevantissimo settore dell’«attività sportiva», o persino dell’«arte, attività e beni culturali») possano mai rientrare nella terna dei settori rilevanti, poiché diventerebbe arduo per le fondazioni riuscire a dimostrare che la rilevanza sociale di tali settori sia tale da superare quella di quasi tutti gli altri settori ammessi (come, ad esempio, «volontariato, filantropia e beneficenza»; «diritti civili»; «prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica»; «salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa», etc.).
     È, pertanto, più coerente con il sistema disegnato dalla legge, oltre che più ragionevole, che dallo schema in esame siano espunti il secondo periodo del comma 2 dell’art. 2 e il riferimento all’obbligo di motivazione al terzo periodo dello stesso comma, e che il canone della «rilevanza sociale» come criterio fondamentale per la ripartizione delle risorse all’interno dei settori di attività prescelti, rilevanti e non, sia menzionato al successivo comma 3 dell’art. 2, di cui si dirà oltre.

     III.2.4 – L’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 2 dello schema dispone che: «Le delibere che individuano i settori rilevanti non sono efficaci prima che l’Autorità di vigilanza ne abbia accertato la conformità alla legge e al presente regolamento; restano ferme le procedure di modifica statutaria».
     L’attribuzione all’Autorità di vigilanza di un potere di verifica delle delibere che individuano i settori rilevanti appare coerente con la portata strategica di tali delibere, che costituiscono un atto particolarmente significativo per la vita delle fondazioni.
     La legge avrebbe anche potuto, ragionevolmente, riservare alla sede statutaria la scelta dei settori rilevanti, e in quella sede si sarebbe applicato l’art. 10, comma 3, lett. c), del decreto legislativo n. 153, che disciplina le modalità di approvazione da parte dell’Autorità di vigilanza delle modificazione statutarie. Tale norma si applicherà, comunque, laddove le fondazioni decidano nella loro autonomia di seguire la via della modifica dello statuto anche per l’individuazione dei settori rilevanti (lo schema ribadisce, correttamente, che «restano ferme le procedure di modifica statutaria»).
     La facoltà, concessa dalla legge n. 448, che la scelta dei settori rilevanti possa essere operata al di fiori dello statuto vale a concedere maggiore flessibilità di azione alle fondazioni, purché ciò non escluda la verifica da parte dell’Autorità di vigilanza.
     La Sezione ritiene, invece, priva di fondamento legislativo la previsione dello schema che attribuisce all’Autorità di vigilanza un potere di controllo, per le delibere che individuano i settori rilevanti, che risulti più incisivo (condizionandone sine die l’efficacia) di quello previsto per le modifiche statutarie (ove si attiva un sistema di silenzio-assenso dopo 60 giorni dal ricevimento della relativa documentazione).
     Va, pertanto, modificato l’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 2, riproducendo, in armonia con il resto del sistema, un meccanismo di silenzio-assenso analogo a quello che il decreto legislativo n. 153, nella citata lettera c) dell’art. 10, comma 3, prevede per l’approvazione delle modifiche statutarie.

     III.2.5 – Al comma 3 dell’art. 2, lo schema di regolamento disciplina la quota prevalente di reddito da destinare ai settori rilevanti e la fissa nel 75% almeno del reddito totale erogabile dopo le destinazioni indicate nelle lettere a), b) e c) dell’art. 8, comma 1, del decreto legislativo n. 153. Come chiarisce la relazione, con tale percentuale si ripartisce in parti uguali del 25% il reddito destinato a ciascuno dei tre settori rilevanti e quello a disposizione delle fondazioni per altri interventi.
     La Sezione è dell’avviso che tale prescrizione debba essere espunta dallo schema, poiché non trova fondamento nel dettato dell’art. 11 della legge n. 448, che al comma 3 impone che le fondazioni operino «in via prevalente nei settori rilevanti, assicurando, singolarmente e nel loro insieme, l’equilibrata destinazione delle risorse e dando preferenza ai settori a maggiore rilevanza sociale».
     La nozione di «prevalenza» contenuta nella legge, pur se più ampia di quella di «maggioranza» aritmetica, appare alla Sezione un vincolo che va attuato direttamente da parte delle fondazioni. Ove, infatti, la legge avesse inteso fissare per la prevalenza una misura unitaria minima per tutte le fondazioni, lo avrebbe fatto espressamente. Il ricorso ad un’espressione univoca, ma flessibile, come quella di «prevalenza» indica una volontà diversa – ma non meno chiara – da parte del legislatore. Da un lato, la legge ha imposto un vincolo preciso e inequivocabile all’autonomia delle fondazioni (che saranno tenute, sotto il controllo dell’Autorità di vigilanza, a operare in misura «prevalente» nei settori rilevanti); dall’altro, la legge ha evitato di stabilire una misura unitaria, o anche un limite minimo, per l’attuazione di tale vincolo.
     La fissazione, da parte del regolamento attuativo, di un limite minimo per la prevalenza nella misura del 75% configura quindi una prescrizione aggiuntiva rispetto alla volontà del legislatore, certamente dettata da un comprensibile intento razionalizzatore ma indebitamente limitativa dell’autonomia delle fondazioni. Come si è già detto al punto 11, difatti, il regolamento ministeriale attuativo non ha la potestà di introdurre vincoli all’autonomia delle fondazioni che non siano meramente attuativi della legge ma si trasformino in limitazioni ulteriori all’autonomia medesima.
     Nell’applicazione del chiaro vincolo della prevalenza – vincolo «di diritto speciale» e «ordinato per legge», come recita, da ultimo, l’art. 5 della legge n. 112 del 2002 – va, pertanto, riconosciuta la piena autonomia delle fondazioni bancarie. Ciascuna fondazione dovrà stabilire la misura della prevalenza delle risorse da destinare ai settori rilevanti: tenendo conto che l’espressione «prevalenza» non implica una mera «maggioranza simbolica», nel rispetto del criterio della «doppia prevalenza» di cui si dirà oltre e sotto il controllo dell’Autorità di vigilanza secondo le modalità stabilite dalla legge.
     Alla stregua delle esposte considerazioni, va quindi espunta dal comma 3 dell’art. 2 dello schema la definizione numerica, in termini percentuali, di una misura minima di reddito da destinare ai settori rilevanti.
     Il dettato del comma 3 dell’art. 11 della legge n. 448 induce la Sezione a ritenere necessario introdurre ulteriori indicazioni al comma 3 dell’art. 2 dello schema.
     Va, innanzitutto, data attuazione all’inciso, contenuto nella legge, «singolarmente e nel loro insieme». Esso sembra riferirsi non soltanto alla equilibrata destinazione delle risorse, ma anche al loro prevalente utilizzo nei settori rilevanti. Tali settori devono, appunto, risultare prevalenti sia uno per uno che nel loro insieme. Ciò sembra condurre a due distinte conseguenze (per cui si può parlare, appunto, di criterio della «doppia prevalenza»): 1) che la somma delle risorse assegnate all’insieme dei settori rilevanti risulti sempre «prevalente» rispetto alle risorse assegnate a tutti gli altri settori; 2) che ciascun singolo settore rilevante si veda assegnare una quantità di risorse «prevalente» rispetto a ciascun singolo settore non rilevante.
     Tale criterio va meglio specificato, in sede attuativa, con una adeguata riformulazione del comma 3 dello schema.
     Quanto, poi, al riparto interno tra settori rilevanti e a quello tra settori non rilevanti, la legge impone che gli statuti assicurino una «equilibrata destinazione delle risorse, dando preferenza ai settori a maggiore rilevanza sociale». La espressione «equilibrata» non implica necessariamente una destinazione in parti uguali (come invece ha inteso la riferente amministrazione secondo quanto affermato nella relazione, ma non nel testo dello schema): il regolamento può, quindi, continuare a limitarsi a riprodurre l’espressione utilizzata dal legislatore, demandando all’autonoma scelta delle fondazioni la sua ragionevole applicazione.
     Infine, andrebbe in questa sede ripreso il criterio della «maggiore rilevanza sociale» di cui si è già detto a proposito del comma 2 dell’art. 2 dello schema.
     In sintesi, ad avviso della Sezione, una corretta attuazione della legge comporta la riformulazione del comma 3 dell’art. 2 dello schema secondo le seguenti indicazioni:
     – espunzione della fissazione di una misura minima che indichi la prevalente destinazione delle risorse disponibili;
     – una più chiara specificazione del criterio della doppia prevalenza e, comunque, dell’inciso «singolarmente e nel loro insieme»;
     – la necessità di una destinazione equilibrata ma non necessariamente paritaria, delle risorse, da applicare secondo la autonoma scelta delle fondazioni;
     – l’inserimento del criterio della rilevanza sociale nella ripartizione delle risorse tra i settori (rilevanti e non), che si accompagni alla soppressione del medesimo criterio come canone di scelta dei settori rilevanti.

     III.2.6 – Il comma 4 dell’art. 2 dello schema in esame ribadisce, al primo periodo, l’obbligo legale che le fondazioni indirizzino le proprie attività non destinate ai settori rilevanti soltanto nell’ambito dei settori ammessi dalla legge. Lo stesso comma prosegue affermando che «L’Autorità di vigilanza può segnalare i settori ammessi nei quali è meno presente l’attività complessiva delle fondazioni al fine di richiamare l’attenzione delle fondazioni nella scelta della destinazione del reddito di cui al presente comma e assicurare un’equilibrata assistenza dei settori ammessi nel quadro dell’attività complessiva delle fondazioni».
     Tale funzione di segnalazione, non prevista dalla legge, appare compatibile con il generale principio di autonomia delle fondazioni nella misura in cui essa si concretizzi esclusivamente in un’attività di comunicazione della situazione generale dei settori, che l’Autorità di vigilanza può ricavare dal «quadro dell’attività complessiva delle fondazioni».
     Per ribadire che tale è la portata della norma, andrebbe chiarito che l’espressione «assicurare un’equilibrata assistenza dei settori ammessi» non esprime un potere dell’Autorità di vigilanza (come potrebbe interpretarsi collegando l’espressione al verbo «può», all’inizio della frase) ma una finalità perseguita dall’attività di segnalazione.
     È pertanto opportuno inserire, prima della menzionata espressione «assicurare un’equilibrata assistenza dei settori ammessi», le parole: «al fine di».
     Inoltre, la Sezione ritiene di segnalare che il termine «assistenza» non appare particolarmente appropriato se utilizzato in riferimento ai settori ammessi e potrebbe essere sostituito da un termine come «considerazione» o «cura».

     III.2.7 – Il comma 6 dell’art. 2 recita: «Salvi gli interventi per la tutela degli interessi del territorio di riferimento, le fondazioni non possono svolgere la propria attività, direttamente o in direttamente, a favore dei soggetti ai quali sono attribuiti poteri di designazione dei componenti l’organo di indirizzo o delle organizzazioni di cui fanno parte i componenti gli organi delle fondazioni».
     L’intento di tale disposizione è quello di attuare il comma 4, ultimo periodo, dell’art. 11 della legge n. 448, ove si afferma che: «Salvo quanto previsto al periodo precedente, i soggetti ai quali è attribuito il potere di designare componenti dell’organo di indirizzo e i componenti stessi degli organi delle fondazioni non devono essere portatori di interessi riferibili ai destinatari degli interventi delle fondazioni». La relazione di accompagnamento afferma, infatti, che con lo schema in esame «si è dato un contenuto più specifico e certo alla generica formula legislativa che fa riferimento ai soggetti portatori di interessi riferibili ai destinatari degli interventi delle fondazioni».
     Come si è già avuto modo di osservare, non può avere rilievo ai fini dell’esame dello schema alcuna considerazione sulla compatibilità con la Costituzione della disciplina posta dalla legge.
     La Sezione ritiene, però, che sul punto l’impostazione del Ministero, sebbene ispirata ad un commendevole intento di chiarificazione, non sia condivisibile in rapporto alla legge di cui il regolamento in esame costituisce attuazione. Difatti, il comma 6 dello schema, nella misura in cui si riferisce all’«attività» delle fondazioni, non trova alcun riscontro nel decreto legislativo n. 153 e neppure nella legge n. 448. Quest’ultima disegna, infatti, un regime di incompatibilità dei «soggetti» con il potere di designare componenti dell’organo o componenti essi stessi dell’organo, imponendo loro di non essere portatori di interessi riferibili ai destinatari degli interventi.
     Pertanto, la sede più propria per una disposizione di tal genere appare essere l’art. 5 dello schema, relativo alle incompatibilità, e non l’art. 2, concernente l’attività istituzionale delle fondazioni.
     Il comma, che va eliminato dall’art. 2 dello schema e che può essere inserito come nuovo comma 1 dell’art. 5 dello schema, va inoltre riformulato attenendosi il più possibile al testo del dettato legislativo. In tale riformulazione, andrà tenuto presente il principio che la disciplina delle incompatibilità, in quanto limitatrice della capacità dei soggetti, è di stretta interpretazione e non può essere ampliata in sede attuativa.
     In particolare, va evitato l’uso di espressioni, come l’inciso «direttamente o indirettamente», che potrebbero generare incertezze e che il legislatore non ha inteso utilizzare in questa parte della disciplina, mentre vi ha invece fatto ricorso quando lo ha ritenuto necessario (ad esempio, il medesimo inciso si trova al comma 10 dell’art. 1 della legge n. 448, peraltro in un contesto in cui l’avverbio «indirettamente» ha una valenza più chiara).
     La riconduzione della norma al dettato legislativo dovrebbe, altresì, collegare il regime di incompatibilità all’effettiva esistenza di un soggetto «portatore di interessi». In quest’ottica, appare eccessivo che il solo «far parte» di un’organizzazione (espressione utilizzata alla fine dell’attuale comma 6) possa integrare una ipotesi di incompatibilità senza che di ciò si trovi riscontro nel dettato legislativo.
     La formulazione ora utilizzata dallo schema, peraltro, potrebbe avere conseguenze estreme e certamente non volute dalla legge (ad esempio, una personalità di elevato profilo e onorabilissima che sia anche iscritta, come semplice donatore, ad un’associazione di donatori di sangue non potrebbe essere componente dell’organo di indirizzo di una fondazione che si occupa di sanità) o addirittura in contrasto con altri, più espliciti, profili della disciplina legislativa, come quello che richiede per i componenti degli organi di indirizzo requisiti di «professionalità e competenza nei settori cui è rivolta l’attività della fondazione», come recita il comma 4 dell’art. 11 della legge n. 448 e come è ribadito dall’art. 4, comma 2, dello schema in esame (ad esempio, una fondazione rivolta alla cultura, all’arte o alla ricerca non potrebbe annoverare nessun accademico, ancorché illustre e non «portatore di interessi», perché probabilmente alcune sovvenzioni potrebbero essere erogate a favore di Università o altri enti accademici).
     Appare quindi opportuno che tale formulazione sia modificata, restando comunque ferma la necessità di specificare il concetto di «soggetto portatore di interessi» contenuto nella legge.
     Ad avviso della Sezione, tale concetto dovrebbe essere definito, nel regolamento attuativo, con riferimento a situazioni di incompatibilità chiare e oggettivamente riscontrabili – collegate ad esempio; come potrà accertare anche l’Autorità di vigilanza, al ruolo di particolare evidenza del soggetto nell’ambito di un’organizzazione destinataria degli interventi della fondazione, ovvero al fatto che il soggetto rappresenti in concreto gli interessi di un altro soggetto o di un’organizzazione, ovvero, in fine, alla circostanza che l’erogazione sia rilevante e prolungata nel tempo.
     In alternativa, nell’impossibilità di una definizione normativa di un concetto così ampio e generico, la individuazione ex ante e il controllo ex post sull’esistenza di tali specifiche fattispecie di incompatibilità e sull’insorgenza, in concreto, di eventuali conflitti di interessi potrebbero essere affidati, caso per caso, all’organo di controllo della fondazione e, in ultima istanza, alla valutazione dell’Autorità di vigilanza.
     Esula, invece, dall’esame di questo Consiglio di Stato la verifica della ragionevolezza (anche alla stregua del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, della Costituzione) del diverso regime tra i rappresentanti degli enti diversi dallo Stato di cui all’art. 114 Cost. – che possono essere «portatori degli interessi» degli enti designanti, tant’è che lo schema di regolamento, all’art. 3, comma 1, afferma espressamente che essi «rappresentano gli interessi del territorio di riferimento della fondazione» – e gli altri componenti degli organi delle fondazioni. Tale distinzione, infatti, si ritrova espressamente nella legge, che fa esordire l’ultimo periodo del comma 4 dell’art. 11 con l’inciso: «Salvo quanto previsto dal periodo precedente», relativo, appunto, ai rappresentanti degli enti territoriali.

     III.3 – ARTICOLO 3

     III.3.1 – L’art. 3, comma 1, dello schema disciplina la composizione dell’organo di indirizzo per le fondazioni di origine non associativa, stabilendo che esso «è composto, per una quota pari ai due terzi dei propri componenti, da persone che rappresentano gli interessi del territorio di riferimento della fondazione».
     La disposizione legislativa qui attuata è quella del comma 4 dell’art. 11 della legge n. 448, il quale, nel sostituire la lettera c) dell’art. 4, comma 1, del decreto legislativo n. 153, statuisce che tra i principi cui gli statuti devono conformarsi rientra la «previsione, nell’ambito dell’organo di indirizzo, di una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’art. 114 della Costituzione…».
     Anche in questo caso – come già all’art. 2, comma 3, dello schema, a proposito della prevalenza dell’attività svolta nei settori rilevanti – il regolamento stabilisce la «prevalente e qualificata rappresentanza» di cui parla la legge in una misura fissa, pari ai due terzi dei componenti.
     Questo Consiglio di Stato ritiene di dover ripetere quanto già affermato a proposito dell’art. 2, comma 3, dello schema sulla mancanza di fondamento legislativo per la fissazione in una misura numerica del concetto di «prevalenza» contenuto nella legge.
     Va ribadito, infatti, che il regime di «piena autonomia statutaria» delle fondazioni bancarie, affermato nell’art. 2, comma 2, del decreto legislativo n. 153, non può essere limitato da disposizioni che non trovino riscontro nella legge, ma che siano introdotte additivamente da un regolamento di attuazione ex art. 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988.
     L’intento del legislatore di non introdurre una quota percentuale fissa è confermato dalla mancata previsione di essa anche nella disposizione di interpretazione autentica della legge n. 448 contenuta nell’art. 5 del decreto legge n. 63 del 2002, come modificato dalla legge di conversione n. 112 del 2002, pur se una proposta di tal genere era emersa nel corso dei lavori parlamentari.
     In altri termini, anche in questo caso il legislatore, pur fissando un vincolo «di diritto speciale» e «ordinato per legge», che appare univoco e chiaro, all’autonomia delle fondazioni (la necessità di una «prevalente e qualificata rappresentanza»), non ha inteso incidere direttamente sulla medesima con l’indicazione di una misura aritmetica.
     Appare opportuno che, nell’espungere la determinazione di una misura fissa della prevalenza dal comma 2 dell’art. 3 (oltre, ovviamente, ad espungere dallo stesso comma l’espressione «di riferimento», già altre volte incontrata), il regolamento chiarisca che spetta agli statuti, con l’ordinario controllo da parte dell’Autorità di vigilanza, attuare direttamente la disposizione legislativa in esame, prevedendo per gli organi di indirizzo una «prevalente e qualificata rappresentanza» degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’art. 114 Cost.
     Anche in questo caso vale, infine, ripetere – come correttamente afferma anche la riferente amministrazione nella relazione di accompagnamento – che il concetto di «prevalente e qualificata» rappresentanza è più ampio di una mera, «simbolica» maggioranza aritmetica.
     D’altronde, la scelta del legislatore di demandare all’autonomia statutaria la definizione della misura della prevalenza appare coerente con la circostanza che il numero di componenti degli organi di indirizzo può variare, anche consistentemente, da una fondazione all’altra. Ciò conferma l’impossibilità di fissare una percentuale unica e la necessità di individuarla tramite lo statuto (ad esempio, in un ipotetico organo di indirizzo con soli tre componenti, la maggioranza del 50% più uno corrisponde alla maggioranza dei due terzi, ma anche in un organo con nove componenti la maggioranza di cinque membri equivale già ad una percentuale di oltre il 55%).
     Tale impostazione fa salvo, ovviamente, il ruolo di controllo e di garanzia da parte dell’Autorità di vigilanza, secondo le modalità stabilite all’art. 10 del decreto legislativo n. 153: sarà tale organo a verificare il rispetto dell’effettivo adeguamento da parte degli statuti al criterio della prevalenza.

     III.3.2 – Il comma 2 dell’art. 3 dispone che «I rappresentanti degli interessi del territorio di riferimento della fondazione sono designati da Regioni, Comuni, Province e, ove esistenti, Città metropolitane, distribuendo i poteri di designazione in modo da riflettere il territorio di riferimento delle fondazioni».
     Oltre a ribadire, anche per questo comma, la necessità di espungere l’espressione «di riferimento» accanto alla parola territorio (qui ripetuta due volte), la Sezione ritiene di segnalare le seguenti ulteriori osservazioni:
     – il comma non chiarisce chi distribuisce i poteri di designazione, essendo utilizzato il gerundio «distribuendo»; sarebbe opportuno esplicitare che tale distribuzione, che – come si è visto – può variare da fondazione a fondazione, non può che spettare agli statuti delle fondazioni (e non potrebbe essere altrimenti, in assenza di diversa disposizione legislativa);
     – può essere utile chiarire, in sede regolamentare, che il meccanismo di distribuzione dei poteri di designazione deve valere, ovviamente, anche nel caso in cui gli statuti non abbiano scelto di delimitare un territorio «di riferimento».

     III.3.3 – Il comma 3 dell’art. 3 disciplina la designazione delle «personalità», ovvero, secondo la definizione del comma 1 dello stesso articolo, dei soggetti di chiara fama e riconosciuta indipendenza in possesso di competenza ed esperienza specifica nei settori di intervento della fondazione, la cui presenza non è, comunque, in funzione della rappresentanza di interessi.
     Il dettato del comma è il seguente: «Le personalità sono designate da enti della società civile, di riconosciuta indipendenza e qualificazione, i quali operano nei settori di intervento della fondazione, non siano collegati agli enti di cui al comma 2 e non siano portatori di interessi politici o comunque estranei a quelli della fondazione; le personalità possono altresì essere designate da soggetti pubblici che operano nei settori di intervento delle fondazioni o aventi funzioni di garanzia. Le fondazioni danno adeguata motivazione delle scelte effettuate negli statuti per rispettare i criteri indicati nel presente comma».
     Ad avviso di questo Consiglio di Stato, l’attuale dizione del comma 3 va modificata in tre punti:
     sostituendo l’espressione «enti della società civile di riconosciuta indipendenza e qualificazione», che appare limitativa e di cui non v’è riscontro nella legge, che non definisce affatto i soggetti designanti diversi dagli enti territoriali.
     In assenza di un vincolo legislativo, si deve utilizzare una formula la più ampia possibile come, ad esempio, «soggetti di riconosciuta indipendenza e qualificazione» (includendo in tale ambito sia le persone fisiche che quelle giuridiche, come fa peraltro lo stesso schema in esame al comma 7 dello stesso art. 3). In tal modo, risulterebbe chiarito che possono essere designate anche personalità appartenenti, ad esempio, ad enti religiosi;
     – espungendo il duplice inciso «e non siano portatori di interessi politici o comunque estranei a quelli della fondazione».
     Quanto al primo profilo, pur se l’intento del Ministero appare comprensibile, sono sufficienti a tal fine i requisiti di assoluta indipendenza e qualificazione, nonché le varie incompatibilità disposte ai commi 3, 4, 6 e 7 dell’art. 11 della legge, mentre d’altro canto l’«interesse. politico» appare difficilmente definibile, con rischi di incertezze non irrilevanti che sembra opportuno non ingenerare (vi si potrebbero, ad esempio, far rientrare anche soggetti in qualche modo legati ad organismi che svolgono un’attività prevalentemente culturale e che sono intitolati a politici illustri della storia del Paese). Quanto al secondo inciso, esso appare tautologico e ultroneo in relazione al disposto immediatamente precedente, secondo cui i soggetti designanti già «operano nei settori di intervento della fondazione»;
     – eliminando l’ultimo periodo del comma, che impone un obbligo di «motivazione adeguata».
     Questo obbligo non è previsto dalla legge, mentre appare del tutto sufficiente l’obbligo del rispetto dei criteri dei commi 1 e 3 dello schema, che è, di per sé, oggettivamente verificabile da parte dell’Autorità di vigilanza, senza la necessità di ulteriori motivazioni.

     III.3.4 – Il comma 4 dell’art. 3 afferma che «Non è consentita la cooptazione per la formazione dell’«organo di indirizzo».
     Tale divieto è coerente con la espunzione di ogni riferimento legislativo alla nomina per cooptazione. Come già esposto al punto I.3 tra le linee generali di riforma, i commi 5 e 8 dell’art. 11 hanno difatti soppresso i riferimenti alla cooptazione prima presenti nel decreto legislativo n. 153 all’art. 4, sia al comma 1, lettera d), che al primo periodo del comma 5.

     III.3.5 – Il comma 5 dell’art. 3 introduce una disciplina speciale per le fondazioni di origine associativa che appare coerente con la lettera d) del comma 1 dell’art. 4, sostanzialmente conservata dalla riforma del 2001 (se si eccettua la soppressione del riferimento alla cooptazione). La specialità delle fondazioni di origine associativa è ribadita anche dalla legge n. 448 in un inciso del comma 4 («fermo restando quanto stabilito per le fondazioni di origine associativa dalla lettera d)»).
     Appare, in particolare, rispondente al dettato della suddetta lettera d) la possibilità di riservare alle assemblee (di cui l’istituzione abbia disposto il mantenimento in vita nell’ambito della fondazione) il potere di procedere alla definizione di una quota «fino alla metà dei componenti l’organo di indirizzo»: con operatività del criterio della prevalente e qualificata rappresentanza degli enti territoriali solo con riguardo alla restante quota dello stesso organo. Ciò comporta la possibilità (insita nel sistema del decreto legislativo n. 153 come modificato dalla legge n. 448) che nelle fondazioni di origine associativa i rappresentanti degli enti territoriali non costituiscano la maggioranza dell’organo di indirizzo della fondazione.
     Se la fondazione associativa opti per la conservazione dell’assemblea, a quest’ultima non potranno riconoscersi i poteri statutari che la nuova normativa (lettera b) del comma 1 dell’art. 4) attribuisce all’organo di indirizzo, che, insieme all’assemblea, resta operante in queste fondazioni.
     Il solo intervento di spettanza dell’assemblea – da esercitare, come dice la legge, in regime di «autonomia» e, perciò, al di fuori di ogni ingerenza dell’organo di indirizzo – sarà, quello di definire la percentuale dei componenti dell’organo di indirizzo da designare e di designare concretamente questi ultimi.

     III.3.6 – Riguardo al comma 6 dell’art. 3, relativo all’equilibrata rappresentanza dei soggetti che partecipano alla formazione dell’organo, mentre sui contenuti si riscontra una piena coerenza con il dettato legislativo (comma 4 dell’art. 11 della legge n. 448), sulla sistematica si osserva che la sua collocazione andrebbe con più evidenza collegata con quella di cui al comma 3 dello stesso art. 3.

     III.3.7 – Il comma 7 dell’art. 3, al primo periodo, disciplina le modalità di designazione dei componenti degli organi di indirizzo da parte di tutti soggetti cui tale potere è attribuito. Sul punto, lo schema afferma che a questi soggetti «non può essere imposto di designare un numero di persone superiore a quello delle persone da nominare a seguito delle loro designazioni».
     La relazione spiega che tale scelta mira ad evitare che venga imposto ai soggetti designanti il cd. «sistema delle terne», affermando che l’obbligo di una designazione multipla ha privato di fatto gli enti designanti della facoltà di scelta.
     Tale impostazione appare, innanzitutto, coerente con la tradizionale natura e portata dell’istituto della designazione in diritto amministrativo, senza che vi sia alcuna possibilità di confusione con il distinto provvedimento di nomina. Come da tempo affermato dalla più autorevole dottrina, tale istituto comprende anche la possibilità della «designazione secca», che si differenzia comunque dalla nomina in quanto la prima ha il ruolo di individuare il soggetto e la seconda di conferirgli lo status e i poteri che solo un formale atto di nomina può attribuire.
     In tale ottica, il far ricadere sul soggetto designante la scelta di indicare o meno una terna (o una rosa) di candidati non appare in contrasto con la legge (che si limita a parlare di «modalità di designazione», lasciando quindi aperta ogni possibilità nell’ambito del descritto istituto), ma anzi è reso necessario dalla autonomia degli enti di cui all’art. 114 Cost., che secondo il nuovo sistema devono «designare» i loro rappresentanti nelle fondazioni per la tutela dei propri interessi e ben possono farlo anche con il sistema della designazione «secca».

     III.3.8 – L’ultimo periodo del comma 7 dell’art. 3 conclude la disciplina della designazione e nomina dei componenti dell’organo di indirizzo, affermando che «In caso di mancanza o impossibilità di funzionamento dell’organo di indirizzo provvede l’organo di controllo, ovvero l’Autorità di vigilanza».
     La Sezione rileva che la legge non attribuisce all’Autorità di vigilanza, tra i pur vasti poteri conferitile dagli art. 10 e 11 del decreto legislativo n. 153, anche tale potere sostituivo di nomina dei componenti degli organi di indirizzo. D’altro canto, si osserva come una prolungata situazione di inerzia potrebbe richiedere, laddove ne sussistano i presupposti, l’intervento straordinario dell’Autorità di vigilanza ai sensi dell’art. 11 del decreto legislativo n. 153.
     Pertanto, ad avviso di questo Consiglio di Stato, le parole «ovvero l’Autorità di vigilanza» devono essere sostituite da un periodo autonomo, con cui si ribadisca che l’Autorità di vigilanza può comunque esercitare i poteri, anche di intervento straordinario, stabiliti dagli artt. 10 e 11 del decreto legislativo n. 153, nei casi e secondo le modalità ivi previsti.

     III.3.9 – Analoghe considerazioni valgono con riguardo all’ultima parte del comma 8 dell’art. 3, laddove si afferma che «qualora la designazione non venga effettuata entro detto termine, alla designazione può provvedere l’Autorità di vigilanza, salvo diversa disposizione statutaria, nel rispetto dei criteri di cui ai commi 1 e 2.».
     Difatti, anche tale potere sostitutivo di designazione, come quello di nomina di cui al comma precedente, non trova riscontro nella legge. In tal caso, però, non si potrebbe configurare neppure un potere di intervento straordinario da parte dell’Autorità di vigilanza, poiché l’inerzia non deriva dalla fondazione ma dai soggetti, estranei ad essa, che devono provvedere alla designazione.
     La Sezione ritiene, pertanto, che la disciplina della fattispecie del mancato esercizio del potere di designazione, in assenza di altri riscontri nella legge, debba essere interamente rimessa alle previsioni dei singoli statuti, riformulando in tal senso l’ultima parte del comma 8.

     III.4– ARTICOLO 4

     III.4.1 – Il comma 1 dell’art. 4, nell’affermare che «I soggetti che svolgono funzioni di indirizzo, amministrazione, direzione e controllo presso le fondazioni devono essere in possesso dei requisiti di professionalità e onorabilità indicati nei rispettivi statuti», riprende, nella sostanza, la lettera g) dell’art. 4, comma 1, del decreto legislativo n. 153 del 1999.
     Al riguardo, la Sezione ricorda nuovamente come in relazione a tale ultima norma il TAR Lazio abbia sollevato questione di legittimità costituzionale. La legge n. 448, al comma 6 dell’art. 11, non sembra avere modificato i termini della citata questione di costituzionalità, poiché non ha inciso sul ruolo dell’Autorità di vigilanza, limitandosi ad inserire, nella ricordata lettera g) del comma 1 dell’art. 4 del decreto legislativo, una precisazione al concetto di «requisiti di professionalità e onorabilità», secondo cui essi vanno «intesi come requisiti di esperienza e di idoneità etica confacenti ad un ente senza scopo di lucro».

     III.4.2 – Della suddetta precisazione si fa carico il comma 3 dell’art. 4 secondo cui «I requisiti di onorabilità sono requisiti di idoneità etica che comprendono non solo l’assenza di situazioni di rilevanza giudiziaria, fra le quali devono essere indicate almeno quelle previste per l ’onorabilità dei sindaci delle società quotate, ma altresì la presenza di una condizione di dignità e di chiara reputazione sociale che comporta rispetto e stima pubblica e che sia coerente con gli scopi della fondazione e contribuisca a preservarne l’immagine e il buon nome».
     La Sezione ritiene che la dizione utilizzata dalla legge («requisiti di esperienza e di idoneità etica confacenti ad un ente senza scopo di lucro») appaia più chiara e definita, oltre che direttamente attuabile da parte degli statuti, rispetto a quella contenuta nello schema in esame.
     L’espressione «situazioni di rilevanza giudiziaria» è ad esempio, fonte di possibili incertezze (al di là del discutibile ricorso ad un termine non tecnico come «situazioni» in un caso come questo, l’ampia portata dell’espressione potrebbe portare a ritenere «non onorabile» un cittadino il quale sia, per qualsiasi motivo, chiamato in causa dinanzi ad un giudice, anche se pretestuosamente, o anche se ciò avviene come controinteressato in un processo amministrativo o come convenuto in un processo civile che lo riguardi solo marginalmente). Essa appare, inoltre, assorbita dalla «idoneità etica» disposta dalla legge.
     Parimenti, appare poco chiara ed equivoca la dizione «reputazione sociale che comporta rispetto e stima pubblica» (e ciò soprattutto in una società in cui è sempre più facile per i cittadini essere vittime di disinformazione o di equivoci su organi di stampa e televisivi). Anche questo requisito, peraltro, appare meglio definito dalla necessità, già stabilita dalla legge, di possedere «esperienza» e «idoneità etica».
     Pertanto, la Sezione è dell’avviso che il testo del comma 3 dell’art. 4 dello schema debba essere ricondotto più fedelmente al dettato del comma 6 dell’art. 1 della legge, eliminando espressioni poco chiare o che possano comportare incertezze in sede applicativa e demandando, semmai, tale ulteriore specificazione alla dialettica tra l’autonomia delle fondazioni e il ruolo di controllo dell’Autorità di vigilanza.

     III.5 – ARTICOLO 5

     III.5.1All’art. 5, prima del comma 1, dovrebbe essere inserito un nuovo comma, che riproduca nella sostanza, ma con diversa formulazione, il disposto dell’art. 2, comma 6, dello schema.
     A proposito di quella norma si sono già esposte (cfr. retro, al punto III.2.7) le ragioni per questo spostamento della disposzione in esame dall’articolo sull’attività all’articolo sulle incompatibilità, come pure si è già detto della necessità di formulare diversamente l’eventuale nuovo comma 1 dell’art. 5, in maggiore rispondenza di quanto disposto dalla legge n. 448 all’ultima parte del comma 4 dell’art. 11.

     III.5.2 – L’attuale comma 1 dell’art. 5 dello schema, sotto un primo aspetto, ricalca fedelmente quanto disposto dalla legge n. 448 al comma 7 dell’art. 11, che ha testualmente introdotto un regime estremamente ampio di incompatibilità dei soggetti che – come ricordato al punto I.3 – «svolgono funzioni di indirizzo, amministrazione, direzione o controllo presso le fondazioni», i quali «non possono ricoprire funzioni di amministrazione, direzione o controllo presso la Società bancaria conferitaria o altre società operanti nel settore bancario, finanziario o assicurativo», con la sola eccezione di quelle «non operanti nei confronti del pubblico, di limitato rilievo economico o patrimoniale».
     Pertanto, il primo periodo del comma in esame appare forse ultroneo in quanto meramente ripetitivo del testo della legge, ma è proprio per ciò esente da censure proprie. Dell’impossibilità di esaminare in questa sede i possibili dubbi di costituzionalità anche in relazione a tale disposizione (pur da più parti ipotizzati) si è già detto più volte.
     In secondo luogo, la norma definisce in sede attuativa il concetto di «limitato rilievo economico e patrimoniale» contenuto nella legge, individuandolo in un patrimonio o in un fatturato annuo inferiore a cinque milioni di euro. Ciò sembra alla Sezione necessitato dalla genericità del dettato legislativo, che in questo caso – introducendo una deroga a un regime e non un vincolo univoco, come invece osservato a proposito degli artt. 2 e 3 dello schema – richiede la definizione di una misura unitaria per tale deroga e non appare quindi suscettibile di attuazione diretta da parte degli statuti delle fondazioni.

     III.5.3 – Il comma 2 dell’art. 5 fa salve «le incompatibilità indicate nell’Atto di indirizzo del Ministro del tesoro del 5 agosto 1999», per poi stabilire che «in particolare, i soggetti che svolgono funzioni di indirizzo, amministrazione, direzione o controllo presso le fondazioni non possono ricoprire cariche politiche o avere rapporti organici, di dipendenza o collaborazione con gli enti indicati nell’art. 3, comma 2».
     Sotto un primo profilo, ad avviso della Sezione, il divieto, contenuto nella seconda parte del comma 2 dell’art. 5, di «avere rapporti organici, di dipendenza o collaborazione con gli enti indicati nell’art. 3, comma 2» – pur non trovando riscontro nella legge n. 448 al comma 7 dell’art. 11 – non appare inutilmente limitativo dell’autonomia delle fondazioni, poiché non rende incompatibile le funzioni di indirizzo, amministrazione, direzione o controllo con ogni tipo di dipendenza o, addirittura, di mera collaborazione (il che potrebbe sussistere, ad esempio, per un professionista che svolga prestazioni di collaborazione per un ente designante). Questa più ampia incompatibilità non sembra voluta dal legislatore (che al comma 7 dell’art. 11 ha disposto altrimenti) e non può, quindi, costituire oggetto di disposizione regolamentare additiva. L’espressione «rapporti organici» utilizzata dal comma in esame appare, comunque, sufficiente a restringere l’ambito dell’incompatibilità ai soli rapporti di dipendenza o collaborazione che presuppongono, in concreto, un rapporto di carattere continuativo e prolungato, che si fondi su una interrelazione costante («organica», appunto) tra l’ente designante e il suo dipendente o il suo collaboratore.
     Ad ogni modo, per chiarire che «rapporti organici» non è un’espressione a sé stante ma va riferita direttamente ai rapporti di dipendenza e collaborazione indicati subito dopo e per evitare possibili equivoci interpretativi, è opportuno sopprimere la virgola tra le parole «rapporti organici» e le parole «di dipendenza».
     Sotto un secondo profilo, questo Consiglio di Stato ritiene che debba essere espunto l’inciso iniziale, secondo cui «restano ferme le incompatibilità indicate nell’Atto di indirizzo del Ministro del tesoro del 5 agosto 1999».
     L’art. 4, comma 1, lettera g), del decreto legislativo n. 153, nel richiamare l’art. 10, comma 3, lettera e), dello stesso decreto, impone il rispetto degli «atti di indirizzo di carattere generale aventi ad oggetto, tra l’altro i requisiti di professionalità e onorabilità, le ipotesi di incompatibilità e le cause che determinano la sospensione temporanea dalla carica …», operando un rinvio di tipo dinamico a tale tipologia di atto. Pertanto, non appare corretto recepire rigidamente, nello schema regolamentare in esame, uno specifico atto amministrativo, qual è l’Atto di indirizzo del 5 agosto 1999, fornendogli natura normativa e impedendo che i relativi contenuti possano poi essere modificati successivamente da un atto amministrativo del medesimo tipo.
     Pertanto – salvo il giudizio della Corte Costituzionale sulla questione, di cui è stata già investita, relativa all’attribuzione ad un atto amministrativo di indirizzo della potestà di prevedere ipotesi di incompatibilità rispetto ad uffici di diritto privato – si ritiene che il richiamo all’atto di indirizzo debba essere operato nei confronti dello strumento generale e non di un atto specifico, mantenendo in tal modo il carattere dinamico – e non recettizio – del rinvio previsto dal decreto n. 153.

     III.6 – ARTICOLO 6

     III.6.1 – Il comma 1 dell’art. 6 afferma che: «Le fondazioni investono il proprio patrimonio in attività coerenti con la loro natura di enti senza fini di lucro; in particolare, evitano gli impieghi esclusivamente speculativi e quelli relativi o collegati ad attività la cui natura o modalità di svolgimento, i cui titolari o beneficiari, o le loro attività, non siano trasparenti o siano in contrasto con norme imperative, con il buon costume o con gli scopi di utilità sociale delle fondazioni».
     Il testo del presente comma deve essere ricondotto più rigorosamente alla lettera della legge n. 448, che al comma 9 dell’art. 11 dispone che il patrimonio delle fondazioni – oltre a dover essere totalmente vincolato al perseguimento degli scopi statutari, come già affermava il comma 1 dell’art. 5 del decreto legislativo n. 153 – deve essere «gestito in modo coerente con la natura delle fondazioni quali enti senza scopo di lucro che operano secondo principi di trasparenza e moralità».
     Il dettato della legge appare alla Sezione più sintetico ma non per questo più generico o difficilmente attuabile; anzi, il rinvio a «principi di trasparenza e moralità», propri della prassi amministrativa e giurisprudenziale, appare preferibile alla formulazione dello schema in oggetto, che può dare adito a dubbi e incertezze interpretative.
Innanzitutto, l’espressione «evitano» del comma in esame appare meno appropriata di quella utilizzata dalla legge e introduce una connotazione «in negativo» che la legge non contiene (secondo il nuovo art. 5 del decreto n. 153, «il patrimonio … è gestito in modo coerente …»).
     Inoltre, non appare chiaro il concetto di «impieghi esclusivamente speculativi» (è dubbio se vi rientri, ad esempio, l’impiego del capitale in fondi di investimento, in alternativa all’acquisto di titoli di Stato). Tale concetto non trova riscontro nella legge ed è probabilmente assorbito dall’obbligo di coerenza con la natura non profit delle fondazioni bancarie. Anzi, si potrebbe ragionevolmente rilevare che l’espressione usata dallo schema non appare pienamente coerente con l’obbligo – imposto dallo stesso comma 1 dell’art. 5 del decreto legislativo n. 153 nel suo secondo periodo, non modificato dalla legge n. 448, nonché dall’art. 7, comma 1, del medesimo decreto legislativo, oltre ad essere ribadito dallo stesso schema di regolamento al successivo comma 2 – di osservare, nell’amministrazione del patrimonio, «criteri prudenziali di rischio, in modo da conservarne il valore ed ottenerne una redditività adeguata».
     Infine, il riferimento ad attività «in contrasto con norme imperative o con il buon costume» appare ultroneo, se non fonte di possibili incertezze interpretative, poiché, da un lato, risulta assorbito nella nozione legislativa di «trasparenza e moralità» e, dall’altro, è già implicito nella applicabilità «virtuale» della disciplina civilistica della nullità tramite il ricorso alle clausole generali.

     III.6.2 – Il comma 2 dell’art. 6 recita: «Fermo il rispetto del criterio dell’adeguata redditività, le fondazioni investono almeno il 10 % del patrimonio non investito nella Società bancaria conferitaria in impieghi relativi o collegati ad attività che contribuiscono al perseguimento delle loro finalità istituzionali e in particolare al/o sviluppo del territorio di riferimento, con specifico riguardo alle infrastrutture».
     Questo Consiglio di Stato ritiene che le specifiche prescrizioni del comma non trovino riscontro nella disposizione di legge che si intende attuare. Difatti, il comma 11 dell’art. 11 della legge n. 448 si limita ad imporre che le fondazioni impieghino il patrimonio «assicurando il collegamento funzionale con le loro finalità istituzionali ed in particolare con lo sviluppo del territorio».
     In particolare, la Sezione rileva la necessità di espungere dal comma:
     – la fissazione di una misura minima (qui stabilita nel 10%) per gli investimenti destinati ai territorio;
     – l’espressione «di riferimento»;
     – lo specifico riferimento alle «infrastrutture».

     Quanto alla fissazione della percentuale del 10% in assenza di un esplicito riferimento legislativo, si può in questa sede rinviare a quanto già osservato a proposito degli artt. 2, comma 3, e 3, comma 1. In questo caso, poi, si segnala l’ulteriore rilievo che la legge impone soltanto un collegamento funzionale, «in particolare», con lo sviluppo del territorio, intendendo così chiaramente demandare alle autonome scelte delle fondazioni l’individuazione delle forme, delle modalità e della misura di tale «collegamento con il territorio».
     Anche dell’assenza dell’obbligo di delimitare necessariamente un territorio «di riferimento» si è già detto in precedenza, a sostegno dell’esigenza di espungere tale riferimento da tutte le disposizioni dello schema, ivi compresa quella in questione.
     Quanto, infine, al riferimento alle «infrastrutture», non appare coerente con le finalità attuative dello schema in oggetto l’ulteriore specificazione di quella che nella legge è già una specificazione («ed in particolare con lo sviluppo del territorio»).
     Nello stesso senso, la Banca d’Italia aveva già segnalato – con nota del 14 maggio 2002 – che lo specifico riferimento alle infrastrutture «non sembra fornire alcuna indicazione aggiuntiva» rispetto al concetto di sviluppo del territorio di riferimento, nel quale, effettivamente, appare pienamente ricompreso.
     Ad avviso della Sezione occorre, pertanto, riprodurre nel regolamento la più ampia e comprensiva espressione usata dalla legge, anche per evitare che altre attività «funzionalmente collegate con il territorio» possano essere considerate di minor rilievo rispetto alla realizzazione delle infrastrutture: conseguenza, questa, non voluta dalla legge, che pone sullo stesso piano, anche nell’elenco dei settori ammessi, attività «territoriali» non comportanti la realizzazione di infrastrutture.

     III.7 – ARTICOLO 7

     L’art. 7 disciplina le partecipazioni bancarie di controllo.
     Tale articolo appare alla Sezione coerente, in tutti i suoi commi, con le finalità attuative dello schema di regolamento ministeriale in esame.
     Il comma 1 dell’art. 7, in particolare, riprende esattamente il disposto del comma 10 dell’art. 11 della legge n. 448 sulla nozione di controllo da parte di una fondazione, anche laddove prevede che esso «faccia capo, direttamente o indirettamente, in qualunque modo, a più fondazioni».
     La specificazione, poi, che tale controllo è rinvenibile «anche se queste non siano legate da accordi» trova fondamento – ad avviso di questo Consiglio di Stato – nel disposto legislativo «in qualunque modo o comunque sia esso determinato».
     Quanto al comma 2 dell’art. 7, anche la «individuazione delle forme di controllo ulteriori rispetto a quelle dei commi 2 e 3 dell’art. 6 del d. lgs. n. 153» appare, correttamente, circoscritta dallo schema «a quanto previsto dagli articoli 22 e 23, comma 2 del d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385», recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. Tale disciplina, pur se più restrittiva, in certi casi, di quella prevista dall’art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 153, appare espressamente richiamata ed estesa alla materia delle fondazioni dalla legge n. 448, al comma 13 dell’art. 11, che ha tra l’altro inserito un apposito comma 1-ter nell’art. 25 del decreto legislativo n. 153.

     III.8 – ARTICOLO 8

     III.8.1 – L’art. 8 dà applicazione alla previsione legislativa di cui al comma 13 dell’art. 11 della legge n. 448, che introduce la possibilità per le fondazioni di affidare «la partecipazione nella Società bancaria conferitaria» ad una «società di gestione del risparmio [cd. s.g.r.] che gestisce in nome proprio secondo criteri di professionalità e indipendenza e che è scelta nel rispetto delle procedure competitive», rinviando così la dismissione fino al 15 giugno 2006, secondo quanto previsto dalla combinazione dei commi 1 e 1-bis del nuovo testo dell’art. 25 del decreto legislativo n. 153.
     La tecnica della novella utilizzata dalla legge n. 448 provoca qualche problema di coordinamento in relazione alla scadenza dell’obbligo di dismissione, che il regolamento attuativo riferisce al 15 giugno 2003 per tutte le partecipazioni bancarie delle fondazioni, laddove il decreto legislativo n. 153 – non modificato in questa parte – riferiva ovviamente tale termine di scadenza soltanto alle partecipazioni «in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto» e quindi al 15 giugno del 1999.
     Appare, però, conforme alla ratio di riforma del sistema considerare unificata la tempistica dell’obbligo di dismissione anche per le partecipazioni eventualmente acquisite dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 153, come fa lo schema in esame. Tale ratio appare confermata dall’introduzione di un nuovo termine unitario da parte dell’art. 11, comma 13, della legge n. 448 – valido, questa volta, per tutte le partecipazioni in essere al 2002 – che proroga il termine finale di dismissione a «non oltre il terzo anno successivo alla scadenza indicata al primo periodo del comma 1» dell’art. 25 del decreto n. 153, e quindi unifica in via legislativa, almeno come dies a quo per il computo della proroga, l’applicabilità del termine del 15 giugno 2003 a tutte le partecipazioni detenute da fondazioni bancarie, anteriori o successive al 15 giugno 1999.
     Da un punto di vista meramente formale, si segnala come il comma 1 dell’art. 8 faccia riferimento, per la revoca del mandato, al comma 9 anziché al comma 8 dello stesso articolo, probabilmente in riferimento alla versione precedente dello schema.
     La previsione della irrevocabilità del mandato andrà, poi, espunta dal comma, secondo quanto osservato riguardo al comma 8 dello stesso art. 8 dello schema (cfr. infra, al punto III.8.5).

     III.8.2 – Quanto al comma 4 dell’art. 8, appare utile chiarire che il riferimento ai poteri di cui all’art. 25, comma 3, del decreto legislativo n. 153 deve essere effettuato, nel rispetto della fonte primaria, anche in relazione alle relative modalità di esercizio e non esercitando i poteri di cui all’art. 25 con modalità diverse da quelle ivi previste.
     Pertanto, sembra opportuno sostituire le parole «esercitando i poteri di cui all’art. 25», che possono dare adito a dubbi, con le parole: «nell’esercizio dei poteri e con le modalità di cui all’art. 25».

     III.8.3 – I commi 5, 6 e 7 dell’art. 8 disegnano una procedura speciale di scelta della s.g.r. «nel rispetto dei principi di pubblicità e di parità concorrenziale», come recita il comma 5.
     Questo Consiglio di Stato segnala che tale procedura – ancorché coerente con l’intento di soddisfare, al tempo stesso, le esigenze di trasparenza e di concorrenzialità e quelle di efficienza e celerità – non appare compatibile con la normativa comunitaria.
     Che alle fondazioni bancarie che non siano di origine associativa – e che, quindi, contengano nei rispettivi organi di indirizzo una quota «prevalente» di rappresentanti degli enti pubblici diversi dallo Stato di cui all’art. 114 Cost. – sia applicabile, ove si superi la soglia comunitaria di 200.000 euro, la disciplina di cui al decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157, che ha dato attuazione alla direttiva 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di servizi, è dimostrato dall’esistenza sia dei presupposti soggettivi che di quelli oggettivi.
     Quanto ai presupposti oggettivi per l’applicazione della disciplina comunitaria, la procedura competitiva di scelta della s.g.r. rientra nella disciplina comunitaria di evidenza pubblica degli appalti di servizi in quanto la relativa attività è riconducibile a quella descritta al punto 6, lett. b), dell’allegato 1 del decreto legislativo n. 157, che parla espressamente di «servizi bancari e finanziari».
     La disciplina comunitaria risulta, poi, applicabile anche avendo riguardo ai requisiti soggettivi.
     Come è ormai pacificamente riconosciuto dalla dottrina, l’ordinamento comunitario, al fine di garantire la completa liberalizzazione in tutti i settori degli appalti pubblici (di lavori, di servizi e di forniture) è passato dal carattere tassativo della elencazione dei soggetti tenuti ad osservare tale disciplina ad un criterio enumerativo-definitorio, in forza del quale, fra le amministrazioni aggiudicatici tenute all’applicazione della normativa in questione, sono compresi, oltre a soggetti nominativamente indicati e sicuramente pubblici (Stato, enti locali, etc.), i cd. «organismi di diritto pubblico», individuati attraverso indici rivelatori. Tali indici sono costituiti: dalla personalità giuridica (privata o pubblica); dall’essere stati istituiti per soddisfare specifiche finalità di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale; dal finanziamento pubblico o dal controllo pubblico ovvero dalla presenza, negli organi di amministrazione, di direzione o di vigilanza, di almeno metà dei componenti designati da soggetti pubblici (art. 1, lett. b), della direttiva n. 92/50/CEE e art. 2, comma 1, lett. b), del decreto legislativo n. 157 del 1995).
     In altri termini, con la previsione dell’organismo di diritto pubblico, l’ordinamento comunitario ha inteso sganciarsi dalla nozione di ente pubblico accolta nei singoli ordinamenti nazionali, elaborando una nozione «sostanziale» di organismo pubblico, che comprende anche soggetti che, pur non essendo formalmente qualificabili come pubblici, tuttavia possiedono rilevanza pubblicistica.
     Pertanto, la disciplina comunitaria in questione e quella interna di recepimento e adattamento sono applicabili anche a soggetti privati, purché in possesso dei prescritti indici rivelatori. Ai sensi della legge n. 205 del 2000, poi, la violazione, da parte dei soggetti stessi, della normativa predetta comporta il risarcimento del danno, che è subordinato all’annullamento dell’atto lesivo da parte del giudice amministrativo, che ha giurisdizione esclusiva in materia indipendentemente dalla natura pubblica o meno del soggetto che ha emanato l’atto.
     Avendo riguardo alla particolare materia delle fondazioni bancarie, le fondazioni non associative appaiono rientrare nella definizione di «organismo di diritto pubblico» contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. b), del citato decreto legislativo n. 157 del 1995.
     Difatti, le fondazioni in parola – certamente dotate di personalità giuridica e perseguenti interessi generali non economici – dovendo ora anche garantire una «prevalente e qualificata rappresentanza degli enti» pubblici negli organi di indirizzo, ricadono automaticamente – anche espungendo la misura dei due terzi fissata dallo schema – tra «gli organismi, dotati di personalità giuridica, istituiti per soddisfare specifiche finalità di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale … i cui organi di amministrazione, di direzione o di vigilanza sono costituiti, almeno per la metà, da componenti designati dai medesimi soggetti pubblici», di cui alla citata lettera b).
     La natura di organismi di diritto pubblico rivestita dalle fondazioni bancarie non associative imporrà pertanto, per i casi eccedenti la soglia comunitaria, il rispetto delle regole della gara europea, oltre che per la scelta delle s.g.r., anche per la realizzazione di tutti i servizi pubblici previsti dal decreto legislativo n. 157 cui la fondazione decida di indirizzare la propria attività, nonché per l’affidamento di lavori.
     La applicabilità alle fondazioni non associative della disciplina comunitaria comporta, ad avviso della Sezione, una rilevante disparità di disciplina con le fondazioni di origine associativa, nelle quali la regola è invece quella della «non maggioranza» dei rappresentanti degli enti di cui all’art. 114 Cost. ai sensi di quanto già rilevato con riguardo all’art. 3, comma 5, dello schema. Certo, per una esigenza di uniformità, gli statuti potrebbero estendere l’obbligo del rispetto delle procedure comunitarie anche alle fondazioni di origine associativa, ma questo dovrebbe essere il risultato di una autonoma scelta in assenza di una apposita disposizione di rango legislativo. L’importante, ai fini che qui rilevano, è che il regolamento ministeriale si dia carico di coordinare, sotto questo specifico profilo, l’esigenza attuativa della legge n. 448 con la disciplina di origine comunitaria.

     III.8.4Una volta chiarito il limitato ambito di applicazione che potrebbe ricevere la disciplina dei commi da 5 a 7, la Sezione ritiene comunque di dover segnalare l’esigenza di espungere, in ogni caso, il comma 7 dell’art. 8 dello schema.
     Infatti, il potere di «valutazione preliminare» delle procedure di scelta delle s.g.r. da parte dell’Autorità di vigilanza non trova fondamento né nel decreto n. 153 né nella legge n. 448 e non può essere introdotto additivamente dal regolamento attuativo, in contrasto con il principio legislativo di autonomia delle fondazioni.

     III.8.5 – Quanto al comma 8 dell’art. 8, esso va collegato alla previsione del comma 1 dello stesso articolo – che dispone l’affidamento della partecipazione nella società bancaria conferitaria alla s.g.r. «con mandato irrevocabile» – prevedendo, in deroga a tale irrevocabilità, due ipotesi distinte di revoca del mandato. Infatti, essa è possibile, da un lato, qualora la s.g.r. «non rispetti i criteri di svolgimento del servizio di gestione»; dall’altro, qualora «si verifichi un sostanziale mutamento dei presupposti considerati per l’affidamento dell’incarico».
     Al riguardo, la Sezione dà atto della configurabilità del rapporto della fondazione bancaria con la s.g.r. come contratto di mandato «a compiere uno o più atti giuridici» ex art. 1703 del codice civile, anche se questa tipizzazione andrebbe forse meglio chiarita al comma 1 dell’art. 8 dello schema.
     Si ritiene, invece, incompatibile con l’autonomia delle fondazioni bancarie il prevedere, al comma 1 dell’articolo in esame, in via generale, la irrevocabilità del mandato medesimo, in deroga a quanto disposto dall’art. 1723, primo comma, del codice civile (che prevede la regola generale della revocabilità del mandato, salvo il caso di mandato anche nell’interesse del mandatario, che non ricorre nel caso di specie) e in assenza di espressa disposizione speciale nella legge n. 448. Tale disposizione regolamentare altera infatti, senza fondamento legislativo, la natura squisitamente intuitu personae del contratto civilistico di mandato. Pertanto, la decisione sulla revocabilità o meno del rapporto di mandato tra fondazioni e s.g.r. va rimessa alla autonoma scelta delle parti.
     In tale ottica, il disposto del comma 8 dello schema va ricondotto non più a una tipizzazione dei casi eccezionali di revocabilità del mandato ma, semmai, a una tipizzazione delle ipotesi di giusta causa laddove le parti abbiano optato per l’irrevocabilità del mandato stesso. Difatti, poiché la disciplina codicistica conferisce al mandatario con mandato irrevocabile (ove ciò sia disposto dalle parti) il diritto al risarcimento dei danni «salvo che ricorra una giusta causa» (art. 1723, primo comma, e art. 1725 del codice civile), il regolamento dovrebbe altresì esplicitare che, nel caso in cui le parti optino per un mandato irrevocabile, le ipotesi di revoca previste espressamente al comma 8 dell’art. 8 dello schema si riferiscono, innanzitutto, a un contratto di «mandato» (e non ad un generico «incarico», come recita il comma 8) e, soprattutto, costituiscono una tipizzazione regolamentare della giusta causa che, nel peculiare caso di specie, consente al mandante di evitare il risarcimento dei danni per avere disposto la revoca nell’ipotesi di mandato irrevocabile.
     Pertanto, a fronte dell’espunzione dell’obbligo di irrevocabilità del mandato dal comma 1 dell’art. 8, il comma 8 dello stesso articolo va conseguentemente riformulato nei termini suesposti.

     III.9– ARTICOLO 9

     III.9.1 – Nell’ambito delle disposizioni transitorie, il comma 2 dell’art. 9 prevede che: «Al fine di assicurare la rapidità del processo di adeguamento statutario e agevolarne lo svolgimento le fondazioni limitano, nella fase di prima applicazione del presente regolamento, le modificazioni statutarie a quelle strettamente necessarie per gli scopi di cui al comma 1».
     La Sezione rileva che appare indebitamente restrittivo dell’autonomia statutaria delle fondazioni il limitare, in fase di prima applicazione del regolamento, la possibilità di apportare modifiche statutarie alle sole «strettamente necessarie» per l’adeguamento degli statuti medesimi alle disposizioni della legge n. 448 e dello stesso regolamento attuativo.
     La scelta sulla portata dell’intervento di modifica degli statuti deve essere, pertanto, lasciata all’autonomia delle singole fondazioni: la pur commendevole esigenza di celerità non può, da sola, impedire di provvedere, sin nella fase di prima applicazione della riforma, ad una revisione globale dello statuto, se singole fondazioni siano in grado di compierla rispettando anche i tempi stabiliti dal comma 14 dell’art. 11 della legge n. 448 e ribaditi dal comma 1 dell’art. 9 dello schema in oggetto.
     Appare, quindi, necessario prevedere espressamente che il limitare la portata delle modifiche statutarie alle sole «strettamente necessarie» per adeguarsi alla legge n. 448 costituisce una facoltà delle fondazioni, cui va concessa la possibilità di rinviare ad un momento successivo la riforma dell’intero statuto alla stregua della nuova normativa.
     Pertanto, sulla base delle esposte considerazioni, la parola «limitano» va sostituita dalle parole «possono limitare».

     III.9.2 – Il comma 4 dell’art. 9 detta, poi, una norma speciale per la entrata in carica dei nuovi organi delle fondazioni, disponendo che «Il nuovo organo di indirizzo entra in carica quando, scaduto il termine per la comunicazione delle designazioni, è stato nominato un numero di consiglieri sufficiente per la validità de/la costituzione dell’organo e delle relative deliberazioni, purché si sia provveduto alla nomina di tutti i soggetti la cui designazione sia stata comunicata alla fondazione entro il termine massimo previsto e purché la designazione sia regolare e sussistano le condizioni per la nomina».
     Ad avviso della Sezione, tale disposizione transitoria applica un principio di efficienza, già previsto per la costituzione degli organi di taluni enti pubblici. Tale principio si rivela particolarmente efficace nel caso in esame, dove la nomina dipende dalle designazioni di una molteplicità di soggetti, per cui, diversamente operando, potrebbe accadere che la mancata designazione anche da parte di uno soltanto di tali soggetti impedisca a tempo indeterminato la entrata in carica dell’organo.
     Peraltro, la disposizione in esame non si pone in contrasto con l’autonomia statutaria, poiché il «numero di consiglieri sufficiente per la validità della costituzione dell’organo» va comunque fissato dallo statuto, avendo presente che tale numero attiene al cd. quorum strutturale richiesto dallo statuto stesso per i vari tipi di deliberazione e che esso deve poter consentire l’adozione di ogni tipo di deliberazione.
     Tale circostanza potrebbe essere anche resa esplicita, inserendo un inciso del tipo «, secondo quanto disposto dallo statuto,» dopo le parole «e delle relative deliberazioni».

     III.9.3 – Quanto al comma 10 dell’art. 9, esso dispone che «In caso di inosservanza delle disposizioni di cui al presente articolo l’Autorità di vigilanza può adottare i provvedimenti previsti dall’articolo 11 del d. lgs. n. 153».
     L’art. 11 del decreto n. 153, non modificato dalla legge n. 448, disciplina il potere dell’Autorità di vigilanza, sentiti gli interessati, di disporre lo scioglimento degli organi o la liquidazione della fondazione, con relativa nomina di commissari straordinari, «quando risultino gravi e ripetute irregolarità nella gestione, ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative e statutarie, che regolano l’attività della fondazione» (comma 1 dell’art. 11), ovvero, per il caso di liquidazione, «in caso di impossibilità di raggiungimento dei fini statutari e negli altri casi previsti dallo statuto» (comma 7 dell’art. 11).
     Ad avviso della Sezione, non appare coerente con il dettato legislativo estendere i poteri di adozione di misure estreme, quali sono lo scioglimento degli organi, la liquidazione della fondazione e la nomina di commissari ad acta, al caso di «inosservanza delle disposizioni di cui al presente articolo», senza che sussistano i presupposti fissati dalla stessa norma di rango legislativo, nel senso che si tratti di «gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative e statutarie» per lo scioglimento degli organi o di «impossibilità di raggiungimento dei fini statutari» per la liquidazione (peraltro, tali due distinte misure corrispondono a situazioni diverse, mentre lo schema non distingue tra il ricorso all’una o all’altra), senza che si seguano le relative modalità, come ad esempio, in entrambi i casi, l’obbligo di sentire previamente gli interessati, e senza che si applichi la specifica disciplina dell’attività dei commissari ad acta nominati conseguentemente al verificarsi di entrambe le ipotesi.
     La Sezione ritiene, pertanto, che la norma in questione vada espunta: il che, naturalmente, lascia ferma la possibilità, per l’Autorità di vigilanza, di fare comunque applicazione dell’art. 11 del decreto n. 153, laddove ne ricorrano i presupposti e con le relative modalità.
     In alternativa, il comma in questione potrebbe essere conservato, purché venga richiamata in modo completo la possibilità di applicare l’art. 11 del decreto legislativo n. 153 qualora ne ricorrano tutti i presupposti (che variano a seconda degli interventi ivi disciplinati) e con le modalità ivi previste.

     III.9.4 – Si segnala, infine, al riferente Ministero la possibilità di dettare ulteriori disposizioni transitorie volte a tutelare gli affidamenti eventualmente ingenerati dall’attività delle fondazioni precedente alla riforma.
     In particolare, dovrà evitarsi che, con la nuova limitazione dei settori ammessi, possano essere abbandonati alcuni programmi già avviati (ad esempio, nel settore della ricerca) o alcune strutture, o infrastrutture, la cui realizzazione era già stata intrapresa sul territorio – magari avendo già erogato i relativi finanziamenti e ingenerato cospicui affidamenti – in settori che non potranno più essere seguiti dalle fondazioni. Si potrebbe, pertanto, consentire, in via transitoria, ove sia dimostrata l’esistenza di tali situazioni, la conclusione «a stralcio» di tali programmi o il completamento della realizzazione di tali strutture.
     Inoltre, considerato l’incisivo regime di incompatibilità, si potrebbe consentire ai componenti degli organi di indirizzo in carica alla data di entrata in vigore della riforma di poter espletare il loro mandato fino alla scadenza che sarebbe stata naturale – su cui per tali soggetti appare configurabile un diritto quesito e sulla cui durata erano insorte concrete aspettative –, fermi restando, ovviamente, i requisiti di professionalità e di onorabilità imposti dalla legge. Tale possibilità appare, peraltro, compatibile con il dettato del comma 7 dell’art. 9 dello schema, secondo cui «Le disposizioni dell’articolo 11 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 e del presente regolamento relative ai requisiti e alle incompatibilità dei componenti gli organi delle fondazione si applicano ai componenti degli organi ricostituiti ai sensi del presente articolo e alle nomine eventualmente effettuate medio tempore».

     IV – Alla stregua delle esposte considerazioni il Consiglio di Stato – nel dare atto della estrema delicatezza della materia, la cui disciplina è tuttora in evoluzione e che ha comportato svariati interventi da parte del legislatore, per certi profili attualmente al vaglio del giudice delle leggi – esprime il proprio parere favorevole sullo schema in oggetto con le osservazioni che precedono.
(Omissis)

 

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