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settembre 2002

Giurisprudenza

CORTE COSTITUZIONALE, ordin. 5 luglio 2002, n. 321 – Ruperto Presidente – Contri Estensore – Bombini c. Fall. Bombini
     È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, legge fall., nella parte in cui non prevede un limite temporale, decorrente dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento principale, per la dichiarazione del fallimento del socio occulto illimitatamente responsabile di una società di persone.


     Ritenuto
    
che il Tribunale di Trani ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non prevede un limite temporale, decorrente dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento principale, per la dichiarazione del fallimento del socio occulto illimitatamente responsabile di una società di persone;
     che il giudice rimettente è investito dell’esame di una istanza, presentata dal curatore del fallimento di un imprenditore individuale, con la quale si chiede di dichiarare il fallimento in estensione della società occulta costituita dal fallito e dai suoi genitori, e di questi ultimi quali soci illimitatamente responsabili della stessa;
     che, in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo osserva che la più recente giurisprudenza ha ribaltato l’orientamento, un tempo consolidato, pur se criticato dalla dottrina, secondo il quale gli artt. 10 ed 11 legge fall. si applicano al solo imprenditore individuale;
     che, ricordata la svolta rappresentata dalla sentenza della Corte n. 66 del 1999 ed il successivo dibattito sulle conseguenze di tale pronuncia interpretativa di rigetto, il Tribunale di Trani rileva come con la successiva sentenza n. 319 del 2000 la Corte abbia definitivamente chiarito le relazioni intercorrenti tra l’art. 10 e l’art. 147, primo comma, della legge fallimentare;
     che secondo il rimettente resterebbe comunque «discriminata la posizione del socio occulto», per il fallimento del quale non sussiste alcun limite temporale dal momento che la pronunzia di incostituzionalità ha riguardato il solo primo comma dell’art. 147 legge fall. e non ha investito anche il secondo comma della stessa disposizione;
     che il giudice rimettente osserva ancora come «non possa negarsi che l’esigenza di tutela del principio di certezza delle situazioni giuridiche dovrebbe ispirare anche l’applicazione del secondo comma dell’art. 147 legge fallimentare», esigenza ancor più sentita nel caso della estensione del fallimento al socio occulto, essendo in questo caso minore «o addirittura insussistente» la necessità di tutelare i creditori nei confronti di un soggetto del quale neppure conoscono la qualità;
     che, secondo il Tribunale di Trani, la posizione del socio occulto, che non può esternare il suo recesso con le forme legali di pubblicità e si vede esposto al rischio di una dichiarazione di fallimento per un tempo illimitato, andrebbe confrontata con quelle del socio receduto e del socio illimitatamente responsabile di società di persone trasformata in società di capitali, situazioni che appaiono diverse tra loro, ma non in modo tale da giustificare una disparità di trattamento riguardo al termine per la sottoposizione a fallimento;
     che, ad avviso del giudice a quo, la mancanza di un termine per l’estensione del fallimento al socio occulto, la cui qualità si sia manifestata ai creditori, al curatore o al pubblico ministero dopo la dichiarazione del fallimento della società - termine che dovrebbe decorrere dalla data della prima sentenza di fallimento - viola l’art. 3 Cost., né sarebbe possibile un’interpretazione secondo Costituzione della norma impugnata, mancando nella stessa un qualunque riferimento al momento preciso da cui far decorrere detto termine;
     che secondo il rimettente è assurdo prevedere, per il fallimento del socio receduto, il termine di un anno dal recesso dalla società, tenendo al contrario indefinitamente nell’incertezza il destino del socio occulto, dopo che questi ha perduto ogni controllo dell’impresa, atteso che «la nettezza della interruzione del rapporto sociale rappresentata dalla dichiarazione del fallimento principale combinata con l’intrinseca esigenza di concentrazione della procedura concorsuale dovrebbero imporre a maggior ragione il rispetto di un termine perentorio per definire la posizione del socio»;
     che secondo il giudice a quo, l’omessa previsione di un termine entro il quale possa esservi la pronuncia di estensione del fallimento nei riguardi del socio occulto urta non solo col principio di eguaglianza, ma anche con l’esigenza di dare certezza alle situazioni giuridiche e con quella di garantire ai creditori un accesso certo ed efficiente alla tutela giurisdizionale;
     che, sempre ad avviso del Tribunale di Trani, dovendosi stabilire un termine per l’estensione del fallimento al socio, questo dovrebbe essere fissato a far data dalla dichiarazione del fallimento principale;
     che nel giudizio di legittimità costituzionale si sono costituite le parti nei cui confronti il curatore del fallimento dell’impresa individuale ha chiesto al Tribunale di Trani la pronuncia di sentenza ex art. 147, secondo comma, legge fallimentare;
     che le parti private, ribadendo una specifica eccezione sollevata nel corso del giudizio a quo, ritengono che la norma impugnata dal Tribunale di Trani possa essere interpretata in senso costituzionalmente legittimo;
     che, ad avviso delle parti private, quello previsto dall’art. 10 legge fallimentare è un termine di decadenza applicabile in ogni caso e la cessazione per qualsiasi causa dell’impresa, pubblicizzata nelle forme di legge, costituisce il dies a quo dal quale esso inizia a decorrere;
     che, sempre secondo le parti costituite, una diversa interpretazione dell’art. 147 impugnato sarebbe incostituzionale, in quanto si tratterebbe dell’unico caso in cui, nonostante la cessazione dell’impresa, avvenuta a seguito della dichiarazione di fallimento, verrebbe dichiarato il fallimento dei soci decorso un anno dalla prima pronuncia;
     che le parti private chiedono, in subordine, che la Corte dichiari incostituzionale la norma impugnata nel senso indicato dal tribunale rimettente.

     Considerato
     che il Tribunale di Trani dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità dell’art. 147, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non prevede un limite temporale, decorrente dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento principale, per la dichiarazione di fallimento c.d. in estensione del socio occulto illimitatamente responsabile;
     che secondo il giudice a quo la disposizione impugnata violerebbe il principio di eguaglianza, poiché determinerebbe una disparità di trattamento, quanto al termine per la dichiarazione di fallimento, tra il socio occulto, da un lato, e l’imprenditore individuale ed il socio palese cessato per qualsiasi causa dalla società dall’altro, situazioni che, pur non essendo secondo il Tribunale di Trani identiche, sarebbero fra loro raffrontabili;
     che, sempre secondo il Tribunale di Trani, vi sarebbe violazione della stessa norma costituzionale anche avuto riguardo al principio di ragionevolezza, stante l’esigenza di dare certezza, anche per il fallimento in estensione del socio occulto, alle situazioni giuridiche e di garantire ai creditori un accesso certo ed efficiente alla tutela giurisdizionale;
     che la premessa da cui prende le mosse il giudice rimettente, in ordine alla ritenuta violazione del principio di eguaglianza, risulta palesemente erronea, non potendo in alcun modo essere poste a raffronto, ai fini della applicabilità del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento personale del socio illimitatamente responsabile di una società personale, due situazioni fra loro del tutto diverse quali sono quella del socio receduto da una società regolarmente costituita e registrata, nel rispetto delle forme di pubblicità prescritte dalla legge, e quella del socio occulto di una società irregolare perché non iscritta nel registro delle imprese o addirittura, come nel caso all’esame del tribunale rimettente, a sua volta del tutto occulta;
     che tutto il nostro sistema normativo, ed in particolare le disposizioni del libro V del codice civile in tema di responsabilità personale del socio per le obbligazioni delle società di persone, è improntato a netta differenza tra società registrate e società irregolari o occulte, potendo essere opposte ai creditori (salvo che questi ne abbiano avuto ugualmente conoscenza) solo le vicende, societarie o personali, regolarmente iscritte nel registro delle imprese, secondo quanto prescrivono gli artt. 2193 e 2200 cod. civ. e le altre disposizioni connesse;
che la stessa legge fallimentare, quanto alla ammissione alle procedure concorsuali, esclude le società irregolari, ed a maggior ragione quelle occulte, dal concordato preventivo e dalla amministrazione controllata (artt. 160 e 187 del r.d. n. 267 del 1942);
     che le sentenze di questa Corte n. 66 del 1999 e n. 319 del 2000, contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice rimettente, considerano appunto esclusivamente ipotesi nella quali sia stata regolarmente cancellata una società dal registro delle imprese ovvero nelle quali sia regolarmente pubblicizzata la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile a seguito di vicende che siano state, a loro volta, debitamente portate a conoscenza dei terzi nelle forme prescritte;
     che altrettanto infondata appare la questione sollevata, sempre con riferimento all’art. 3 Cost., in relazione alla violazione del principio di ragionevolezza;
     che, contrariamente a quanto sostiene il rimettente, è proprio la necessità di dare certezza alle situazioni giuridiche che consente al legislatore di prevedere una diversa disciplina per le società ed i soci in regola con le disposizioni sulla pubblicità e per i soci e le società irregolari, se non occulti, essendo la mancata registrazione una scelta degli stessi associati, che in tal modo si espongono, per loro volontà, alle conseguenze di tale loro opzione;
     che, infine, appare del tutto evidente come l’interesse dei creditori ad avere un accesso certo ed efficiente alla tutela giurisdizionale stia esattamente in senso contrario a quanto sostiene il giudice a quo, risultando la possibilità di chiedere il fallimento di chi ha volutamente occultato la propria qualità di socio, un mezzo di rafforzamento della garanzia patrimoniale;
     che la questione di legittimità costituzionale risulta perciò manifestamente infondata sotto ogni profilo.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Trani con l’ordinanza in epigrafe.

  

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