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luglio-agosto 2002

Giurisprudenza

Tribunale di Napoli, 28 maggio 2002 – Pres. Chiliberti – Rel. Aliperti – Giordano imp.
  
     Non esiste una continuità normativa tra l’attuale e la precedente normativa relativa al reato di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 cod. civ.)
, richiedendosi un evento in senso materiale, prima non integrante la fattispecie, ed ora essenziale all’esistenza del reato, laddove precedentemente rilevava unicamente come circostanza e solo se il danno era di rilevante gravità e direzionalmente subito dall’impresa.

 

     (Omissis) L’imputato è stato tratto a giudizio per rispondere, tra l’altro del reato di falso in bilancio di cui all’articolo 2621 cod. civ. Occorre allora, prima di procedere oltre nel dibattimento, affrontare il problema relativo alla modifica normativa dell’articolo 2621 cod. civ., operata dalla legge 61/2002, articolo che originariamente al primo comma, per la parte che ci riguarda, così recitava:
     «Articolo 2621 (False comunicazioni sociali ed illegale ripartizione di utili o di acconti sui dividendi).
     1. Salvo che il fatto costituisca reato più grave, sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da lire 2.000.000 a 20.000.000:
     1) i promotori, i soci fondatori, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali, fraudolentemente espongono fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime».
     La detta norma trova oggi risconto nelle due previsioni legislative degli articoli 2621 e 2622 novellati, il cui tenore è:
     «Articolo 2621 (False comunicazioni sociali). – 1. Salvo quanto previsto dall’articolo 2622, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale, o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, sono puniti con l’arresto fino ad un anno e sei mesi.
     2. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti od amministrati dalla società per conto di terzi.
3. La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%.
4. In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta.»
     «Articolo 2622 (False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori). 1. Gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, esponendo fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni, ovvero omettendo informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, cagionano un danno patrimoniale ai soci o ai creditori sono puniti, a querela della persona offesa, con la reclusione dai sei mesi a tre anni.
     2. Si procede a querela anche se il fatto integra altro delitto, ancorché aggravato a danno del patrimonio di soggetti diversi dai soci e dai creditori, salvo che sia commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici e delle Comunità europee.
     3. Nel caso di società soggette alle disposizioni della parte IV, titolo III, capo II, del decreto legislativo 58/1998, la pena per i fatti previsti al primo comma è da uno a quattro anni e il delitto è procedibile d’ufficio.
     4. La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.
     5. La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è esclusa se la falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se la falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%.
     6. In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta».
     Dalla comparazione tra le dette norme emerge quanto segue.
     Il reato era e resta proprio, anche se c’è per un verso riduzione dei soggetti che possono commetterlo (non sono più soggetti attivi i promotori e soci fondatori, e dunque il reato non è più previsto nella fase costitutiva della società) e per altro verso l’estensione di cui all’articolo 2639 cod. civ.
     La condotta, sia nell’ipotesi contravvenzionale dell’articolo 2621 che in quella delittuosa dell’articolo 2622 cod. civ, è vincolata quanto all’oggetto materiale che è risultato del reato, e che deve consistere in relazioni, o altre comunicazioni sociali, tra le quali debbono ricomprendersi i bilanci, ma non più in qualsiasi relazione ecc., bensì solo in quelle dirette ai soci e al pubblico (dunque con esclusione di quelle dirette alle autorità di vigilanza – a cui presidio è posta la norma, del nuovo articolo 2638 – a destinatari singoli ecc.), ed imposte per legge. Dette relazioni e comunicazioni per integrare il reato dovevano contenere l’esposizione di fatti non corrispondenti al vero (sulla costituzione o) sulle condizioni economiche della società, e nella nuova formulazione dell’articolo 2621 cod. civ. deve trattarsi di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazione, sulla situazione non più solo economica, ma anche patrimoniale e finanziaria. Per vero la nuova formulazione non sembra comportare modifiche sostanziali, introducendo elementi che possono considerarsi precisazioni del vecchio dettato normativo in senso ampliativi, sì che quanto descritto dalla vecchia norma non viene meno.
     Dunque i meri ampliamenti e riduzioni soggettivi e le mere precisazioni della condotta, che non incidono sull’essenza del reato, non sono idonei a produrre una soluzione di continuità tra le norme.
     Immutata resta nell’articolo 2621 novellato la natura di reato di condotta e di pericolo e sono previste una soglia di punibilità in basso e un limbo in cui la variazione della misura sensibile o meno dell’alterazione è rimessa al giudice.
Nel nuovo articolo 2622 cod. civ. – prescindendo dall’ipotesi di occultamento, che non riguarda il caso in esame – del pari integra il reato la comunicazione di fatti materia non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazione, sulla situazione non più solo economica, ma anche patrimoniale e finanziaria e si richiede l’idoneità della condotta ad indurre in errore i destinatari (soci e pubblico).
     Elemento diversificante sia della fattispecie previdente, sia dall’ipotesi contravvenzionale ora vigente, è il requisito del danno, essendo configurata come reato di evento. Il reato è identico a quello previsto perseguibile a querela (è procedibile d’ufficio solo se riguarda società quotate in borsa). Soggetto passivo sono i soci e i creditori, anche se l’intenzione è ingannare i soci e il pubblico (concetto più lato di creditori).
     Solo apparentemente diverso è l’elemento psicologico. Questo, nel regime previdente, era, per costante interpretazione giurisprudenziale, il dolo specifico di indurre in errore i soci o i terzi in ordine all’effettiva situazione patrimoniale, con il proposito di consegnare un ingiusto profitto per sé o per altri, senza che occorresse la volontà di cagionare un danno, di cui è sufficiente la previsione.
     Oggi è descritto come intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto: dunque è immutato, e deve configurarsi come dolo specifico, siccome nell’ipotesi dell’articolo 2621 (contravvenzione punibile a titolo di dolo) va oltre l’evento della messa in pericolo del bene giuridico, ed in quella dell’articolo 2622 è ugualmente dolo specifico, siccome non si richiede che il fine dell’ingiusto profitto per sé o per altri sia conseguito. La dettagliata descrizione non è altro che l’esplicitazione dell’interpretazione giurisprudenziale dell’avverbio «fraudolentemente». Anche per l’ipotesi dell’articolo 2622 sono previste una soglia di punibilità in basso e una sfera in cui la valutazione della misura sensibile o meno dell’alterazione è rimessa al giudice.
     A parere del collegio l’introduzione di soglie di punibilità, che si configurano come cause di non punibilità laddove non si raggiunga un certo livello percentuale di alterazione del risultato economico e del patrimonio netto non elimina la continuità normativa, che permane nell’ambito della dimensione del fatto che non ricada all’interno di dette soglie. Del pari è irrilevante l’introduzione di una causa di procedibilità, attendendo ad un aspetto che è esterno all’in sé del reato.
     Va piuttosto detto che la continuità normativa viene meno in ordine alla configurazione del reato come delitto di danno, richiedendosi un quid pluris, un evento in senso materiale, prima non integrante la fattispecie, ed ora essenziale all’esistenza del reato, laddove precedentemente rilevava unicamente come circostanza e solo se il danno era di rilevante gravità e direzionalmente subito dall’impresa. Dunque l’ipotesi dell’articolo 2622 recide il cordone ombelicale con la norma da cui discende, ma non soltanto per questa ragione, bensì anche in considerazione del fatto che elemento di assoluta novità risulta essere l’idoneità della condotta da indurre in errore i destinatari (soci e pubblico), senza che possa affermarsi che detta idoneità era implicita anche prima, stante la natura di reato di pericolo, che impone di leggere la norma incriminatrice in uno alla norma penale generale dell’articolo 56 cod. pen. A ben vedere, infatti, la mancata previsione di tale idoneità da parte della norma originaria comportava che il reato dovesse considerarsi di pericolo presunto, laddove per effetto della nuova norma esso è reso reato di pericolo concreto. La stessa ragione, essendo prevista tale idoneità anche nell’ipotesi del novellato articolo 2621 cod. civ., induce a negare la continuità normativa tra la norma abrogata e quest’ultima, per giunta di natura contravvenzionale.
     Ne consegue che deve dichiararsi che il fatto non è più preveduto come reato. (Omissis)

 

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