dircomm.it

luglio-agosto 2002

Giurisprudenza

Corte di Cassazione, 9 maggio 2002, n. 6599; Paolini Presidemte – Falcone Relatore – Distilleria A Marzadro s.n.c. c. Ministero delle Finanze
     Nella legislazione vigente l’Amministrazione Finanziaria non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori nelle società di persone, per cui tali compensi sono deducibili come costi della società.


     Svolgimento del processo.
– La s.n.c. Distilleria A. Marzadro di Marzadro Andrea e C. ha impugnato gli avvisi con i quali l’ufficio ha accertato nei cuoi confronti per gli anni 1988 e 1989 un maggior reddito ai fini Ilor, sia perché ha ridotto l’ammontare del compenso liquidato ai soci amministratori ritenuto sproporzionato, e sia perché ha escluso la deduzione di cui all’articolo 120 del Tuir perché i soci non prestavano nell’impresa il proprio lavoro in modo prevalente.
     La Commissione di primo grado ha accolto il ricorso, mentre la Commissione Regionale ha riformato la decisione, sostenendo la legittimità degli accertanti.
     Ha proposto ricorso la società deducendo tre motivi. Ha resistito il Ministero delle Finanze con controricorso. La società ha presentato una memoria.

     Motivi della decisione. – Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli articoli 52, 62 e 75 t.u.n. 917/1986, 37 3° comma d.p.r. n. 600/73, e 112 cod. proc. civ., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione in quanto erroneamente la Commissione Regionale ha confermato la legittimità degli accertamenti basati su un giudizio di congruità delle somme liquidate agli amministratori, giudizio che non compete all’ufficio, avendo l’articolo 62 citato soppresso, per i compensi degli amministratori, il riferimento ai valori correnti contenuto nel precedente articolo 59 del d.p.r. n. 597/73. Ha aggiunto che un tale giudizio non poteva essere fatto neanche in base al principio di inerenza di cui all’articolo 75, quinto comma del Tuir (norma peraltro non menzionata dall’ufficio), né poteva essere giustificato con un riferimento all’art. 37, 3° comma del d.p.r. n. 600/73, sia perché per applicare questa norma è necessaria una motivazione particolarmente penetrante che metta in luce le prove anche (o specialmente) presuntive, e sia perché non c’è stata interposizione di persona dal momento che quelle somme date agli amministratori sono stati costi perla società e redditi per altri soggetti.
     Ha sostenuto infine che la sentenza impugnata ha errato a confondere tra sproporzione nella misura dei compensi rispetto alla struttura aziendale ed interposizione come ragione di una riduzione dei compensi stessi, e ciò ha fatto con una motivazione contraddittoria e andando anche ultra petita, con un riferimento al principio di inerenza non sostenuto dall’ufficio.
     Con il secondo motivo la società ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’articolo 120 del t.u.n. 9l7/86 poiché ha sostenuto l’errore dell’ufficio nel negre la deduzione del 50% della quota del reddito spettante a ciascuno dei soci che prestano la propria opera nell’impresa come occupazione prevalente sul presupposto che la generalità dei soci ha goduto di un reddito di natura autonoma prevalente utili ai fini della deduzione. Ha ritenuto che non si può fare una distinzione tra attività prestata come amministratore in una società di persone e attività prestata come socio per poi escludere la deduzione prevista dall’articolo 120 citato, posto che normalmente questa norma opera a vantaggio di soci di società di persone che prestano la loro opera e che sono per legge anche amministratori.
     Con il terzo motivo, ed in via subordinata, la ricorrente ha dedotto violazione dell’articolo 120 Tuir, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione in quanto, se si tiene ferma la possibilità del giudizio di congruità sulle somme liquidate per compensi agli amministratori e si giunge alla riduzione degli stessi a misura assai modesta, tali compensi non sarebbero incompatibili con la prestazione di lavoro.
     Il Ministero delle Finanze ha incentrato la sua difesa sulla scarsa credibilità, sotto il profilo economico, dell’operazione effettuata dalla società che, liquidando lauti compensi agli amministratori, «è riuscita a realizzare un rilevante risparmio d’imposta». Inoltre, il resistente ha rilevato una contraddittorietà nel comportamento della società, che da un lato ha compensato lautamente i soci per la loro attività amministrativa (riconoscendo il loro indiscusso impegno per la stessa società in termini di tempo), e dall’altro ha insistito con il sostenere la prevalenza dell’attività prestata dagli stessi come semplici soci.
     Nella memoria la società ha evidenziato come correttamente a suo avviso il giudice di primo grado aveva escluso che il potere di ridurre i costi da parte dell’ufficio venisse collegato all’articolo 37, comma 3 del d.p.r. n. 600/73, ed aveva affermato che l’unico limite generale dell’attribuzione di compensi rimane quello dell’inerenza e quindi quello dell’effettività delle prestazioni. Su questa base, ha quindi, rilevato che questo capo della sentenza non è stato impugnato, per cui su di esso si è formato il giudicato, ma ha anche aggiunto che con il principio di inerenza non si abilita l’ufficio a verificare in generale la congruità dei costi e spese revisionando ogni posta del conto economico, e che al contrario l’imprenditore è libero di impostare la sua strategia di impresa, sicché solo eccezionalmente il principio di inerenza può fare da limite ad un abuso manifesto dell’imprenditore.
     Ritiene la Corte che il primo motivo del ricorso è fondato e merita accoglimento.
     Il problema da esaminare è quello della esistenza o meno del potere dell’Amministrazione di valutare la congruità dei compensi liquidati agli amministratori nelle società di persone.
     Di recente, al problema è stata data soluzione positiva sul presupposto che «l’amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedure a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, e di conseguenza negare la deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa. Pertanto, la deducibilità ai sensi dell’articolo 62 del d.p.r. n. 917 del 1986 dei compensi agli amministratori, soci e non soci, delle società in nome collettivo non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti» (Cass. sent. n. 13478/01, che ha confermato Cass. sent. n. 12813/00).
     Questo orientamento, sostanzialmente ancorato all’esistenza di un potere generale di valutazione dei costi e dei ricavi, insito nei poteri di accertamento dell’amministrazione, non può essere condiviso nello specifico, con riferimento alle somme corrisposte a titolo di compenso degli amministratori nelle società di perone per le seguenti considerazioni.
     l)Ll’articolo 62 del T.U. n. 9l7/86 disciplina, nell’ambito delle regole da seguire per la determinazione del reddito d’impresa, la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro.
     Il terzo comma di questa norma prevede che «I compensi spettati agli amministratori delle società in nome collettivo e in accomandita semplice sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti; quelli erogati sotto forma di partecipazione agli utili sono deducibili anche se non imputati al conto dei profitti e delle perdite».
     Né in questa norma, né in altre, esiste un riferimento a tabelle o ad altre indicazioni vincolanti, contenenti limiti massimi di spesa, oltre i quali tali compensi non possono essere deducibili. Si può dunque affermare che nel sistema la spettanza e la deducibilità dei compensi agli amministratori è determinata dal consenso che si forma o tra le parti o nell’ambito dell’ente sul punto, senza che all’Amministrazione sia riconosciuto un potere specifico di valutazione di congruità.
     Peraltro, questa carenza di potere specifico emerge in tutta la sua evidenza se si fa riferimento alla norma in vigore prima del Tuir, e cioè all’art 59 del d.p.r. n. 597/73 che era del seguente tenore: «I compensi corrisposti dalle società in nome collettivo e in accomandita semplice ai soci amministratori sono deducibili nei limiti delle misure correnti per gli amministratori non soci». Questa norma, sapientemente, tendeva ad evitare le possibili manovre elusive che attraverso la maggiorazione dei compensi agli amministratori-soci può senz’altro essere posta in essere per non pagare nella misura dovuta l’imposta che fa capo alla società di persone L’eliminazione (in sede di redazione del Tuir) del riferimento del limite delle «misure correnti per gli amministratori non soci» ha senza dubbio natura innovativa poiché ha tolto all’Amministrazione (verosimilmente in maniera innovativa e senza che ve ne fossero ragioni convincenti e condivisibili) il potere di ricondurre ai prezzi di mercato previsti per gli amministratori non soci (prezzi facilmente individuabili nel concreto) i compensi sproporzionati. La nuova disciplina ha, quindi, totalmente liberalizzato il concetto di spettanza ai fini della deducibilità.
La mancanza, poi, nel sistema di una clausola generale antielusiva è di ostacolo al riconoscimento, nell’attualità, di un potere dell’Amministrazione a fare questo tipo di valutazione per questi comportamenti (l’articolo 37 bis del d.p.r. n. 600/73 prevede, infatti, ipotesi tassative tra le quali non si può comprendere quella in esame).
     2) Né, per superare questi ostacoli, può farsi ricorso al rneccanismo dell’interposizione di persona di cui al 3° comma dell’articolo 37 del d.p.r. n. 600/73, poiché nella fattispecie in esame si discute solo di deducibilità o meno per un soggetto di costi (che all’Amministrazione sono apparsi eccessivi), e non di imputazione di reddito ad un soggetto piuttosto che ad un altro (i costi che risultano sostenuti dalla società risultano nella stessa misura reddito per altri soggetti, per cui non vi è una interposizione).
     3) Né, per riconoscere il potere di valutazione, può farsi riferimento alla disciplina dell’inerenza.
     Intanto, c’è da dire che sulla questione dell’inerenza non si è formato nella specie il giudicato, essendo l’appello stato proposto nei confronti di tutta la decisione di primo grado che ha accolto il ricorso.
     Il problema non può essere risolto sull’inerenza poiché in questa materia (dell’inerenza) a fini impositivi rileva tendenzialmente il profilo della “qualità” del costo piuttosto che quello della “quantità”, proprio perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia d’impresa. Orbene, il costo è inerente se serve a produrre ricavi; una volta accertata questa qualità del costo, è abbastanza difficile potere dire (senza scivolare in una zona grigia, tendenzialmente te molto discrezionale) in quale misura esso è deducibile o meno, tranne che non vi sia una indicazione normativa specifica, che ponga un tetto alle spese.
     Nella specie, non si può certo dubitare che i compensi dati agli amministratori siano costi inerenti alla attività d’impresa, sicché per questa via, in mancanza di una norma che ponga un limite tendenzialmente oggettivo, il controllo di congruità deve escludersi.
     Gli è che esiste in realtà un problema di possibile elusione che la norma precedente al Tuir tendeva ad evitare, e che il legislatore attuale dovrebbe risolvere, o con il ripristino della (specifica) regola anteriore al testo unico, o con l’introduzione di una clausola generale antielusiva, che riconosca un generale potere di valutazione sull’esistenza delle «valide ragioni economiche» di un atto o di un comportamento.
     In questo contesto, la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese, ad altra Sezione della Commissione di secondo grado di Trento che applicherà il seguente principio di diritto: «Allo stato attuale della legislazione l’Amministrazione Finanziaria non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori nelle società di persone, per cui tali compensi sono deducibili come costi alla stregua dell’articolo 62 del tu. n. 9l7/86».
     L’accoglimento del primo motivo rende infondato il terzo motivo, formulato in via subordinata.
     Ma anche il secondo motivo è infondato poiché la deduzione dell’articolo 120 del Tuir non può spettare nel caso in cui l’attività di amministratore di società di persone risulti prevalente, come nella specie, a quella di socio. Questa Corte ha già manifestato questo orientamento nella sentenza n. 946/00, secondo la quale «la deduzione ai fini ilor, prevista dall’art. 7 d.p.r. n. 599 del 1973 (e successivamente dall’articolo 120 t.u. n. 9l7 del 1986) si applica per i redditi di impresa delle persone fisiche, a condizione che il soggetto cui la deduzione si riferisce presti la propria opera nell’impresa e che tale prestazione costituisca la sua occupazione prevalente; quanto alle società di persone, è consentito dedurre ai finì ilor le quote di reddito derivanti dalla partecipazione agli utili del socio, in quanto al medesimo imputate ai fini irpef come reddito proprio del contribuente e non della società, tuttavia, quando il reddito del socio non è quello derivante dalla partecipazione agli utili, ma rappresenta un costo affrontato dalla società per compensare il lavoro del socio che, come nella specie, esplichi attività di amministratore la deduzione non può aver luogo, riferendosi essa al reddito del socio quale percettore di utili, senza che possa aver rilievo il fatto che il socio amministratore lavori prevalentemente per la società’ attenendo il concetto di prevalenza, ai fini della deduzione de qua, al solo reddito del socio in quanto tale». Nella specie non sono emersi elementi nuovi idonei a fare modificare questo orientamento, che merita condivisione. (Omissis)
     

Top

Home Page