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luglio-agosto 2002

Studî e commenti

MARIO BUSSOLETTI

Procedimento sanzionatorio e “vicende modificative dell’ente”
nella legge sulla responsabilità amministrativa degli enti collettivi *



     1. Premesse
     Il tema che mi è stato assegnato dai colleghi penalisti è circoscritto, in quanto concerne la sorte delle sanzioni a carico dell’ente collettivo in occasione delle vicende definite dal D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, come «modificative dell’ente» (trasformazione, fusione, scissione, trasferimento di azienda).
     Prima però di entrare in medias res, desidero avanzare una preliminare perplessità, riferita all’art. 1 della legge. Tale disposizione stabilisce, al comma 2, che le previsioni del decreto delegato di cui si discute si applichino esclusivamente agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
     La normativa in questione è legge di stretta interpretazione, che si situa a metà strada fra la disciplina delle sanzioni amministrative e la disciplina penale. Per effetto del divieto di applicazione analogica che caratterizza ambedue i sistemi sanzionatori, ne deriva che non possono essere ritenuti responsabili enti collettivi privi di personalità giuridica che siano diversi dalle associazioni e dalle società.
     In tal modo, però, nelle maglie della legge si apre un varco non trascurabile, rappresentato da discutibili esenzioni: mi riferisco innanzitutto all’ipotesi, maggiormente frequente nella pratica degli affari, dei consorzi. Questa figura nell’originaria impronta del codice civile era da molti ricondotta alle associazioni; ma ritengo che ormai tale assimilazione non sia più corretta, per effetto delle modifiche apportate alla disciplina dei consorzi nel 1976, modifiche che hanno rafforzato la natura di “contratto tra imprese” dei consorzi, avente ad oggetto la disciplina e/o la reciproca integrazione delle rispettive attività imprenditoriali. Conseguentemente, si è accentuata la differenza tra i consorzi e altre figure associative il cui oggetto e scopo non sia direttamente connesso con l’attività imprenditoriale dei consorziati.
     Certamente, i G.E.I.E. e le fondazioni non riconosciute non sono riconducibili all’elenco di cui al comma 2 dell’art. 1.
     È davvero singolare che le associazioni non riconosciute siano destinatarie di questa normativa, e le fondazioni non lo siano; tanto più se si considera che nel nostro ordinamento sono sempre più frequenti casi di attenzione alle fondazioni e, in particolare, alle fondazioni che abbiano anche per oggetto principale o secondario l’esercizio, diretto o indiretto, di un’attività d’impresa.
     In senso contrario, mi risulta che fra numerosi interpreti di formazione penalistica stia consolidandosi l’orientamento secondo cui destinatari della normativa in questione sarebbero tutti i soggetti collettivi, ad eccezione di quelli esonerati dal terzo comma dell’art. 1.
     Tale interpretazione non è però condivisibile, perché trascura che l’area dei destinatari della disciplina è individuata in positivo dal precedente secondo comma, e che il terzo comma provvede solamente a ritagliare alcune eccezioni all’interno di tale area. Pertanto, i soggetti che in partenza fossero situati al di fuori dell’area di cui al secondo comma non hanno necessità di essere esonerati ai sensi del terzo comma.
     Procedo ora alla trattazione del tema oggetto del presente intervento, anticipando la chiave di lettura del mio contributo.
     Il legislatore ha seguito un approccio del tutto corretto dal punto di vista del sistema del diritto commerciale, nel selezionare una disciplina differenziata fra ipotesi di trasformazione, fusione, scissione e trasferimento di azienda o ramo d’azienda. Effettivamente, la trasformazione è solamente un “cambio d’abito”, fusione e scissione sono atti di organizzazione piuttosto che di trasferimento di beni, il trasferimento di azienda è un vero e proprio atto intersoggettivo di trasferimento di beni.
     Tuttavia, ritengo che, dal punto di vista del sistema sanzionatorio, tale distinzione di disciplina sia “libresca” e soprattutto, in una certa misura, sbagliata, come tenterò di dimostrare in seguito.

     2. La trasformazione
     Il termine trasformazione evoca il divenire altro di un soggetto, divenire evidentemente non naturalistico, bensì costituito dal mutamento, anche radicale, della veste giuridica. Si potrebbe affermare che in una trasformazione vera e propria non dovrebbe scorgersi un fenomeno estintivo con successiva costituzione di nuovo soggetto ovvero un fenomeno di successione fra due distinti (e coesistenti) soggetti. Queste ultime sono infatti circostanze – per stretta logica – non coerenti con il fenomeno di un soggetto che, semplicemente, “diviene”. Ma il dato non è univoco nel diritto vigente.
     In diritto societario, la trasformazione è negozio giuridico nominato, mediante il quale si pone in essere il passaggio di una società da un tipo all’altro.
     Negli stessi termini, il concetto di trasformazione è stato esteso al di là dei confini societari. Leggi speciali hanno previsto l’applicazione di questo istituto per consentire (o imporre) la trasformazione di un ente, pubblico o privato, anche non a struttura associativa, in società di capitali. Mi riferisco, in primo luogo, alla privatizzazione formale delle banche pubbliche (L. 30 luglio 1990, n. 218; D. Lgs. 20 novembre 1990, n. 356) ed a quella degli enti pubblici economici (L. 29 gennaio 1992, n. 35; D. Lgs. 11 luglio 1992, n. 333).
     Si discute ancora oggi della possibilità per gli enti di porre in essere un negozio di trasformazione anche al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.
     Un orientamento dottrinale innovativo ne vorrebbe consentire la possibilità all’interno delle strutture di carattere associativo, comprendendo in questa categoria anche le associazioni in partecipazione, le associazioni temporanee di imprese e i gruppi europei di interesse economico. In alcune ipotesi, la tesi ha trovato accoglimento in giurisprudenza, che ha ammesso la trasformazione:
     – di un’associazione non riconosciuta in società per azioni ;
     – di un circolo culturale, anch’esso associazione non riconosciuta, in cooperativa;
     – di un’associazione tra consorzi fidi in cooperativa;
     – di una cooperativa in associazione non riconosciuta (numerose le pronunce in questo senso);
     – di una cooperativa in società consortile;
     – di una società di mutua assicurazione in società per azioni;
     – di una società di capitali in associazione senza scopo di lucro.
     Ma occorre ricordare anche le pronunce non favorevoli alla ammissibilità della trasformazione in ipotesi diverse da quelle legislativamente nominate. V’è infatti giurisprudenza che non ha ammesso la trasformazione:
     – di una impresa individuale in società di capitali;
     – di una società a responsabilità limitata in società semplice; altra giurisprudenza aveva qualificato come irregolare la società risultante dalla pretesa trasformazione di una accomandita semplice in società semplice;
     – di una impresa familiare in una società a responsabilità limitata;
     – di un consorzio in società consortile;
     – di una società sportiva a responsabilità limitata in associazione non riconosciuta;
     – di una cooperativa in associazione non riconosciuta (numerose le pronunce in questo senso).
     Dopo la tipizzazione della trasformazione da parte del diritto societario, costituisce invece punto oramai pacifico che la trasformazione non sia più collegata ad un fenomeno estintivo di un vecchio ente e costitutivo di un nuovo ente.
     La qualificazione in questi ultimi termini avrebbe – forse – potuto considerarsi ragionevole solo prima che il legislatore intervenisse a disciplinare l’istituto. Il legislatore della trasformazione di società ha inteso in questo senso fugare ogni dubbio, disponendo che la società che acquista personalità giuridica «conserva» (e non “acquista” o “succede” ne) i diritti e gli obblighi anteriori alla trasformazione (art. 2498 cod.civ.).
     La fattispecie è disciplinata similmente in altre ipotesi di trasformazione introdotte da leggi speciali, ove è però positivamente sancito un fenomeno successorio.
     All’art. 1, comma 3, D.L. 5 dicembre 1991, n. 386, convertito nella L. 29 gennaio 1992, n. 35 (trasformazione degli enti pubblici economici), si legge: le «società per azioni derivate dagli enti […] succedono a questi nella totalità dei rapporti giuridici».
     All’art. 16, D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356 (privatizzazione delle banche pubbliche), si legge: le «società bancarie risultanti dalle operazioni di cui all’art. 1 [tra le quali rientra la trasformazione] succedono nei diritti, nelle attribuzioni e nelle situazioni giuridiche dei quali gli enti originari erano titolari in forza di leggi e di provvedimenti amministrativi».
     Di fenomeno estintivo – costitutivo potrebbe peraltro continuare a parlarsi in tutte le altre ipotesi, se ritenute ammissibili, in cui non possa farsi applicazione, neppure analogica, dell’art. 2498 cod.civ. Penso, per esempio, alla trasformazione di una associazione (riconosciuta o meno, non cambia) in società di capitali e viceversa.
     Nel decreto in esame la sorte della sanzione in caso di trasformazione è disciplinata dall’art. 28. Quivi si legge: «Nel caso di trasformazione dell’ente, resta ferma la responsabilità dell’ente per i reati commessi anteriormente alla data in cui la trasformazione ha avuto effetto».
     La formulazione della norma in commento è evidentemente vicina all’art. 2498 cod. civ. Dalla Relazione al decreto apprendiamo difatti che la norma assume la trasformazione come «semplice mutamento del modulo organizzativo, che non incide sull’identità dell’ente».
     Non sussistono allora problemi di applicazione tutte le volte in cui si tratti di trasformazione disciplinata proprio dall’art. 2498 cod. civ. La società risultante dalla trasformazione è la stessa società che alla trasformazione ha proceduto; appare dunque congrua e appropriata la disposizione di legge per cui «resta ferma» la responsabilità per le sanzioni pecuniarie e quelle interdittive previste dagli art. 13 ss. della legge, di particolare interesse per il tema oggetto del presente contributo.
     Appare poi singolare che il legislatore si sia preoccupato della data in cui la trasformazione ha avuto effetto. Tale interesse rileverebbe unicamente nel caso in cui ci si confrontasse con un passaggio da una società con soci illimitatamente responsabili a società senza soci illimitatamente responsabili o viceversa; in tal caso, infatti, sarebbe importante accertare il momento di efficacia della trasformazione, onde stabilire quando tendenzialmente, salvo dettagli di diritto societario su cui è inutile soffermarci, cessa o ha inizio la responsabilità personale dei soci illimitatamente responsabili.
     Questa esigenza peraltro non sussiste nella specie. Secondo quanto disposto all’art. 27, comma 1, infatti, dell’obbligazione per il pagamento della sanzione risponde soltanto l’ente con il suo patrimonio o con il fondo comune. Ora, posto che l’ambito di applicazione del decreto copre anche le società prive di personalità giuridica, ne deriva che non sussiste un problema di responsabilità illimitata e sussidiaria dei soci per l’obbligazione sociale da illecito amministrativo. Si tratta di norma ovviamente eccezionale, che dispone autonomia patrimoniale perfetta limitata al caso della sanzione.
     Problemi applicativi potrebbero invece sussistere quando si ammetta la trasformazione al di fuori delle ipotesi legislativamente nominate (che, in un modo o nell’altro, comunque dispongono della sorte dei rapporti pendenti) e la si qualifichi come fenomeno estintivo del soggetto che procede alla trasformazione e costitutivo del soggetto risultante dalla trasformazione.
     È la stessa Relazione al decreto che afferma l’intenzione del legislatore di disciplinare il fenomeno della trasformazione con riferimento a tutti gli enti cui il decreto è applicabile; e non solo alle società: «Sebbene, infatti, gli istituti della trasformazione, fusione e scissione trovino regolamentazione generale e “tipica” in rapporto a queste ultime, il loro ambito di operatività è più vasto, potendo i corrispondenti fenomeni interessare anche enti di diversa natura (si pensi, ad esempio, alla vicenda della “trasformazione” degli enti pubblici economici in società per azioni di diritto privato)».
     In questo caso, infatti, la formula “resta ferma” si presta a equivoca interpretazione; e, se pure contraria alla intenzione del legislatore (che, secondo quanto si legge nella relazione al decreto, era quella di evitare che le vicende modificative dell’ente si risolvessero «in agevoli modalità di elusione della responsabilità»), è più aderente al dettato letterale l’idea di una responsabilità che appunto “resta ferma” al soggetto che procede alla trasformazione, e non “si muove” invece in capo al soggetto che risulta dalla trasformazione. Del resto, lo stesso legislatore utilizza al successivo art. 30 la formula «resta ferma» per individuare nella società scissa il soggetto che continua a rispondere della sanzione pecuniaria.
     Dovrebbe, tuttavia, aiutare l’interprete la più discorsiva formulazione della Relazione al decreto. Se la norma in commento manca di individuare in capo a chi “resta ferma” la responsabilità, non così accade nella Relazione, che appunto osserva: «nel caso di trasformazione resta ferma la responsabilità dell’ente trasformato …».

     3. La sanzione nei confronti della «specifica attività»
     Appare opportuno, a questo punto, approfondire il collegamento tra sanzione e attività coinvolta nella sanzione, argomento che si porrà quale ponte fra la trattazione dei temi della trasformazione e della fusione e scissione.
Le sanzioni interdittive colpiscono esclusivamente «la specifica attività alla quale si riferisce l’illecito dell’ente» (art. 14.1).
     È interessante segnalare come in argomento il legislatore si sia guardato dal fare riferimento sia al “ramo di impresa”, categoria adottata dal codice (art. 2204 cod. civ.), sia al “ramo di azienda”, categoria adottata dalla dottrina, in specie dalla dottrina che esclude che le nozioni di ramo d’azienda e ramo di impresa coincidano.
Conseguentemente, nella determinazione dell’ambito della «specifica attività» occorrerà adottare un approccio particolarmente restrittivo, ad esempio escludendo che il “mercato potenziale” della specifica attività sia colpito dalla sanzione.
     La precisazione è rilevante nel caso in cui alla trasformazione della società si accompagnino ampliamenti del mercato dell’attività di impresa dell’ente, come avviene, ad esempio, quando una società in nome collettivo si trasformi in una società per azioni allo scopo di poter svolgere la medesima attività nei confronti del pubblico.
     Sorge pertanto l’esigenza di comprendere quale sia l’area di incidenza delle eventuali preclusioni derivanti dalle sanzioni interdittive irrogate alla società, rappresentate anche dall’effetto interdittivo riferito al business illegittimamente condotto anteriore alla modificazione dell’ente: tali aspetti sono comuni alla – e anzi propri soprattutto della – disciplina della fusione e della scissione, e pertanto saranno oggetto di esame in quelle sedi.

     4. La fusione
     L’art. 29 del decreto dispone che nel caso di fusione, anche per incorporazione, l’ente che risulta dalla fusione risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti. Tale norma, come anche segnalato dalla Relazione, avrebbe voluto riprendere pedissequamente la formulazione dell’art. 2504 bis, comma 1, cod. civ. Le disposizioni tuttavia non sono esattamente identiche. Più propriamente, infatti, il codice civile sancisce che la società risultante dalla fusione «assuma gli», e non semplicemente «risponda» degli obblighi delle società estinte.
     La differenza però dovrebbe considerarsi priva di effetti applicativi: la fusione, infatti, è una “strage” a cui sopravvive necessariamente una sola società; quindi, non ha senso domandarsi se la società sopravvissuta sia titolare del debito, secondo la formula “assume”, oppure garantisca per l’ adempimento del debito altrui, secondo una formula più rispondente all’utilizzazione del termine “risponde”. Quest’ultima ipotesi sarebbe configurabile solo ove si ritenesse ammissibile una fusione cui non consegua estinzione del soggetto fuso o incorporato; ipotesi più simile ad una scissione dell’intero patrimonio sociale senza estinzione della società scissa. Non si tratta tuttavia di figura ammissibile, quanto meno nell’ordinamento societario.
     A proposito della fusione assume particolare rilevanza il profilo già segnalato al precedente paragrafo 3, ossia l’individuazione precisa della specifica attività cui si riferiscono le sanzioni interdittive.
     Il riferimento alla «specifica attività» consente di escludere che a causa della fusione si verifichi una sorta di “contagio”, per effetto del quale una circoscritta “infezione”, rappresentata dalla sanzione interdittiva a carico di una società di piccole dimensioni, si propaghi ad una società di grandi dimensioni che svolga la medesima attività economica esercitata dalla incorporata.
     Quanto ai limiti della permanenza della sanzione in capo alla società incorporata, la Relazione al decreto ha avuto cura di precisare che l’interdizione comminata alla incorporata non si propaga alla incorporante se non nei limiti in cui rimanga individuabile l’originaria attività destinataria del provvedimento di interdizione. L’enunciazione astratta è certamente condivisibile, ma non risolve automaticamente ogni questione in ordine alla divisata individuabilità dell’attività.
     Ad esempio, nell’ipotesi di fusione fra due società esercenti la medesima attività dal punto di vista merceologico, ma operanti in territori diversi, sarebbe agevole concludere che, se una delle società partecipanti alla fusione sia colpita da una sanzione interdittiva, nessuna conseguenza sulla sanzione è determinata dalla fusione. Ma quali sarebbero le conseguenze se una società operante su base nazionale incorporasse una società operante su base locale che fosse destinataria di sanzioni interdittive? Tenuto anche conto dell’esempio appena considerato, non mi sentirei di concludere che l’inclusione di un mercato locale all’interno di un mercato nazionale determini una “confusione” tale da eliminare l’individuabilità della specifica attività cui si riferisce l’illecito dell’ente. Del resto, sarebbe altrimenti troppo facile eludere l’applicazione delle sanzioni interdittive, ricorrendo a fusioni con società semplicemente “più grandi”.
     Va in proposito segnalato un serio problema operativo: nel momento in cui sulle società inizia a incombere la minaccia delle sanzioni interdittive, queste sanzioni si trasformeranno in passività potenziali a carico di queste società, suscettibili di tradursi in sopravvenienze passive. Tali sopravvenienze potrebbero determinare conseguenze ben più gravi di quelle determinate dall’insorgenza di un debito pecuniario, perché potrebbero determinare significativi effetti di disavviamento delle società.
     Ne consegue l’esigenza che i soci delle società partecipanti alla fusione verifichino che la fusione non avvenga con una società che rischi di essere “infettata”. Tale controllo è opportuno non per il timore del contagio (perché, come anticipato, il contagio non si estenderebbe, in linea di principio, alla parte sana), ma per le eventuali conseguenze in termini di disavviamento a carico dell’attività che viene trasferita per effetto della fusione.
     Quindi, si può immaginare che nel corso dei lavori di due diligence volti a verificare la regolarità amministrativa, contabile e legale della gestione, sorga ormai anche l’esigenza di effettuare delle indagini ad hoc, mirate a verificare, nei limiti in cui naturalmente tutto ciò sia verificabile ex ante, anche il rischio di sanzioni interdittive che incombano sulla testa di una delle società partecipanti alla fusione.
     Sembra opportuno, d’altro canto, che i soci delle società partecipanti alla fusione stipulino dei patti parasociali in vista della fusione, nei quali stabiliscano dei meccanismi di indennizzo, in termini ad esempio di aggiustamento dei rapporti di cambio (ovviamente con riguardo ai soli rapporti interni), volti a fronteggiare questo tipo di eventualità negative.

     5. La scissione
     L’atto di scissione è negozio che ha una componente anzitutto organizzativa (del tutto prevalente rispetto all’effetto del trasferimento dei beni), e che risponde all’interesse della compagine societaria di articolare diversamente il proprio investimento.
     L’operazione di scissione si svolge attribuendo ai creditori una tutela delle ragioni di credito vantate, assicurando loro, ai sensi del comma 3 dell’articolo 2504-decies cod.civ., l’invarianza della responsabilità patrimoniale del debitore originario ex art. 2740 cod. civ. verso ciascun creditore.
     Oggetto della scissione possono essere sia elementi del passivo, senza che occorra il consenso del creditore, sia elementi dell’attivo. Nel solo caso in cui sussista un dubbio circa la destinazione di un elemento del passivo (dubbio ricorrente ad esempio nel caso di passività sopravvenute), il creditore non ha l’onere di previamente individuare il soggetto passivamente legittimato, potendo indifferentemente rivolgersi alla scissa come alla beneficiaria (o a ciascuna delle beneficiarie, in caso di scissione totale), poiché entrambe rispondono solidalmente (art. 2504 octies, comma 3, cod. civ.).
     Al contrario, il comma 1 dell’art. 30 del decreto dispone che, nel caso di scissione parziale, resta ferma la responsabilità dell’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data in cui la scissione ha avuto effetto (salvo l’obbligo non pecuniario relativo alle sanzioni interdittive, che, secondo il disposto del successivo comma 3, segue la sorte del ramo di attività cui le sanzioni si riferiscono).
     La norma sancisce dunque l’intrasmissibilità per scissione parziale dell’elemento del passivo rappresentato dal debito per sanzione pecuniaria.
     Sul punto, tra l’altro, sarà interessante notare come siano stati sanciti due diversi regimi di spostamento del debito pecuniario, a seconda che si tratti della sanzione pecuniaria originaria, regolata dal primo comma, ovvero della sanzione pecuniaria frutto della conversione della sanzione interdittiva (effettuata ai sensi dell’art. 78) la cui circolazione è regolata dal terzo comma.
     La suddetta intrasmissibilità del debito pecuniario è confermata dal disposto del comma 2 dell’art. 30, secondo cui le società beneficiarie della scissione hanno «l’obbligo di pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data in cui la scissione ha avuto effetto».
     La norma conferma l’interpretazione perché, da un lato, si riferisce alle sole società beneficiarie, e, dall’altro, espressamente presuppone che il “debitore principale” sia l’ente scisso. Inoltre, essendo le norme in questione volte a regolamentare il regime di interessi non disponibili, il loro carattere imperativo dovrebbe imporre di concludere che la società non può determinare – né pattuire dopo la scissione – un accollo di questo onere che sia non conforme alle prescrizioni dell’art. 30.
     È interessante notare che, mentre le società derivanti dalla scissione rispondono dei debiti nei limiti del «valore effettivo» del patrimonio netto, secondo l’infelice formula già adottata dall’art. 2504-decies cod. civ., l’obbligo di pagamento non è soggetto a tale limitazione in caso di trasferimento, anche parziale, del ramo di attività “compromesso”.
     L’art. 30 nulla prevede nel caso di scissione totale. Ma l’omissione è solo apparente: infatti, estinguendosi la società che era l’originaria debitrice del debito pecuniario, quel debito non potrà non trasferirsi alle altre società. Peraltro, il comma 2 dell’art. 30 dispone che gli enti beneficiari della scissione, anche totale, sono solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso, ma individua per ciascun ente beneficiario un diverso grado di responsabilità. Se, da un lato, l’obbligo è limitato al «valore effettivo del patrimonio netto» trasferito al singolo ente, al contrario, questa limitazione di responsabilità non vale nei casi di ente al quale è stato trasferito – anche in parte – il ramo di attività nell’ambito del quale è stato commesso il reato.
     Appare evidente come in quest’ultimo caso si fondano le “filosofie” adottate dal legislatore a proposito della circolazione delle sanzioni interdittive e della sanzione pecuniaria, filosofie per il resto fortemente differenziate.
     Per le sanzioni interdittive, infatti, la “legge di circolazione” è diversa.
     L’effetto naturale della scissione – anche questo inderogabile – è, a seconda dei casi, il permanere della sanzione interdittiva in capo all’ente cui è rimasto il ramo di attività nell’ambito del quale il reato è stato commesso, ovvero il suo trasferimento in capo all’ente beneficiario di detto ramo d’attività. Peraltro, le filosofie tornano probabilmente a sovrapporsi in caso di trasferimento parziale dell’attività, caso nel quale, stando al tenore letterale del comma 3, sembrerebbe che destinatari della sanzione interdittiva siano ambedue le società.
     In questo solo caso quindi il comma 3 riprodurrebbe la scelta del comma 2; ma un conto è un’obbligazione pecuniaria solidale, la cui estinzione da parte di un obbligato libera gli altri coobbligati; ben altro conto è un dovere di rispettare una sanzione interdittiva, che definitivamente grava su due diversi soggetti. Onde evitare la sensazione di ingiustizia della conclusione in rassegna, sarà indispensabile circoscrivere rigorosamente l’area della “attività” sanzionata.
     È interessante notare quali conseguenze potrebbero derivare dal fatto che il trasferimento patrimoniale effetto della scissione non pone un problema di inerenza; dal fatto cioè che il trasferimento degli elementi dell’attivo e del passivo potrebbe avvenire seguendo un criterio diverso da quello della “attività”. Nel caso in cui l’attività cui si riferisce l’illecito si smembrasse fra più società coinvolte nella scissione – in modo che non fossero più riconoscibili gli elementi significativi dell’attivo e del passivo (i quali originariamente facevano capo a questa attività) – non sarebbe più possibile applicare le sanzioni interdittive.
     Tuttavia, nel caso in cui “l’attività” non fosse riconoscibile all’interno di nessuno fra gli enti partecipanti alla scissione, non si potrà ritenere che la società scissa abbia eluso la legge; essa infatti, “distruggendo” l’attività incriminata, si è assoggettata spontaneamente a una sanzione ancora più radicale delle sanzioni interdittive.
     Prescindiamo dalla scissione del resto. Le conclusioni non muterebbero neppure se una società destinataria di una sanzione interdittiva si “autopunisse” azzerando il ramo di attività cui si riferisce l’illecito dell’ente.

     6. Il trasferimento d’azienda
     Davvero singolare, infine, è la disciplina della sorte delle sanzioni nel caso di trasferimento d’azienda, recata dall’art. 33 del decreto.
     Come anticipato, tecnicamente ineccepibile è muovere dall’impianto di sistema per cui fusione e scissione sono anche e soprattutto riorganizzazioni dei patrimoni appartenenti ai soci, mentre il trasferimento dell’azienda o di un ramo d’azienda è un atto intersoggettivo nel quale il trasferimento di patrimonio è oggetto diretto – e non semplicemente un effetto – dell’atto.
     Queste conclusioni sono fondamentali nel diritto commerciale; ma esse sono non solo non fondamentali, ma probabilmente inopportune in sede di disciplina differenziata delle sanzioni, come mi accingo a dimostrare.
     La Relazione, a proposito dell’art. 33, osserva che occorre contemperare l’esigenza di evitare facili elusioni della legge con l’esigenza della libertà dei traffici e della circolazione dei beni.
     Al primo interesse corrisponde il precetto recato dal comma 1 dell’art. 33, che appunto per il pagamento della sanzione pecuniaria sancisce la responsabilità solidale dell’acquirente d’azienda, con il (non si comprende perché la legge dica «salvo il») beneficio della preventiva escussione del cedente. Al secondo interesse corrispondono da un lato il comma 2, secondo cui la «obbligazione del cessionario è limitata alle sanzioni pecuniarie che risultano dai libri contabili obbligatori, ovvero dovute per illeciti amministrativi dei quali egli era a conoscenza»; dall’altro lato il silenzio della legge a proposito delle sanzioni interdittive, che dunque, stando ai principi generali (che non consentono di cogliere nella cessione di azienda un fenomeno successorio), rimangono in capo al cedente.
     Tali scelte però consentono agevoli manovre elusive. Infatti, sfuggono alla sanzione:
     – tutte le cessioni effettuate prima che l’illecito sia in qualche modo contestato alla società, poiché prima di quel momento la relativa obbligazione pecuniaria non avrebbe potuto trovare iscrizione nei libri contabili obbligatori;
     – tutte le cessioni nelle quali le scritture contabili, eventualmente anche irregolarmente tenute, non rechino traccia del debito pecuniario da sanzione amministrativa.
     Sfuggono infine alla sanzione tutte le cessioni nelle quali la conoscenza del cessionario si estendeva all’illecito penale ma, come anche tiene a far notare la Relazione al decreto, non arrivava alla individuazione della sussistenza dei presupposti dell’illecito amministrativo.
     Orbene, come anticipato, appare singolare la previsione legislativa secondo cui la sanzione interdittiva non circola in caso di trasferimento d’azienda, ma circola, al contrario, nel caso di scissione. In tale situazione, il rischio di elusione della legge appare molto elevato.
     Infatti, il destinatario di una sanzione interdittiva che, per esempio, non possa più vendere coperte ad un Ministero in ragione di una sanzione interdittiva ricevuta, potrebbe semplicemente vendere l’azienda, o il ramo d’azienda contenente quell’attività, ad un suo prestanome, affinché questi continui a esercitare l’attività che gli è preclusa. Sarebbe agevole obiettare a questa osservazione che il ricorso a un prestanome è pratica che non può essere sanzionata in anticipo e in astratto. Il problema è però che nella specie la legge incentiva tale pratica, come si desume dalla scelta più o meno esplicita compiuta a proposito della circolazione delle sanzioni interdittive all’interno di un gruppo.
     Il legislatore, infatti, ha completamente ignorato i particolari aspetti propri del fenomeno di gruppo. Ne consegue che non risulta più necessario neanche utilizzare un prestanome, perché è sufficiente che il responsabile del reato sposti l’azienda utilizzata per l’esercizio dell’attività sanzionata, come avviene continuamente nei gruppi di società, dalla società originariamente destinataria della sanzione interdittiva, ad un’altra società del gruppo, ovvero ad una consociata. In tal modo l’acquirente di azienda si sarà ricostruito una nuova immagine.
     Ma c’è di più: il legislatore, l’unica volta che è intervenuto con un riferimento ad gruppo, invece di tentare di arginare fenomeni elusivi della legge realizzabili attraverso fenomeni di gruppo, ha definitivamente avallato questa perversa conseguenza. Ancora una volta, in maniera libresca, il legislatore ha tenuto a precisare, al terzo comma dell’articolo 33, che la disciplina del trasferimento di azienda vale anche nel caso di conferimento di azienda.
     Innanzitutto, non era necessario procedere a tale precisazione, in quanto era scontata; ma, soprattutto, in questo modo il legislatore ha definitivamente legittimato la disapplicazione sistematica delle sanzioni interdittive tramite il ricorso al gruppo.
     Torniamo all’esempio della società che venda coperte ad un Ministero, e venga successivamente sanzionata; la società è autorizzata da questa legge a conferire la propria azienda ad una società controllata al 99% da essa stessa e all’1% da un’altra società del medesimo gruppo. In tal modo il gruppo gode dell’applicazione dell’art. 33 e quindi, salvo rispondere, nei limiti che abbiamo veduto, del debito pecuniario da sanzione pecuniaria, è espressamente autorizzato dal legislatore a sfuggire alle sanzioni interdittive.
     Tale conclusione è francamente sorprendente.
     L’atteggiamento per cui il fenomeno di gruppo non solo non viene disciplinato, ma nell’unico passaggio in cui viene (implicitamente) preso in considerazione autorizza a eludere la legge, appare tanto errato sul piano della politica criminale quanto, sul piano interpretativo, insuperabile.
     Ne consegue una seria questione di costituzionalità, perché ai fini dell’applicazione di questo tipo di leggi l’adesione alle differenze di inquadramento teorico-sistematico di certe operazioni può condurre a ingiustificate disparità di trattamento.
     Mi sembra, in particolare, che il legislatore avrebbe dovuto discriminare fra le situazioni non già in ragione dei diversi tipi di vicende modificative coinvolte, bensì in ragione degli spostamenti di proprietà sostanziale eventualmente determinatisi. In altre parole, da un lato si dovrebbe immaginare che nessuna sanzione interdittiva dovrebbe essere destinata a svanire se l’azienda coinvolta rimane sotto il sostanziale “controllo” del responsabile originario (indipendentemente dal fatto che ricorra una scissione o un trasferimento d’azienda); e dall’altro lato possiamo immaginare che l’estinzione delle sanzioni interdittive rimanga anche nei casi in cui venga stipulato non solo un atto intersoggettivo, ma anche un atto che, in astratto, sia un semplice atto di pura riorganizzazione, ma che in concreto determini la perdita del controllo da parte dell’originario responsabile.
     Pensiamo a una scissione in una società gia costituita, nella quale l’originario azionista di controllo diventi socio di minoranza: in questo caso è assurdo che le sanzioni interdittive colpiscano la nuova società che ha ereditato l’attività della società scissa, mentre la nuova società sfugge alle sanzioni interdittive se acquisisce – per compravendita o conferimento – l’azienda. E ancora più assurdo è che, rimanendo il business all’interno del gruppo, il dominus riesca a darsi da sé un “colpo di spugna”.
     Per contro, le sanzioni pecuniarie, per quanto possano essere elevate, non sembrano costituire un vero deterrente, tanto più tenuto conto della specificazione di legge che l’acquirente dell’azienda risponde – peraltro con il beneficio di escussione – nei limiti del “valore” dell’azienda ceduta. Anche a questo proposito va osservato che il legislatore non ha sufficiente conoscenza dalla pratica degli affari. È infatti ricorrente il caso di aziende, anche di grande valore, che vengono trasferite nummo uno dopo essere state “caricate” di debiti pari al valore dell’attivo, spesso allo scopo di azzerare l’imposta di registro. Sarebbe stato pertanto più logico, se proprio si fosse voluto apporre un limite alla responsabilità dell’acquirente, riferirsi al valore dell’attivo aziendale, e non al valore complessivo dell’azienda.
     Anche tale previsione evidenzia la generosità dell’art. 33, a differenza delle rigorose norme commentate in precedenza.
     Del resto, più in generale, appaiono incongrue le scelte del legislatore, al contrario di quanto esso ha ritenuto, quando da un lato con le sanzioni interdittive vuole gravare di un disavviamento negativo le attività incriminate, e dall’altro lato consente che tale disavviamento non incida sul valore di tali attività riducendone il prezzo di vendita, quando queste attività vengano vendute.

     7. Conclusioni
     Mi sembra quindi di aver dato conto del mio originario commento, secondo cui una pedissequa applicazione delle distinzioni proprie del diritto societario in questo settore conduce a effetti distorsivi.
     Il mio giudizio nei confronti della legge in generale rimane peraltro di estremo interesse, perché credo che essa adotti i più appropriati deterrenti nel campo della criminalità economica. Indubbiamente, la legge rappresenta una rivoluzione copernicana – che peraltro ancora una volta il nostro legislatore ha introdotto non perché particolarmente attento, bensì perché vincolato da obblighi internazionali – anzitutto a seguito del superamento del principio “societas delinquere non potest”.
     Ma tale evoluzione normativa rappresenterà la base per ulteriori evoluzioni dell’ordinamento.
     Per esempio, si dovrà ripensare uno dei temi più dibattuti del diritto societario in materia di amministrazione. Si osserva frequentemente, e lo ha sancito anche una sentenza del Supremo Collegio a sezioni unite, che gli amministratori non hanno diritto al rimborso delle spese di difesa nel processo penale anche quando siano assolti, perché trattasi di spese sostenute semplicemente in occasione dello svolgimento della carica amministrativa.
     Infatti, il mandatario – come si può considerare l’amministratore se non altro per alcuni profili – ha diritto al rimborso delle spese sopportate a causa dell’incarico, ma non al rimborso delle spese sopportate semplicemente in occasione dell’incarico. E le spese di difesa in un procedimento penale non si potrebbero mai considerare sopportate in occasione dell’incarico, in ragione del fatto che il (rischio di) compimento di un illecito penale è per principio estraneo all’amministrazione di una società. Quindi, l’amministratore non avrebbe diritto al rimborso di quei costi da parte della società neppure se fosse assolto.
     Orbene, nel momento in cui una legge dà atto del fatto che alcune irregolarità, anche penalmente rilevanti, possono essere compiute, anche in via esclusiva o prevalente, nell’interesse e/o a vantaggio della società, mi sembra si debba concludere che sussiste un riconoscimento legislativo del fatto che, se non altro in alcuni casi, alcune censure penali mosse all’amministratore sono relative a comportamenti tenuti a causa dell’incarico, e non già semplicemente in occasione dello stesso.
     Ciò autorizza a ritenere che cambierà radicalmente la giurisprudenza civile sulla rimborsabilità di questi oneri, se non altro nel caso in cui l’amministratore sia stato prosciolto con formula piena.
     A dir la verità, la questione dell’interpretazione del termine “formula piena” andrebbe approfondita, verificando la tenuta della conclusione riferita nei diversi casi di assoluzione: per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato, per difetto dell’elemento psicologico. Ma non è questa la sede per tale approfondimento. Preferisco piuttosto “rilanciare”, sollevando un’altra questione, indotta dall’intervenuto riconoscimento legislativo del principio che il reato può essere commesso nell’esclusivo interesse della società.
     Dovremmo forse cominciare a riflettere anche sulla rimborsabilità delle spese di difesa nei casi di condanna dell’amministratore; o se non altro sulla possibilità che l’amministratore possa pattuire con la società il rimborso delle spese di difesa anche nel caso di condanna, senza correre il rischio di una illiceità del patto.
     Né si può dire che questo patto rischia di tradursi in un incentivo a delinquere, perché rimarrebbe pur sempre fermo il principale disincentivo a delinquere, e cioè le restrizioni della libertà personale e le sanzioni accessorie, dalle quali l’amministratore mai potrebbe essere tenuto indenne per patto.

 

     * Il presente lavoro – che riproduce, omesse le parole di circostanza, il testo di una relazione presentata al Convegno del 3 luglio 2001 sulla responsabilità delle persone giuridiche organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre – è destinato alla pubblicazione sulla Rivista del diritto commerciale e delle obbligazioni.

 

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